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L'urgenza del vero si fa sutura di ferite mai rimarginate: "Ho ucciso. Ho sanguinato" di Blaise Cendrars

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Ho ucciso. Ho sanguinato
di Blaise Cendrars
Marietti1820, settembre 2023

Traduzione di Francesco Pilastro

pp. 96
€12,00 (cartaceo)

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Paolo Rumiz inizia così la sua nota di lettura a quest’opera:
Com’è imbarazzante presentare un capolavoro assoluto. Uno che altro può fare se non mettere nero su bianco i sensi della sua inadeguatezza e – ammettiamolo – la sua invidia letteraria di fronte alla capacità dell’autore di rendere percezioni così accurate. (p. 7)
E io non posso che accodarmi a quest’imbarazzo mentre mi cimento nella recensione di questa testimonianza terribilmente lucida e viva, Ho ucciso. Ho sanguinato, pubblicata originariamente nel 1960 in Francia e ora finalmente tradotta in italiano. Come si fa a dare un giudizio sulla verità, sulla morte e soprattutto sulla vita? Come trovare le parole giuste, se durante la lettura queste stesse parole rimangono incastrate in gola?

Il poeta seicentesco Nicolas Boileau affermava che “rien n'est beau que le vrai, le vrai seul est aimable”, ovvero niente è più bello del vero, solo il vero merita di essere amato. Era un inno alla verità, alla necessità che venisse narrata, diffusa, che si prendesse lo spazio come protagonista: che fosse, insomma, l’unico argomento degno di essere impresso su pagine bianche. Ed è esattamente ciò che fa Blaise Cendrars in questo suo lascito a noi lettrici e lettori. Per chi ha già un po’ di confidenza con questo genere di scrittura, non farà troppa fatica ad inquadrare quest’opera in un genere letterario preciso, che è nella sua essenza il racconto di guerra. È, infatti, una testimonianza della sua esperienza personale al fronte, una sorta di diario in cui, nell'urgenza della verità e della sopravvivenza, riversa tutto il suo dolore, in un climax di confessioni che in qualche modo lo riportano alla vita. Cendrars, scrittore svizzero naturalizzato francese, si arruolò come volontario nella Prima guerra mondiale e, gravemente ferito, si vide amputare il braccio destro. L’esperienza della guerra e la perdita dell’arto (dovette imparare a fare tutto con il sinistro) rimasto come dolore fantasma, lo cambiarono a una tale profondità che trent’anni dopo scrisse forse la sua opera autobiografica più celebre, La main coupée, letteralmente la mano tagliata, la destra, quella che attaccava e uccideva ma anche quella che scriveva, che lasciava un’eredità.

La precisione chirurgica della sua scrittura è così potente che riusciamo a provare e sentire esattamente ciò che ha vissuto Cendrars sulla propria pelle: nelle orecchie sentiamo il fischio di una che si schianta al suolo, l’odore di fango e merda nelle narici, negli occhi il terrore della guerra che si liquefa nel bisogno di rimanere in vita. L’autore ha ucciso, e al presente si confessa, con l'urgenza della verità, direi, più che del perdono: 
Mi getto sul mio antagonista. Gli sferro un colpo terribile. La testa è quasi andata. Ho ucciso il crucco. Sono stato più vivo, più rapido di lui. Più diretto. Ho colpito per primo. Ho il senso della realtà, io, poeta. Ho agito. Ho ucciso. Come chi vuole vivere. (p. 24).
Io, poeta. Perché lui altro non era che un uomo, un poeta, costretto a uccidere per rimanere ancorato alla vita. È questa l’assurdità della guerra che si fa confessione nella prima parte del racconto. Descritta con semplici affermazioni, frasi secche, spoglie, senza giri di parole, al servizio solo del vero. Ciò che conta, infatti, è il raccontare i fatti, la verità, affinché tutti sappiano. E questa assurdità si fa materia viva nel capovolgimento assoluto del significato, quando le macchine da guerra vengono descritte con termini propri dell’essere umano, mentre l’uomo viene invece presentato come un animale, spogliato della sua umanità; perché l’umanità nella costrizione alla lotta per la vita viene annientata, uccisa, esattamente come il nemico, che altro non è che il nostro doppio che ci fissa di rimando:
Ho affrontato mortai, cannoni, mine, fuoco, gas, mitragliatrici, ogni sorta di macchina anonima, demoniaca, metodica, cieca. Sto per affrontare l’uomo. Il mio simile. Una scimmia. Occhio per occhio, dente per dente. A noi due ora. (p. 23)
Macchina demoniaca; il mio simile, una scimmia. La guerra che spoglia l’uomo dell’umanità e lo rende predatore.

