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Non tradire se stessi, nonostante tutto: "O Caledonia", il romanzo feroce e lirico di Elspeth Barker

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O Caledonia
di Elspeth Barker
Bompiani, marzo 2024

Traduzione di Beatrice Masini

pp. 192
€ 18 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook) 


In un mercato editoriale di casi letterari costruiti a tavolino, fascette ripetitive e un consumo frenetico che accorcia inesorabilmente il ciclo di vita di un libro, O Caledonia è una di quelle gemme rare che rischiano di perdersi nel marasma delle numerosissime uscite: l’attenzione di critica e lettori italiani, infatti, è stata piuttosto debole, schiacciata dal peso di altre uscite altisonanti e forse una comunicazione un po’ frettolosa. È, invece, una delle pubblicazioni più interessanti di quest’anno, con una storia editoriale peculiare. 

Pubblicato per la prima volta in inglese nel 1991, è l’unico romanzo della giornalista letteraria Elspeth Barker, nata a Edimburgo nel 1940 e scomparsa nel 2022; un testo che all’epoca entusiasmò tanto la critica quanto i lettori anglofoni e valse all’autrice premi, riconoscimenti e una lunga stagione di successo. Poi, come misteriosamente accade a titoli di innegabile pregio, il libro è finito nell’oblio e a lungo è rimasto fuori catalogo. Finché, nel 2021, O Caledonia è stato riscoperto e pubblicato da Scribner con l’accorata introduzione della scrittrice Maggie O’Farrell, che ne rivendica il valore letterario. Bompiani porta ora per la prima volta in Italia il romanzo di Barker, nell’attenta traduzione di Beatrice Masini e con la stessa prefazione dell’edizione inglese, sicuramente utile ai lettori per avvicinarsi a questa strana creatura che è O Caledonia. Non fatevelo sfuggire, quindi, godete di queste pagine e di una scrittura che mescola abilmente spunti e generi letterari diversi: il gotico, il mito classico, l’autofiction, il romanzo di formazione, la tradizione scozzese, gli echi shakespeariani. Un testo denso, stratificato, dai molteplici livelli di lettura, capace di intrecciare ferocia e lirismo.

O Caledonia ha qualcosa di unico e al contempo richiama altre letture, altri personaggi: la Merricat di Abbiamo sempre vissuto nel castello e certe atmosfere di Shirley Jackson, le istanze del gotico, Walter Scott, la brughiera delle sorelle Brönte, l’essenza felina della protagonista di Lolly Willowes… Echi sotterranei, rimandi a letture e interessi personali, riferimenti diretti – tra cui il McBeth di Shakespeare – e una prosa ispirata, ammaliante. Difficile etichettare questo romanzo, forse nemmeno particolarmente necessario. Folgorante già da principio:

A metà della grandiosa scalinata di pietra che parte dal cupo ingresso a volta di Auchnasaugh c’è un’alta vetrata. La sommità dell’arco gotico ospita un pannello circolare in cui un cacatua bianco, il petto trafitto da una freccia, si abbandona alla morte […]. Fu lì che trovarono Janet, curiosamente vestita dell’abito da sera di pizzo nero della madre, contorta e abbandonata nella morte sanguinosa e brutale che fu la sua. (incipit, p. 13)

Janet è la protagonista assoluta di questa storia e quella di Barker è una narrazione a ritroso, che parte dalla fine per tornare al principio. Parte infatti dalla morte tragica della sedicenne Janet, torna alla sua nascita per ripercorrerne la vita curiosa, fuori dall’ordinario, in un romanzo di formazione decisamente poco convenzionale, al pari della sua non-eroina. Una morte «sanguinosa e brutale», ma che andava presto dimenticata:

Aveva rovinato la loro vita; che non rovinasse anche la loro morte. E così, dopo che l’assassino fu rinchiuso in un luogo sicuro per il resto dei suoi giorni, e quando l’erba fu cresciuta sulla tomba, il nome di Janet non venne più pronunciato da coloro che l’avevano conosciuta meglio di chiunque altro. Andava dimenticata. (p. 14)

Chi sia l’assassino di Janet in fondo non è così importante e, pagina dopo pagina a ritroso nel tempo, finiamo per dimenticarci di quel macabro incipit, perché l’attenzione è tutta sulla vita eccentrica e solitaria di Janet, nel decadente castello di famiglia nelle Highland scozzesi, a qualche ora di macchina da Edimburgo. È tra quelle mura antiche, circondata da una natura di una bellezza brutale e selvaggia, che Janet cresce e tenta in ogni modo di rimanere se stessa: nonostante gli obblighi sociali – che puntualmente fallisce – , le aspettative, perfino nonostante la crescita che dall’infanzia la traghetta verso il mondo adulto. Le verrà richiesto di adeguarsi – a quale ragazza non viene richiesto? – , di mettere da parte le eccentricità, di socializzare con altre ragazze, di dimenticare i libri e la passione bruciante per la conoscenza. Mai Janet tradirà sé stessa.

