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Luigi Tenco raccontato con le sue stesse parole: "Lontano, lontano", un'appassionante raccolta autobiografica curata da Enrico de Angelis ed Enrico Deregibus

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Lontano, lontano
di Luigi Tenco
Il Saggiatore, 2023

pp. 440
€ 26 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)


Non un libro su Luigi Tenco, ma un libro, anzi un bel libro, di Luigi Tenco, come i curatori Enrico de Angelis ed Enrico Deregibus si sono premurati di avvisare nell’introduzione al testo: «Si è sempre detto molto a proposito di Luigi Tenco. A proposito e a sproposito. Ma quel che diceva lui è sempre passato in secondo piano.» (p. 13).
Non si tratta dunque di una biografia su uno dei più influenti cantautori italiani del Novecento, ma di una raccolta autobiografica: è tutto ciò che Tenco ha detto su di lui, o almeno tutto quello che è rimasto ed è arrivato fino a noi, detto con le sue parole, nelle interviste radio, nelle lettere alla madre, negli articoli di giornale e persino nei temi scolastici delle elementari.

Emerge il ritratto di un artista contro, autenticamente contro. Autentico verso se stesso e verso i valori in cui credeva, quelle convinzioni che desiderava esprimere cantando, e contro la mediocrità della gente, contro gli imbellettati sorrisi privi di sincerità, contro le canzonette simpatiche che regalano soldi e notorietà, ma non dicono nulla di interessante. «La mia più grande ambizione», disse Tenco intervistato nel ’62 da Radio Rai, «è quella di fare in modo che la gente possa capire chi sono io attraverso le mie canzoni, cosa che non è ancora successa.» (p. 132).

Di lui è stato detto molto, sottolineano i curatori di questo poderoso testo che si fa leggere con l’inebriante curiosità di chi vuole scoprire ciò che davvero dimorava nella mente dell’artista e non quello che ne dicevano gli altri. Comparato a Jacques Brel, di Luigi Tenco si è sempre cercato di dare una definizione. Giornalisti, pubblico e cantanti cercavano di incassettarlo dentro a un ruolo, forse proprio perché da un profilo netto e preciso lui è sempre riuscito a sfilarsi: «Tenco, l’anticonformista della canzone italiana.» (p.185). Non amava i “personaggi”, costruirsi attorno una maschera per raggiungere la fama, né entrare in quella usitata «retorica di strutture sorridenti» (p. 146). Lui voleva «invece essere vero, essere me stesso. Con le mie idee, giuste o sbagliate che siano, ma alle quali tengo molto.» (p. 209).

Nel 1959 lascia la facoltà di Ingegneria e si iscrive a Scienze politiche, nello stesso anno nasce il termine “cantautore”, ma Tenco suona ancora soltanto per hobby. Anche quando inizia a cantare inventerà degli pseudonimi per rimanere anonimo, per non dare l’idea che questa sia la sua vera carriera. Sua madre, verso la quale rimane sempre molto legato e a cui dedica la meravigliosa e potentissima «Vedrai, vedrai», non lo vorrebbe.

Appassionato di ciclismo, ammette che gli sarebbe piaciuto fare il geologo o l’archeologo, lavorare viaggiando. Per fortuna per noi ha continuato a cantare, anche se per breve tempo. Le sue ispirazioni erano Bertold Brecht, Chet Baker e Nat King Cole, tra gli altri. Girava voce che fosse un ragazzo taciturno, triste, scorbutico. Invece era un uomo serio e maturo con gli anni di un ragazzo, e di cose da dire ne aveva parecchie e aveva voglia di dirle, di trasmetterle alla gente attraverso la sua voce nitida e malinconica.
Canterò finché avrò qualcosa da dire, sapendo che c’è qualcuno che mi sta a sentire e applaude non soltanto perché gli piace la mia voce ma perché è d’accordo con il contenuto delle mie canzoni. E quando nessuno vorrà più stare ad ascoltarmi, bene, canterò soltanto in bagno facendomi la barba. Ma potrò continuare a guardarmi nello specchio senza avvertire disprezzo per quello che vedo (p. 190)
Ma il mercato dell’epoca non era pronto, alcune sue canzoni divennero “canzoni proibite”, perché gli premeva protestare contro la corruzione, il burocratismo, il qualunquismo. Testi che parlavano di sesso e di politica in modo ardito; testi antimilitaristi e sull’immigrazione come «Li vidi tornare» e «Ciao amore»; testi in cui il grande amore è messo alle strette e un uomo innamorato è innamorato semplicemente perché non aveva “niente da fare”; testi che esprimevano la sua idea impopolare e anticlericale sul matrimonio, in linea con il dibattito sociale dell’epoca riguardante il divorzio:
Non volevano proprio lasciarmi dire quello che penso io del matrimonio, oggi. […] Per esempio, io sono contro il divorzio. Lo considero una bruttura una faccenda ipocrita da gente senza spina dorsale. Il matrimonio o è un contratto indissolubile, per la vita, o è inutile che ci sia. […] Ma questo andava bene fino al secolo scorso. La vita sociale di oggi è aperta, ha superato i nuclei. […] Io non me la sento, perciò evito di sposarmi. Oh, sì, c’è il matrimonio d’amore. Ma come si fa ad essere sicuri che l’amore durerà tutta la vita? (pp. 194-195)
Poco o niente sulla sua morte in questo testo, una scelta voluta e dichiaratamente espressa dai due curatori (e a ragione). Della sua tragedia e di tutto il mistero che se n’è fatto attorno si sa già tanto, forse troppo, perché sembra che sia l’unica cosa che rimanga, che valga la pena di sapere su Luigi Tenco. Questa raccolta è importante perché serve a far parlare, una volta e per tutte, Tenco con le sue parole («s’intende, al di fuori delle canzoni» p. 13). E le definizioni, le interpretazioni saltano, se vuole il lettore le farà intimamente. Questo libro è stato un viaggio nei panni di un’altra persona, ed è inutile dire che leggerlo con il sottofondo delle canzoni di Tenco è un obbligo assoluto.

Federica Cracchiolo