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L'epopea di una generazione nella storia d'Italia dell'ultimo secolo: "Eravamo immortali" di Marco Cassardo

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Eravamo immortali
di Marco Cassardo
Mondadori, settembre 2023

pp. 444
€ 20,00 (cartaceo)
€ 10,99 (e-book)


Marco Cassardo, torinese classe 1965, scrive un romanzo che racconta l’epopea di una generazione, quella che ci ha lasciato da non molto, formata dai ragazzi che nacquero negli anni 20 del secolo scorso. Una generazione che ha vissuto tutti i rivolgimenti, gli sconquassi e i sussulti degli ultimi cento anni. Nel male (toccò a quei ragazzi partire per il fronte) e nel bene (vedi l'epoca del boom economico). Dalla Seconda Guerra mondiale alla frenesia della ripartenza, dal 1968 alle lotte sindacali, in questi anni c'è dentro un mondo.

Eravamo immortali è il racconto di ragazzi che, come detto nel titolo, più volte hanno sfiorato la morte, nella ritirata di Russia, come viene raccontato nei primi capitoli del romanzo, o nelle ritorsioni tra rossi e neri che hanno insanguinato il dopoguerra o ancora negli anni bui del terrorismo di destra e di sinistra. Giovani che si sentono immortali perché percepiscono come proprio, fin dentro la pelle, il compito di salvare l’Italia negli anni della guerra e poi di ricostruirla, aiutarla a rialzarsi di nuovo dopo i disastri bellici. In entrambi i casi questi ragazzi e queste ragazze l'hanno fatto in prima persona, non tirandosi mai indietro, con lo spirito del sacrificio per il benessere proprio e del Paese. In ossequio a questo sentimento collettivo, Cassardo arriva a scrivere un romanzo corale nel quale ogni personaggio porta con sé un pezzo di Storia. Generazioni a confronto, scelte di vita simili ma che poi divergono fino a rendere difficoltoso il discorso intergenerazionale, tra padri e figli, ma anche tra amici che vivono la Storia in campi diversi.

Come nel caso dei due protagonisti, Steu o Stefano (come vedremo, il giovane viene chiamato diversamente se in compagnia degli amici, dei commilitoni, dei colleghi o della fidanzata) e Nando, ai quali spetta l’onore, e a volte l’onere, di rappresentare il tempo in cui vivono. Divisi in tutto, tranne che per la passione per la bicicletta (nella quale comunque sono opposti, l’uno gregario l’altro scalatore): Steu partigiano, Nando fascista si ritroveranno più volte, nel corso della vita, sempre su barricate opposte, finché tra loro nascerà un’amicizia vissuta sul filo del rasoio, pronta a scoppiare in un pugno, ma solida e basata su snodi comuni, pur vissuti su campi diversi, ma che non possono non aver accomunato i loro destini. Dopo le prime corse in bicicletta nella Torino prebellica, in squadre e ruoli avversari, Steu e Nando si ritrovano, entrambi soldati, l'uno costretto e disperato, l'altro convinto ed entusiasta, a partecipare alla Seconda Guerra Mondiale e, nella fattispecie, a quel massacro di giovani che fu la campagna e la successiva ritirata di Russia del 1943. Un azzardo del regime fascista che mandò allo sbaraglio, male equipaggiati, migliaia di giovani italiani, 90mila dei quali non tornarono a casa.
Fra le truppe italiane il vuoto dell'attesa era stato sostituito dall'eccitazione. Dal momento in cui avevano aperto il fuoco, l'ipotesi di morire era stata accettata, non c'era più nulla da perdere. Era rimasto un unico obiettivo: ritardare il più possibile l'ultimo respiro. Che la morte fosse meno spaventosa della paura di morire lo avevano intuito da tempo, ma fu in quella mattina che ne ebbero la certezza (p. 47)
Al termine di un lungo manipolo di pagine, dure, taglienti e accorate, dedicate al gelo della traversata russa, dopo il ritorno a Torino, apparentemente i destini dei due ragazzi, fattisi ormai uomini, si dividono, l'uno tra i partigiani, l'altro tra i fascisti. Finché sarà la Storia a decretare i vincitori. Questo stare su posizioni opposte porterà Nando e Steu a ritrovarsi di nuovo e a non lasciarsi più finché il passato non riuscirà ad allungare le proprie ombre.

