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Una breve lunghissima corsa. "Il libro della pioggia" di Martino Gozzi

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Il libro della pioggia
di Martino Gozzi
Bompiani, 2023

pp. 192
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (cartaceo)


Il libro della pioggia non è un romanzo, ma qualcosa di simile a una lettera, dichiara Martino Gozzi. E, in effetti, anche a me dopo averlo letto, non viene voglia di scrivere una recensione, ma qualcosa di simile a una recensione, che abbia però lo stesso carattere di "confessione", di lettera aperta, che non smarrisca, insomma, il dono della parola autentica, su cui si basa la scrittura del libro.
Quindi da dove cominciare? Sicuramente dal coraggio. Credo che per aprire in tal modo il proprio cuore, per raccontarsi con semplicità e pudore, ce ne sia voluto tanto.
Ho scritto questo libro quasi interamente di notte. Tra le undici e l'una. Per due anni, arrivato al termine della giornata, mi sono fumato una sigaretta in balcone osservando il traffico su corso Belgio. Una sigaretta e basta. Poi, ogni sera, mi sono preparato un gin tonic - uno e basta - in uno dei barattoli delle confetture che ho tenuto a questo scopo. Infine, seduto alla scrivania, ho aperto il MacBook e riletto le pagine della sera prima. Forse dovrei dire le frasi della sera prima, dal momento che il lavoro richiedeva tempo e io me lo sono preso tutto, scrivendo adagio. (p. 175)

Che sia un libro scritto adagio, con i tempi che servono al cuore per elaborare un lutto e trovare quel punto di svolta, come lo chiamano i manuali di drammaturgia. L'istante in cui il protagonista capisce di dover agire. (p. 48)

L'azione è il racconto. L'azione è la perdita di controllo. L'azione è il pianto. Perché l'autore è cresciuto in una famiglia in cui non si parla di morti. 

Perché il valore supremo della vita sta nell'andare avanti. Piangere è disdicevole, bisogna essere forti. Così ognuno ricorda a modo suo, in privato. È una regola tacita che anch'io ho imparato molto presto, da bambino, senza che nessuno me l'abbia dovuto insegnare. Fa parte di un codice non scritto che chiama tutti a un comportamento decoroso, e ci condanna alla nostra dose di solitudine. Molte volte avrei voluto trasgredire e varcare la linea invisibile tracciata da questa regola, eppure l'ho sempre rispettata. Almeno fino all'estate del 2018, quando mia figlia Clementina aveva poco più di tre anni e ancora non l'aveva fatta propria. "Che cosa è successo al tuo amico, papà?" mi chiedeva durante i nostri spostamenti in auto. "Mi racconti la storia del tuo amico, papà?". (p. 9).

In un mondo valoriale in cui «boys don't cry» (e la citazione dei Cure ci sta tutta, perché Il libro della pioggia è intessuto di musica e ci fa viaggiare tra le note dei Pearl Jam, dei Radiohead, Nick Drake, Bowie e tanti altri), Martino scopre di non essere pronto a rispondere alla domanda della figlia. Ma i bambini meritano sempre una risposta e quella da dare ai nostri figli è in fondo la risposta da dare al nostro futuro, per continuare ad andare avanti. Così Martino inizia un triplice racconto: alla figlia, alla psicoanalista, a Simone, scrivendogli la lettera che ha il rimpianto di non avere scritto quando lui era in vita.

A questi racconti si uniscono le lezioni che tiene a degli studenti particolari: quelli che si trovano al reparto di onco-ematologia dell'Istituto Seragnoli di Bologna. Il libro si dipana tra flashback, scritti in corsivo e rivolti a Simone, sotto forma di lettera aperta, e capitoli che si muovono su vari piani cronologici. Il punto zero di questi è senz'altro la morte di Simone, dal momento che abbiamo la narrazione di quanto è avvenuto prima (la vicinanza di Martino, degli altri amici, di Stefania e Lia, il sorriso di Simone non piegato dal calvario ospedaliero) e quanto è avvenuto dopo (la fine del matrimonio, la fine delle certezze, lo sterminato stato confusionale). In questo percorso, tra il prima e il dopo, anche la funzione della scrittura viene messa in discussione:

Senza contare il fatto che la scrittura può avere un potere terapeutico. Ho ripensato tante volte a questa frase che Valeria ha pronunciato nel corso della nostra prima telefonata, quando ancora non ci conoscevamo. Adesso, a più di due anni di distanza, mentre scrivo, continua a ronzarmi in testa sotto forma di domanda. Ha davvero un potere terapeutico, la scrittura? Può realmente salvarci? (p. 75)

Non la pensava così Gozzi prima e, in effetti, una risposta definitiva alla funzione della scrittura non sembra trovarla, però ciò che fa è ciò probabilmente ognuno farebbe nel tentativo disperato di salvare e bloccare ciò che scorre. E in questo tentativo da Sisifo, fermare il masso rotolante che è il divenire, rendere presente ciò che non c'è più, Il libro della pioggia raggiunge un lirismo stupendo, lontano dal melodramma o dalla ricerca spasmodica di commuovere. Eppure mi sono commossa, in più punti.

Ma sarebbe sbagliato presentare un'immagine monocromatica del libro di Martino Gozzi. Sarebbe sbagliato immaginarlo come un libro triste. Nella volontà di raccontare ciò che non c'è, di salvarlo dall'oblio, riaffiora la gioia di ciò che si è vissuto. E il lettore si sente accanto a Martin e Simon sul divano-isola, mette con loro la puntina sul vinile, sta nei pub in cui Simone suonava, è con loro zuppo fradicio dopo il concerto di Springsteen. 

Si avvertono tanti attimi intensi di felicità ne Il libro della pioggia, e la conclusione è davvero che 

Il punto era essere presenti, lungo la strada. Lottare, amare. Piangere. Camminare. Cantare a perdifiato. Questa è la vita. (p. 178)

Restano due cose che vorrei dire allo scrittore: farci ascoltare le canzoni di Simone e poi ringraziarlo per averci fatto conoscere lui e anche Michele. 

La scrittura è memoria, incompleta e imperfetta, come lui stesso riconosce, ma siamo fortunati ad averla.

 Deborah Donato