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La Sicilia biblica e ancestrale di "Come in cielo", di Damiano Scaramella

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Come in Cielo
di Damiano Scaramella
NNE, settembre 2023

pp. 257
€ 17 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)


A leggere il romanzo d’esordio di Domenico Scaramella, Come in Cielo, la mia mente ha da subito prodotto un sussurrio di sottofondo, un bisbiglio, un mormorio incontrollabile; ha tradotto all’orecchio e al cuore sensazioni policrome e involontarie. In poco tempo, ha cercato nella memoria la nota di chiusura di Conversazione in Sicilia di Vittorini, in cui lo scrittore dice di aver scelto la Sicilia come ambientazione «solo perché il nome Sicilia mi suona meglio del nome Persia o Venezuela»; così come la considerazione sciasciana dell’isola che è «rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni […] metafora del mondo odierno».

Per quanto recondite, queste sensazioni e richiami mnemonici sono legati a una diffidenza atavica – viscerale e pruriginosa – che un siciliano si porta sottopelle, come malcelato substrato culturale. Perché proprio la Sicilia? Perché questa – quella – terra martoriata e inafferrabile? Perché la nostra lingua? Forse perché suona meglio che un altro luogo, anonimo e qualsiasi. Forse perché conserva ancora quel fascino mitologico e quasi esotico: un bucolico altrove, dove non c’è gioia che non celi dolore, né sorriso che non sappia di sangue. Terra di fatica, passione, rituali e morte. O forse perché la Sicilia è un immaginario troppo grande e troppo perverso: così grande che davvero può coprire il mondo intero.

Sono premesse che devo fare per non sentirmi falso e ipocrita, ma che adesso è giusto ammettere non rendono giustizia – e un po’ esulano – dal romanzo di Scaramella. Lui, che è laziale di nascita, milanese d’adozione e siciliano nel cuore e per il cuore, ha ambientato il romanzo nella cruda e vivida provincia catanese, che adesso è un po’ sua. Più precisamente a Badìa, nome inventato per raffigurare un luogo forse vero. Paese che non esiste sulle mappe e non genera risultati su Google Maps, ma che produce però richiami precisi a chi, come il sottoscritto, ha la grande fortuna e sventura di appartenere alle pendici della grande mamma-vulcanə.

Damiano – adesso lo chiamo per nome, sempre per schivare l’ipocrisia – ci racconta una storia semplice, eppure non del tutto priva di una sua epicità minimale. Ci sono una famiglia particolare e molto unita, un podere da difendere, la fatica per il pane, un ordine da proteggere, che lentamente si sgretola e va ricomposto. Zu Pippu ha creato con sforzo una sua piccola oasi nello squallore, una villa per ricevimenti che adesso riesce a sfamare lui, i suoi figli e i figli dei figli. Finché il classico evento inatteso e improvviso, che vede protagonista il nipote affetto da un lieve ritardo mentale, manda in pezzi quella debole serenità, accendendo la miccia di una violenza atavica, concentrica e topografica.

Come in cielo non è un romanzo di mafia, ma un romanzo con mafia. Quella arcaica e impassibile; un po’ stereotipata ma non per questo meno realistica. Tanto più potente quanto più invisibile – infatti non viene mai nominata nel libro in quanto tale, aleggia come uno spettro. Il romanzo di Scaramella è antropologico perché scava nei costumi e nelle tradizioni culturali di un popolo e di un luogo geografico; ma non è sociologico perché non ne indaga i fenomeni come fatti politici e sociali. La mafia stessa è elemento di ordine primitivo, substrato inconscio e imperturbabile.

Il libro si apre e si chiude con un riferimento biblico – quello del sacrificio incompiuto di Isacco da parte di Abramo – e alla semiotica biblica ricorre costantemente (il titolo non è casuale). La Sicilia non è dunque metafora politica ma, appunto, antropologica; allegoria di un’umanità imperfetta e dispotica, prepotente e meschina. L’unico ordine possibile è quello della violenza che tiene sotto controllo la violenza. Se però, nella Genesi, Isacco viene salvato dall’intervento dell’arcangelo, nel mondo di cui ci parla Scaramella l’intercessione non è salvifica e l’unica via d’uscita possibile è l’abisso.

Infine, Damiano è un poeta, molto prima che un narratore. La sua lingua è precisa quando ha da essere precisa; sovrabbondante e incontenibile quando sente che gli argini possono essere abbassati. Spesso la parola esonda dalla pagina e travolge. Di un certo rilievo anche l’uso pertinente del dialetto siciliano, con piccolissime sbavature e imperfezioni perdonabili. Perché il rischio nell’uso del dialetto è sempre quello di cadere in un gioco macchiettistico che crea la caricatura di una caricatura. Rischio che si fa ancora maggiore quando l’autore cerca di ricreare il gergo metaforico e pieno di allusioni dei capi mafiosi. Ma la penna di Scaramella è robusta e riesce a tenerlo sempre al di fuori delle sabbie mobili, non di rado con notevoli acrobazie.

Come in cielo è dunque un bell’esordio, un altro – verrebbe da dire – tra le recenti fila di NN editore. Racconta una delle tante incredibili storie vere – come leggiamo nei ringraziamenti – che si consumano in una terra cruda e impietosa. E lo fa in modo credibile e, per quanto possibile, genuino. È un bel libro che pure ci dà l’idea che Scaramella non abbia ancora espresso il suo pieno potenziale e abbia tenuto da parte le cartucce migliori. Lasciandoci soddisfatti sì, ma anche in attesa di quanto ancora è di là da venire.

Emiliano Zappalà