Finita la guerra e sopravvissuti alle rese dei conti postbelliche, i due giovani cercano di ricostruirsi una vita insieme alle loro donne, Fernanda e Piera, figure femminili estremamente diverse a incarnare comunque il volto della società anni 60, donne che lavorano e studiano, ma che vengono presentate per lo più nella loro dimensione familiare in conformità al pensiero dell’epoca. E questo è solo uno dei tanti filoni che costituiscono l'ossatura del romanzo, straordinariamente ricco e stratificato. È un romanzo sulla giovinezza e sulla guerra, sulla famiglia, sulla difficoltà di certe relazioni familiari, gesti d’affetto nascosti, parole non dette, dolori soffocati. È il romanzo della politica vissuta con l’energia dei vent’anni e l’entusiasmo dell’identità. Anni in cui l’ideale era di per se stesso un marchio identificativo. È il romanzo del lavoro, siamo a Torino, uno dei vertici del triangolo industriale, motore della crescita dell'Italia anni 50. E alle spalle dei protagonisti c’è la Fiat con la quale ogni famiglia torinese deve fare i conti. Sono questi, infatti, gli anni della costruzione della coscienza operaia, del riconoscimento del proprio valore e della disillusione… 
Mai come adesso capisco cosa diceva Marx: «L'operaio è diventato una merce ed è una fortuna per lui trovare un acquirente». (p. 271)
E, soprattutto, è un romanzo sull'amicizia assoluta che può andare oltre le differenze, e mentre in superficie si può manifestare con l'odio, in realtà nel profondo si aggrappa a quelle esperienze che hanno creato un vissuto comune. È anche il romanzo dello sport, del grande Torino precipitato in aereo a Superga, dello scudetto granata del 1976, dopo 27 anni, e soprattutto è il romanzo del ciclismo. Sono gli anni di Coppi e Bartali. È proprio al ciclismo che viene data la responsabilità di iniziare il romanzo che si apre con la cronaca di una gara che segna l'incontro tra i due protagonisti.
Nelle pagine dedicate al lavoro (siamo ormai negli anni 50-60, la guerra è alle spalle) quando i giovani reduci devono reinventarsi un futuro e l'unico orizzonte possibile è la Fiat, si sentono gli echi di certa letteratura operaia, quella di Paolo Volponi, di Italo Calvino, per certi versi. Torino in quegli anni è il teatro principale delle lotte sindacali, dei nuovi modelli di lavoro e delle nuove relazioni tra operai e imprenditori, ma anche delle infiltrazioni brigatiste in fabbrica, del tentativo di rivoluzionare la società a partire dal lavoro. In queste pagine passa tutta la storia di Torino fino al nuovo millennio. Sono gli anni della trasformazione urbanistica e sociale: Torino si riempie di palazzi e palazzoni, la Fiat e l’indotto hanno bisogno di lavoratori, sempre di più. Torino diventa la meta di immigrati dal Sud, uomini e donne che vanno a infoltire la schiera degli operai delle grandi aziende, determinando un cambiamento sociale mai visto prima.
La parabola di Steu, da comunista sfegatato, idolo delle lotte operaie, confinato nell'Officina Stella Rossa (un'idea di Vittorio Valletta, un reparto dove venivano isolati i ribelli, coloro che lottavano per diritti non ancora garantiti) a piccolo padroncino produttore di fanali per auto, fino a divenire imprenditore di successo, fa da pendant  alla vicenda di Nando, caporeparto Fiat missino, il bersaglio ideale per i terroristi che in quegli anni al Nord uccidevano e gambizzavano. A dimostrazione che in quegli anni stare al di qua o al di là della barricata comportava decisioni, rischi e sacrifici. Sono, queste, pagine di forte tensione narrativa dove la lotta sociale, mai sopita, viene raccontata grazie a un interessante crescendo narrativo. 

La forza del romanzo di Cassardo è che tutti questi temi si tengono e si stringono all’interno di una storia che non perde mai la sua capacità di attrarre il lettore, portarlo a girare pagina con la curiosità di vedere che cosa succede. E senza bisogno di effetti speciali, basta il flusso della vita che scorre inesorabile e mette Nando e Steu di fronte a prove, a scelte, a destini. Li fa crescere, diventare uomini, genitori e poi anziani. È la storia dei nostri nonni che sono stati giovani e lentamente invecchiano ma raccontata con una concretezza e una verosimiglianza che ci costringono a rispecchiarci in quelle pagine. Tutti in fondo viviamo, ma pochi sono in grado di raccontare questa vita che ci cambia giorno dopo giorno come se fosse un'epopea. Cassardo ha questo dono, grazie a una prosa plastica, rotonda, vera che si dispiega per oltre 400 pagine portando il lettore ad attraversare un lungo tratto della storia d’Italia, scandita dalle date che danno il titolo ai capitoli. Una ben dosata alchimia di voce narrante e dialoghi ben costruiti dà il ritmo alla narrazione, che è sempre pulita e sostenuta da una struttura lessicale e morfologica senza sbavature. Anche le frasi in dialetto piemontese, sempre utilizzate in modo misurato, servono a dare la giusta ambientazione senza mai appesantire il testo.

Eravamo immortali è un libro che alla generazione degli adulti ricorderà l’atmosfera di certi giorni da bambini, ma che potrebbe piacere anche ai più giovani se curiosi di capire un mondo che non è il loro, ma che vede protagonisti ragazzi, esattamente come loro.
A vederla dall'alto, la scena sembrava abbracciare qualcosa di più di uno stadio, di una città. A vederli dall'alto, anche Steu e Nando, rimasti soli, portavano incisi nelle loro figure, nei loro volti, la storia che avevano attraversato e, con la storia, i sentimenti disordinati e contraddittori che li avevano guidati nell'avventura dell'esistenza. (...) «Finalmente dalla stessa parte», disse Steu con gli occhi fissi sul prato. «Sì Steu, finalmente dalla stessa parte». «Brau Nando, la part giusta». (p. 350)

Decisamente il migliore tra i libri che ho letto quest’anno, quello che mi ha emozionato di più.

Sabrina Miglio