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Guarire dal 'magone': trauma e maternità in "Mor. Storia per le mie madri", di Sara Garagnani

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Mor. Storia per le mie madri
di Sara Garagnani
add editore, 2022

pp. 363
€ 25,00 (cartaceo)


Molti ricorderanno la scena delle grucce di ferro di Mammina Cara (Mommie Dearest, regia di Frank Perry, 1981), storia torbida e privata del legame controverso e spinoso tra l’icona in declino del cinema hollywoodiano, Joan Crawford, e sua figlia adottiva, Christina Crawford, autrice del romanzo autobiografico omonimo. Vediamo una Crawford sfinita e ossessionata dalla propria immagine, il volto ricoperto da una crema idratante, i capelli avvolti nei bigodini, la vestaglia di seta stretta in vita a profilare la sua sagoma ossuta, nell’atto di riordinare l’armadio della figlia nel cuore della notte, per poi lasciarsi sopraffare da un raptus di violenza e rabbia quando si accorge che i preziosi vestiti confezionati per la figlia Christina sono stati appesi su grucce di ferro, non degne della qualità degli abiti che la Crawford ha accuratamente scelto per la sua bambina che lei vuole sia perfetta in ogni cosa. Così Joan strappa Christina al sonno nel cuore della notte e comincia a picchiarla con la gruccia di ferro stretta in mano, dandole dell’ingrata, una scena a metà fra camp e grottesco, ma che senz’altro ci aiuta a ricordare una cosa inquietante ed essenziale, l’intersezionalità degli abusi domestici, ma soprattutto la complessità spinosa e sanguinante del legame tra una madre e una figlia.

Annette, invece, la co-protagonista della graphic novel Mor. Storia per le mie madri, nonché madre dell’autrice Sara Garagnani, cambia canale quando vede Mammina Cara in TV, dicendo che «era la cosa più simile alla sua infanzia che avesse visto». Come la Garagnani cerca di spiegare fin da subito, è difficile ricostruire il percorso spezzato e dunque frammentario dell’ereditarietà di un rapporto madre-figlia da sempre segnato dal trauma dell’incomunicabilità e dell’incomprensione.

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Mor. Storia per le mie madri
tenta di ripercorrere a ritroso il viaggio generazionale e geografico che dalla madre dell'autrice, Annette, approda a Sara, muovendosi dalla Svezia della seconda metà del Novecento all'Emilia-Romagna dei giorni nostri. Ci si accorge, leggendo Mor, di un cambio di stile che demarca la prima parte, dal titolo Nettan (vezzeggiativo svedese per Annette) alla seconda parte, Dottar ('figlia' in lingua svedese), sia nel font dei balloons (corsivo nella prima, in maiuscolo nella seconda), che nella ritrattistica dei personaggi, come a voler sottolineare la sottile eppure cruciale differenza di punti di vista che sussiste in ogni narrazione di una stessa storia, laddove, come specifica Garagnani sin dall'inizio, «questa è una storia famigliare e come accade in tutte le famiglie non ci sono protagonisti ma punti di vista». Incontriamo dunque una Annette bambina nella Svezia degli anni '60 del Novecento, gli stessi anni di quel cinema di Bergman che ci ha regalato storie sull'incomunicabilità nei legami familiari che vediamo in Persona, Scene da un matrimonio e Sussurri e grida, una Svezia dove il ruolo della donna è sì, assai più all'avanguardia se paragonato al suo corrispettivo nel Belpaese, ma dove al contempo sussistono ancora quei pattern patriarcali che rendono la donna borghese soffocata dalla quotidianità domestica e sola nella gestione dell’educazione dei figli. È in questo scenario che incontriamo la madre di Annette, Inger, che ci viene presentata dedita alla cura di Annette e di suo fratello gemello Christer, ossessionata dalla propria immagine allo specchio e dalla propria idea di (irreale) perfezione casalinga mentre si prepara ad accogliere il marito Thure, spesso fuori per lavoro.

Inger ha una duplice natura, ora magnanima ora perfida, ora complice ora punitiva, e questa doppia madre viene temuta e dolorosamente amata da Annette, che per tutta l'infanzia cercherà di stabilire con lei una connessione, tra violenze psicologiche e fisiche, silenzi punitivi, un padre assente e disinteressato alla crescita emotiva dei figli finché quella pantomima di ipocrita perfezione non viene diretta da Inger, che non perde mai l'autocontrollo in presenza del marito, ma che si rivela feroce ed esplosiva con Annette e Christer, ormai abituati a presagire "la catastrofe" degli accessi della madre, una catastrofe «che non avveniva mai come ci si poteva aspettare. Niente uragani, tsunami, né eruzioni vulcaniche o impatti celesti» ma bensì «da sempre e sottovuoto, a piccole dosi celatamente somministrate in certi giorni.» (p. 40)