Il realismo brutale di Cendrars si afferma nelle frasi mozzate, paratattiche, giustapposte tra loro attraverso virgole insistenti, in un crescendo di elementi che si aggiungono gli uni agli altri a un ritmo che ricorda i colpi secchi delle armi da fuoco. Con lo stesso stile Cendrars, nel secondo racconto autobiografico di questo libro, ci racconta della sua detenzione in ospedale, dopo l’amputazione del braccio destro, durante la quale aveva “la sensazione che la vita (gli) stava sfuggendo via, goccia a goccia senza che potess(e) fare nulla per trattenerla”. (p. 29)

L’urgenza dell’autore di raccontarsi e raccontare la verità, nell’orrido timore di scomparire senza lasciare traccia di sé, è tale che la narrazione prende spesso la forma di un flusso di coscienza inarrestabile, in cui sembra non vi sia il tempo per riprendere fiato e ancora una volta, come nella prima parte, ci fa sentire e vedere la sua vita, come se l’avessimo vissuta anche noi sulla nostra pelle, allo stesso modo:

(…) l’esaltazione, gli altri, i morti e le migliaia, migliaia di feriti, i chirurghi da cui mi ero difeso, il sangue che schizzava, il freddo che si impossessava di me e la paura improvvisa, l’angoscia di crepare lì sulla barella, il terrore di addormentarmi, di svenire e di morire senza accorgermene, di essere dimenticato, tutto questo mi portava al delirio, e non ho potuto fare altro che urlare, chiamare aiuto, gridare con quanto fiato avessi in corso all’interno di quelle ricche e belle mura vescovili assopite, o almeno questo era quanto mi immaginavo. (pp. 40-41).

In Ho ucciso. Ho sanguinato, l’autore racconta la sua esperienza di guerra con una ricchezza di dettagli crudi e brutali, pur mantenendo una scrittura asciutta, ridotta all’osso, in cui la crudezza delle sue parole emerge tanto da disorientare il lettore lasciandolo sgomento. Il modo in cui racconta la realtà è così dolorosamente reale che il lettore rimane turbato, vacilla, rimanendo indeciso se continuare la lettura o chiudere subito il libro per non riaprirlo mai più. La ferita però, già dalle primissime righe, è ormai aperta, e smetterà di sanguinare solamente una volta che la lettura sarà terminata.

Questa testimonianza risulta ai miei occhi e alla mia sensibilità fondamentale, perché all’autore non importa di abbellire, o di temere di disgustare i suoi lettori. Ciò che importa è la testimonianza, l’essere ricordato, affinché la sua sofferenza non sia stata vana. Racconta ciò che è stato per lui, restituisce il vero per l’orrore che era, lasciandoci disgustati. E forse va bene così.

Laddove l’umanità si disintegra, fatica a mantenersi viva, tra uccisioni e sanguinamenti, tra urla e morte, lì la letteratura si insinua, si mette comoda, porta luce. Questo perché la letteratura, e l’atto di scrivere più in generale, mostrano invece la sopravvivenza dell’umanità, il potere salvifico (e necessario) delle parole, che elevano il terribile ricordo della guerra in un inno alla vita.

“È il giorno più bello della mia vita, Blaise! Ha parlato. È salvo”. (p.78)

Questa testimonianza è per noi, affinché tramite la conoscenza della verità possiamo provare a farci sutura di ferite mai rimarginate, che comunque ci appartengono.


Lidia Tecchiati