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"Dissertazione filosofica sulla morte" di Alberto Radicati di Passerano: un breve saggio che elogia la vita difendendo la liceità del suicidio

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Dissertazione filosofica sulla morte
di Alberto Radicati di Passerano
il Saggiatore, Milano 2023
 
pp. 120
€ 14,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
 
 
Gli scritti che trattano il tema della morte e del suicidio sono numerosissimi, essendo la morte un aspetto centrale – forse il più centrale, poiché racchiude in sé il senso della nostra esistenza – nonché paurosamente fascinoso del mistero della vita.

Nel XVIII secolo la discussione sulla morte volontaria rappresentava un dibattito diffuso in tutta Europa: in Inghilterra il numero di suicidi aumentava con il dilagare del puritanesimo, ci racconta Frédéric Ieva nella postfazione a questo piccolo libro. Un caso? Alberto Radicati di Passerano non la pensa così.
 
Nel 1732 manda in stampa il volumetto intitolato Dissertazione filosofica sulla morte, a causa del quale viene bandito dal Piemonte, costretto quindi a fuggire a Londra, città in cui viene incarcerato per un breve periodo, e infine a riparare in Olanda, dove morirà all’età di trentanove anni.
 
Nella sua Dissertazione Radicati si interroga (e si risponde) più che sulla morte in sé, sull’origine della paura umana verso di essa, che non è innata ma figlia di credenze ed educazioni sociali. Mentre in molte culture, infatti, la morte è considerata come “la fine di ogni cosa” e gli uomini suicidi sono da condannare, Radicati assurge invece a ribelle detrattore di tali idee.
 
Per lui la morte non è qualcosa di definitivo, ma una mera «dissoluzione delle parti corporee, che dopo essersi separate le une dalle altre assumono forme diverse e ricevono movimenti diversi» (p. 28), perché la natura è in un movimento costante, perpetuo, ama cambiare e desidera il cambiamento. Le creature che muoiono non perdono la loro essenza e sostanza, scrive Radicati, ma unicamente la forma che la natura ha dato loro, quindi dopo la morte semplicemente «cessiamo di esistere in un modo […] per cominciare a esistere in un altro» (p. 30). Se non abbiamo memoria degli esseri che siamo stati in precedenza, è perché la natura «non forma mai due volte il medesimo corpo» (p. 31): mutando di forma, mutano le sensazioni che riceviamo dentro la nuova esistenza; tutto appare nuovo, appena nato.
 
Tale è la legge della natura, ci dice Radicati, in virtù della quale va respinta l’idea che la morte sia qualcosa di spaventoso e temibile, perché è essa stessa parte della natura.
 
Il timore che perseguita l’uomo è piuttosto il frutto di una tirannia di consuetudini, di credenze (soprattutto religiose) e di abitudini. Qui entra in gioco il suo relativismo morale. Non esiste oggettività nelle credenze culturali, nelle educazioni impartite agli uomini, né tantomeno nelle acquisizioni che assorbiamo durante la crescita: come la paura della morte e il senso di colpa e di pentimento verso il desiderio di morire. La riprovazione umana verso il suicidio, quindi, non è che un effetto di certi dettami culturali e religiosi, come il cristianesimo, ma non è così per tutti: quel che noi chiamiamo cattivo per «un gran numero di popoli diversi» è buono. Radicati porta molti esempi di azioni che in certe comunità sono considerate turpi, mentre in altre non solo sono ben accette ma persino lodevoli.
 
Perché non lodare, dunque, anche l’ultima libertà individuale? Una libertà che la natura stessa ci ha concesso, ossia quella di restituire con le nostre stesse mani la vita che ci ha donato. Radicati difende la legge della natura contro la legge dell’educazione, e rivendica il diritto dell’essere umano a morire per propria volontà.
Perché il suicidio non può essere pensato come un mero strumento utile a cercare il proprio bene, ognuno a suo modo? Questo è il nodo centrale del pensiero radicatiano nella Dissertazione. Sono l’abitudine e l’usanza a «portare l’uomo a disprezzare la libertà» (p. 69). Ciò che chiamiamo trasgressioni verso la vita, cioè verso la natura, non sono altro che trasgressioni imposte dalla legge dell’educazione.
Come lo «scorpione che si punge a morte quando si vede accerchiato da carboni ardenti» (p. 75), così anche all’uomo la natura ha dato «mille porte per uscire da questa prigione» (p. 74) e una «libertà totale di lasciare la vita quando questa diventi fonte di sconforto» (p. 74).

All’epoca definito un testo empio e blasfemo per le idee radicali di naturalismo materialista che Radicati in esso esprime, la Dissertazione viene considerata piuttosto un «elogio della vita» (p. 94) da Franco Venturi, che a partire dagli anni Trenta riesuma dall’oblio il nobile piemontese, ne traduce e cura tutte le opere, aprendo la strada per una rinnovata partecipazione accademica agli studi radicatiani.
Ancor prima, la riscoperta è grazie al giovane editore torinese Piero Gobetti, che nel 1926 definisce Alberto Radicati «il primo illuminista della penisola» (p. 82). E sull’Illuminismo è bene aprire una piccola parentesi finale, perché il libero pensiero di Radicati si origina ed è ispirato anche da Montesquieu: nelle righe finali della Dissertazione leggiamo l’ultima strenua difesa per la libertà dell’uomo a farsi morire, che secondo Radicati dovrebbe nascere da una sorta di senso di umiltà, ovvero dalla profonda consapevolezza di non essere «il più perfetto di tutti gli esseri» (p. 78) e che «un uomo in più o in meno, perfino tutta l’intera razza umana nel suo insieme […] sono solo un piccolissimo atomo […] rispetto all’immensità dell’universo» (p. 78). È una consapevolezza che tuttavia non vuole condurre l’uomo a un «senso di cosmico spaesamento» (p. 15), ma, all’opposto, a vivere secondo una libertà individuale vera, non condizionata da alcuna credenza acquisita.

Con tali presupposti filosofici, ha senza dubbio ragione Giulio Giorello quando scrive, nella prefazione al volume, che
In tempi come i nostri, in cui si teorizza un diritto alla vita che in realtà è un obbligo a vivere a ogni costo [sottolineato mio] (quali che siano le condizioni del nostro corpo e della nostra mente) e si prospettano leggi che privano i sudditi – non saprei trovare termine diverso – dell’autodeterminazione […] È di questo tipo di Illuminismo che abbiamo ancora bisogno: forse oggi più che allora. (p. 10)
La Dissertazione, nelle sue brevi pagine, diventa dunque uno strumento di riflessione tremendamente attuale per affrontare una questione con cui ancora oggi nel nostro Paese evitiamo, per paura e per dogma religioso-culturale, di misurarci attraverso l’obiettività della legge naturale.
 
Federica Cracchiolo