La “massa materna”, brutale e avvolgente quanto ingombrante e famigliare, diventa un continente oscuro all’interno del quale Annette e Christer si ricercano, per farvi luce e attraverso il quale poter conoscere meglio se stessi e distinguersi da lei per poterne uscire, ma che con il tempo non fa che allontanarli e riempirli di quel senso di oppressione che Annette si porterà dentro e che Garagnani chiama “il magone”. Non è casuale, infatti, la scelta dell’autrice di rappresentare graficamente lo smarrimento del crescere con una madre problematica e abusiva attraverso tavole anatomiche surrealiste e giochi enigmistici, come labirinti senza via d’uscita, scacchiere distorte, rebus, nel cercare di tracciare il profilo di una madre-Leviatano che segnerà per sempre Annette, convincendola di non valere niente senza la costante approvazione di Inger, e che la spingerà a dialogare con il suo magone, che profeticamente si congeda da Annette dicendole: «vado a nascondermi nel tempo. Ci rivedremo.» (p. 141) È su questa promessa di ritorno che vediamo Annette via via avviarsi verso l’età adulta, muovendosi tra il divorzio dei genitori e i molteplici traslochi dovuti alle cure psichiatriche di Inger che la condurranno in Italia, dove a Rimini conoscerà Agostino, suo futuro marito e padre di Sara. Con il matrimonio tra Agostino e Annette, a cui Inger e il suo nuovo marito, che disapprovano l’unione, non si presentano, si conclude la storia di Annette raccontata in prima persona, dove troviamo Annette di fronte a un dubbio, se concedersi la felicità di amare e diventare altro oltre la figlia oscura di Inger, o se restare incompleta non sapendo come negoziare con l’irreconciliabilità della lacerazione in un rapporto in cui mai ha saputo muoversi senza avere la sensazione di vagolare tra le spire di un enigma:
Io mi sentivo così diversa, ma… potevo perderla mia madre, senza perdermi? Che differenza c’era tra Inger -la donna, la persona- e mia madre? Chi era mia madre veramente? A volte sentivo come una vertigine: un senso di attrazione irresistibile e una chiamata col fascino del sacro coesistevano con una viva repulsione. Io ero quell’impossibile. […] È possibile sentire la mancanza di qualcosa anche senza conoscerla del tutto? Si può avere una madre senza averla, allo stesso tempo? E si può diventare una “brava madre” poi? Cosa significa essere figlia? Cosa significa essere madre? (p. 200)

La seconda parte del romanzo, raccontata dal punto di vista di Sara, vede Annette in preda al magone che subdolamente prende il sopravvento, rimanifestandosi nella sua vita come aveva promesso, e lasciandola soccombere di fronte alla dipendenza dall’alcol e dai farmaci, con i quali cerca di soffocare il senso di vuoto che si trascina dentro, che via via la allontana da sua figlia Sara e da suo marito Agostino, fino al culmine tragico di questa storia in cui la malinconia non riesce ad essere messa a tacere e in cui “il filo delle cose” sotterranee è forse impossibile da ripercorrere davvero. Così, attraverso la tragedia e attraverso l’indagine degli archetipi stessi di “madre” e “figlia” è Sara stessa a farsi erede e portavoce di un vissuto familiare in cui diventa suo compito rimettere insieme i lembi, provando a ricucirli, indagando la trasmissione generazionale lungo la linea materna di un intreccio fitto che unisce rabbia, violenza e affettività, cercando di restituire una dimensione umana alle donne del passato della sua famiglia, estraendole dalla dimensione di carnefici in cui sono state circoscritte, allo scopo di esplorare un vissuto di dipendenze e malesseri psichici e per cercare di trovare un nuovo linguaggio materno e un tentativo di guarigione dal trauma. Come spiega anche Maura Gancitano nella postfazione a Mor:
ogni persona deve fare i conti con una storia che non ha scelto, ma di cui è frutto. E può essere molto difficile, se è una storia piena di segreti, di vergogne, di dolori, di cose che sono scomparse insieme alle persone che le hanno vissute. (p. 361)
Sara Garagnani, con l’abilità sofisticata di una detective e con l’investimento emotivo che ogni storia personale richiede, recupera i componenti di un rompicapo familiare riassemblandoli in una rete di interconnessioni, sviscerando il concetto di ‘mor’, madre in lingua svedese, e consapevole, come lei stessa dichiara, che ‘ogni generazione di madri viene nominata nella parola’. Leggendo Mor. Storia per le mie madri, è impossibile non trovare in questa saga familiare un respiro universale che induce a riflettere sul nostro stesso vissuto, demistificando la figura materna e interrogandoci sulle colpe e i debiti con il passato, forse impossibili da saldare, e Garagnani ci riesce servendosi di un disegno originale, ricchissimo e pirotecnico, che si serve ora dei colori, ora dei tarocchi marsigliesi, ora di simbolismi visionari, in una graphic novel che mi ha ricordato quell’intimismo allucinatorio del Grande Male di David B. e che omaggia con originalità il retaggio scandinavo dell’autrice.

Matteo Cardillo