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Cosa vuol dire essere un Pedro qualsiasi: "Pedro, in teoria" di Marcos Gonsalez per Mar dei Sargassi

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Pedro, in teoria
di Marcos Gonsalez
Mar dei Sargassi Edizioni, maggio 2023

pp. 215
€ 18,00 (cartaceo)
€ 8,99 (e-book)


Pedro. A sentire questo nome, immediatamente pensiamo a una persona d'origine sudamericana o, nello specifico, messicana. Magari qualcuno potrebbe ricondurlo a un attore famoso (come Pedro Pascal) o alla canzone di Raffaella Carrà "Pedro" (indovinate? messicano di Santa Fe).
Questo libro di Marcos Gonsalez, autore al suo esordio con Pedro, in teoria, non è un romanzo vero e proprio, ma un ibrido tra memoir, ricerca storica e analisi di film, documentari e altri romanzi allo scopo di capire cosa voglia dire essere messicano, ma soprattutto cosa voglia dire essere un Pedro.
Immaginiamoci questo Pedro, Papi, un Pedro che sei anche tu e che sono anch'io. Tutti Pedro e Maria, nelle tante forme che le nostre storie assumono, nelle tante vite straordinariamente ordinarie come punti sulla geografia che abbiamo cominciato a chiamare e conoscere come "le Americhe". (p. 59)
L'autore trasla la sua persona nel bambino Pedro: non solo è messicano in terra "straniera", in New Jersey (e dunque qui c'è tutta la questione dell'immigrazione di confine), ma è anche omosessuale, sovrappeso e ignorante. Il Pedro per eccellenza, quello povero, che non sa parlare in inglese, che ha la pelle troppo scura, che si muove in modo effeminato, che si isola per paura di essere bullizzato dai David, dai Timothy o Shane o John di turno, i ragazzini bianchi e perfetti, sempre al proprio posto e senza sbavature.
Si tratta di una dicotomia a cui purtroppo siamo ben abituati: noi/loro, gli stranieri che rubano, non si lavano, violentano e sporcano, contro la supremazia bianca che, in teoria, dovrebbe dare l'esempio.
Ma l'esempio di cosa, in fondo?
L'autore ripercorre la sua infanzia, il suo rapporto con una madre anaffettiva e una nonna portoricana, anche se il legame più forte e conflittuale sarà quello col padre. Il papà di Pedro, si può dire, è un Pedro elevato alla seconda: campensino, analfabeta, ha passato tutta la vita nei campi a lavorare per altri e verrà per questo rinnegato da suo figlio che vuole altro, vuole essere libero, non vuole essere messicano. Durante gli anni adolescenziali e universitari dirà a tutti di essere portoricano: a New York, dove si trasferirà per studiare, essere gay e portoricani è cool, il tono della pelle è accettabile, nessun dramma. Dunque Marcos/Pedro indossa un'identità che non è sua, una maschera che butterà via quando si renderà conto che, in realtà, la famiglia è tutto ciò che gli serve per salvarsi.
Forse il lettore si chiederà: Pedro, sul serio? Pedro, la spalla di colore che ha bisogno di essere salvata? Pedro, lo stereotipo? Pedro è così insulso, così dimenticabile. Pedro è solo...beh, è solo, Pedro...è un pobrecito. Chi vorrebbe essere come lui? (p. 98)
L'analisi dell'autore mescola i suoi ricordi con una ricerca artistica volta a indagare la "messicanità" così come viene vista da chi messicano non è: prenderà allora in esame film, documentari, romanzi; allo stesso modo spiegherà il significato di parole come "burlap" che, a seconda del contesto, può voler dire "juta" oppure anche "uomo di campagna, individuo villano", e passerà in rassegna una serie di fotografie immaginarie sulle quali si riflette il suo bisogno di trovare un posto nel mondo, nelle fotografie e nei filmini di sua madre, in quelle postate sui social, nelle immagine mancanti della sua famiglia o quelle sui documenti d'identità.
Marcos/Pedro elabora dunque una teoria (da qui, il gioco di parole del titolo): il nome Pedro in realtà si può spersonalizzare rendendolo un aggettivo universale per definire tutti quegli individui - maschili e femminili o queer, omosessuali, etero, giovani o vecchi, non importa - possessori di determinate caratteristiche fisiche che riconducono l'immaginario a un messicano: pelle scura, incapacità di parlare bene la lingua, scarsa igiene, professione umile, alimentazione ripetitiva, necessità di lasciare la terra natia, povertà; e il discorso si allarga ancora: un Pedro può anche essere omosessuale, grasso, lento, stupido, può essere tutto ciò che non rientra nella perfezione classista definita dall'uomo bianco.
Pedro allora diventa un attributo sinonimo di "diverso", "indesiderato", diventa pedro senza la maiuscola. L'autore si sente proprio così: non voluto, per questo rinnegherà le sue origini, suo padre, tutta la sua famiglia.
Ogni appunto menziona la mia esperienza. Una in particolare: io e mio padre. Le nostre vite, il nostro essere lui e io, un noi al plurale. Il corpo e i confini del corpo e il corpo delle Americhe e le Americhe dei confini. (p. 164)
Il testo si inserisce alla perfezione nel catalogo della casa editrice che si occupa proprio di questo: di confini e di storie liminari che indagano il modo di dare voce a chi non ce l'ha, dominate dal marchio di essere "diverse" nella loro accezione negativa. Chi meglio di un Pedro può rappresentarle?

Consiglio la lettura di Pedro, in teoria a chi vuole scoprire il punto di vista di un emarginato che, tutto sommato, ce l'ha fatta in un paese straniero, accettando le proprie origini solo dopo una massiccia dose di negazione e sofferenza, oppure a chi vuole leggere storie che trattano la questione della frontiera Messico-Usa, come Archivio dei bambini perduti di Valeria Luiselli per La Nuova Frontiera e Solo un fiume a separarci di Francisco Cantù per minimum fax.

Deborah D'Addetta