O Caledonia, in fondo, è proprio questo, il grido di libertà di una ragazza che non vuole tradire il suo essere profondo, nonostante tutto.

Ad Auchnasaugh, l’amata dimora, dove intende passare tutti i suoi giorni, da viva o da morta poco importa: Avrebbe vissuto i suoi giorni ad Auchnasaugh, una zitella con la mania dei libri, circondata da gatti e pappagalli, fino al momento in cui sarebbe diventata eterea, puro spirito incontaminato dalle miserie della carne, un fantasma in volo con i venti. Quanto si sarebbe divertita da fantasma. Non vedeva l’ora. (p. 82)

Rimanere se stessa è però anche causa di dolore, solitudine e isolamento. C’è un momento preciso in cui essere diversa provoca a Janet una fitta di dolore acuto, un’estraneità dal mondo che diventa evidente e insuperabile e che coincide con il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, l’avventurarsi oltre le mura di Auchnasaugh. L’intelligenza feroce e le eccentricità che la contraddistinguono la isolano tra i compagni del collegio in cui viene mandata a studiare: insofferente a tutto ciò che pare essere richiesto a una ragazzina del suo ceto e sesso, indifferente alle convenzioni, soffre della lontananza dal castello e dell’essere lacerata tra desiderio di non tradire se stessa e accettazione. Ma non potrà mai essere popolare, non è nella sua natura conformarsi. È in questa sua autenticità – questa sì più forte e pulsante di quella tanto ricercata dal famoso Holden – che risiede la forza unica del personaggio, caleidoscopio di emozioni, sentimenti, rabbia, ferocia, bellezza. Ma è destinata alla tragedia. Incapace di vivere in mezzo agli uomini: l’unico essere umano con cui pare avere una certa affinità è la strana zia Lila, che «si sospettava fosse pazza, e anche una strega», perché cos'altro può essere in questo mondo una donna sola, che beve, non si cura degli altri o del suo aspetto.

È nella natura selvatica, invece, che Janet trova pienamente sé stessa e il rapporto umano-mondo naturale è tra i nodi centrali di questo romanzo non convenzionale. Il legame con la natura e gli animali è per Janet più intenso e sentito di quello con gli esseri umani, verso i quali prova un disgusto «sia fisico che intellettuale», nonostante il segreto desiderio se non di popolarità almeno di accettazione. Troppo evidenti e imperdonabili, però, sono per Janet i difetti dell’uomo:

Era una vita severa, ma per Janet era addolcita dal paesaggio, dalle letture e dagli animali, che riusciva ad amare senza aggettivi. Le persone le sembravano piene di difetti e crudeli. Notava i piccoli sgarbi di Vera verso Lila, la freddezza di Lila verso chiunque tranne il suo gatto spelacchiato, la ferocia selvatica dei ragazzi. Ovunque c’era questa orribile crudeltà verso gli animali. (p. 70)

Crudeltà verso gli animali, ma anche indifferenza: è così, infatti, che passa quasi del tutto ignorata la morte dell’amato corvo di Janet a poca distanza da quella della “padrona”; ma non è, non può esserlo in questa storia, un dettaglio di poco conto. E forse sta anche qui il senso di questo romanzo e una delle sue chiavi di lettura più importanti, ben più della sterile ricerca alla nota autobiografica: non tradire mai se stessi – se stesse, soprattutto, che tanto siamo portate a farlo – costi quel che costi, muoversi nel mondo con maggior consapevolezza dell’ambiente naturale e degli esseri viventi che lo popolano, alla ricerca di un rapporto ancestrale che pare perduto.

Ma è anche un romanzo attraversato da un sottile riferimento ai soprusi del patriarcato, a una realtà – la Scozia dell’immediato dopoguerra, non così distante dalla nostra per la verità – in cui certe vite, ci ricorda Barker, sembrano valere più di altre: quelle degli esseri umani in confronto a quelle animali – e qui mi viene in mente il complesso Guida il tuo carro sulle ossa dei morti di Olga Tokarczuk, la riflessione sul rapporto uomo-animali e la gerarchia di rispetto e crudeltà – ma anche quelle degli uomini rispetto alle donne.

Era convinzione di Hector che una femmina fosse una forma inferiore di maschio; questa disdicevole condizione si poteva correggere, o migliorare, con l’istruzione. Per questa ragione aveva fondato una scuola maschile, in modo che le figlie la potessero frequentare. (p. 67)

Almeno a Janet è concessa un’istruzione. La porterà alla rovina? Probabile. Ma almeno per un po’ sarà sé stessa. E questo, oggi più che mai, un tesoro dal valore inestimabile.


Debora Lambruschini