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La forza degli sguardi complici: di ri- e decostruzioni in “Lettere a mia nonna” di Djamila Ribeiro

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Lettere a mia nonna
di Djamila Ribeiro
Capovolte, novembre 2023

Traduzione di Alessia Di Eugenio e Nicola Biasio

pp. 192
€ 15,00 (cartaceo)


Lettere a mia nonna è un libro toccante, potente oltre ciò che potremmo intuire, necessario, formativo. È la storia di Djamila Ribeiro, una delle più grandi attiviste e femministe afrobrasiliane del nostro contemporaneo, ma è anche la storia di molte donne Nere che hanno dovuto lottare contro la dominazione coloniale, il razzismo, la marginalizzazione, il silenzio. “È un grande abbraccio alle donne Nere, che contro tutti i processi di deumanizzazione aprono cammini per mantenersi vive, creano complicità e reti di cura, si proteggono.” (p. 187). Djamila decide di raccontare la sua vita, a partire dalla sua infanzia, fatta di dolci alla zucca, mango salato e un’educazione dura atta a proteggerla dal mondo; passando poi per un’adolescenza dolorosa, esclusa dalle infinite possibilità dell’amore e dell’accoglienza che erano rivolte solamente alle sue amiche, quelle bionde, mai a lei. E poi confessa il dolore di lasciare andare la madre, il padre, e la nonna troppo presto per una donna che avrebbe avuto ancora un profondo bisogno delle loro mani per essere accompagnata in un futuro ostacolato da mille difficoltà, da cui molte donne Nere sono state forgiate. Ed è proprio alla nonna che l’autrice decide di raccontare la sua vita, attraverso delle lettere intime e profonde, ma anche crude e piene di un dolore che è però riuscita a trasformare in amore che genera altro amore, in un atto di rivendicazione e di cura che non lascia spazio alla rabbia e al rancore.

Con queste lettere, di Djamila ad Antônia, l’autrice riesce a rompere un ciclo di imposizioni (“se sei donna puoi solo pensare a prenderti cura della casa, delle camicie di tuo marito e dell’educazione dei tuoi figli, dimenticati di te, non esisti: una “sensazione di gratitudine imposta dalla subalternità”, p. 73) e a riconnettersi con la propria ancestralità. Lei, figlia degli orixás Oxóssi e Iansã, accompagnata dalle Madri venerate nel candomblé che la nonna e la madre hanno invocato per rendere la loro assenza meno dolorosa, per farla sentire sempre e comunque al sicuro, protetta da Orun, il mondo spirituale, come da Aye, il mondo terreno. 

La spiritualità occupa uno spazio centrale nel libro, come un filo invisibile che lega il lungo processo che ha portato Djamila ad essere la donna che è ora, dopo aver vissuto le atrocità del razzismo, sia quelle evidenti e consapevoli, sia quelle invisibili e sistemiche. Un razzismo che è ancora infestante, non solo in Brasile, ultimo Paese dell’America latina ad aver abolito la schiavitù e in cui l’autrice è nata e cresciuta, e in cui tuttora vive. Una spiritualità che è stata capace di riconciliarla con la sua identità e farle capire il significato profondo dell’appartenere. Il tradizionale carnevale brasiliano, da cui Djamila e le sue sorelle erano sempre state tenute lontane, nonostante l’amore che il padre aveva sempre nutrito per le vibranti batterie che incalzano e guidano la samba. Così, quelle melodie rientrano in quella riconnessione, riscattandola dal tempo perduto. Infatti, quando nel 2020 partecipa al Carnevale, Djamila afferma che “è stato come ricongiungersi a una storia dalla quale ero stata allontanata. È stato come se mi stessero accettando di nuovo a braccia aperte, perdonandomi. Lì, mi sono sentita ricollegata a un’ancestralità perduta, una specie di ritorno a casa.” (p. 107)

Potremmo affermare che questo libro procede per amore e decostruzione. La decostruzione delle donne Nere, per prima, per sottrarle dall’immagine costruita – violenta e reificante – che le vede come rocce, capaci per loro natura di resistere alle intemperie della vita.

Questa immagine della donna nera forte è molto crudele. Le persone si dimenticano che non siamo naturalmente forti. Dobbiamo esserlo perché lo Stato è negligente e violento. Restituire umanità significa anche assumere fragilità e dolori propri della condizione umana. Siamo rese subalterne o siamo dee. Io chiedo: quando saremo umane? (p. 14)

Le denuncia che Djamila scaglia contro il sistema, attraverso la narrazione intima della sua esistenza, si impone come denuncia corale, in cui l’autrice con la sua scrittura tiene insieme tutta una genealogia di donne Nere che hanno subìto lo stesso potere annientante, lo stesso sguardo coloniale, brutale e violento, che ha imposto alla loro vita una logica di subalternità così radicata da sembrare impossibile valicarne i confini. 

Questo libro è prezioso, perché include le lettrici e i lettori in una presa di coscienza, e di responsabilità, verso l’Altro. Un insegnamento alla cura, di cui al giorno d’oggi sembra venir sempre più meno il significato. Djamila ha scritto questo libro “per rompere l’ennesimo ciclo imposto da mani invisibili”, e noi, leggendola, possiamo forse aiutarla a riportare umanità laddove ha sempre regnato l’oppressione e l’invisibilità. 

Lettere a mia nonna, magistralmente tradotto nella nostra lingua da Alessia Di Eugenio e Nicola Biasio, ci ricorda, infine, l’importanza e la forza degli sguardi complici, sinceri e non addomesticati. Un libro delicato - pur nell’urgenza di raccontare una storia collettiva tragica - che ci parla di sguardi complici, di mani di nonne e donne tese all’abbraccio, di una cura che consiste nel trasformare il dolore in amore generativo. Ma ci parla anche di violenza, razzismo, marginalizzazione, subalternità, che devono essere spezzati attraverso strategie di resistenza e trasformando la rabbia in rivoluzione, insieme.

Sono sicura che le lettrici e i lettori, come leggiamo nella postfazione, “troveranno tra le righe appigli, risonanze, assonanze, fessure e spazi di comprensione. E ringrazieranno come si è gratə alle storie in cui troviamo spiragli di forza e trasformazione”. (p. 188)


Lidia Tecchiati