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«E non gli parlò mai del dolore solitario del proprio cuore; lui, dal canto suo, pensava di comportarsi molto bene». "La moglie del vescovo", di Robert Nathan

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La moglie del vescovo
di Robert Nathan
Atlantide, 2022

Traduzione di Flavia Piccinni

pp. 128
€ 20 (cartaceo)


È un libretto curioso La moglie del vescovo, romanzo di Robert Nathan pubblicato per la prima volta nel 1928 e tradotto ora in italiano da Flavia Piccinni per Atlantide, che si aggiunge alle altre opere dell’autore statunitense in catalogo, a partire dalla sua più celebre, Ritratto di Jennie. Romanzo breve, ambientato in una cittadina della provincia americana del secolo scorso, ma che potrebbe essere ovunque, in qualunque epoca, perché i riferimenti al contesto, gli agganci temporali, sono solo uno sfondo, il fulcro della narrazione sono invece le persone, i rapporti. È una storia, quindi, che ben si presta al passaggio di epoca, così come a quello di registro narrativo, tanto che per due volte è stata trasposta per il cinema (la prima nel 1947 con Cary Grant, la seconda nel 1996 con Withney Houston e Denzel Washington).

Lo sguardo di Nathan è tutto rivolto a Julia ed Henry, moglie e marito, e alla crisi del loro rapporto, una crepa che si allarga sempre più quando nella loro quotidianità irrompe un angelo, Michael, assunto dal vescovo Henry in qualità di arcidiacono. L’opera di Nathan è di frequente attraversata da questa fusione di reale e fantastico, che ne La moglie del vescovo si posa sulla storia senza particolari sconvolgimenti. Michael bussa alla porta del vescovo in risposta alla sua silenziosa preghiera di aiuto per la gestione della parrocchia e la riuscita dell’ambizioso progetto di costruire una maestosa cattedrale; gli rivela subito la propria natura divina e il vescovo, da uomo di fede, non ne rimane più di tanto sconvolto, accetta di buon grado l’apparizione sfruttandone i vantaggi immediati dell’avere finalmente un aiutante. Come lui anche altri nella storia che verranno a conoscenza della sua reale identità non paiono rimanerne particolarmente sconvolti. Sconvolto, casomai, è l’ordine delle loro vite fino a quel momento condotte.

Retto su un equilibrio quantomai precario, il matrimonio di Julia ed Henry è fatto di silenzi, frasi di circostanza, distanza, tiepido affetto. Lui, totalmente assorbito dai doveri della Chiesa, ignora – o sceglie consapevolmente di farlo – la sofferenza della moglie, la solitudine dentro il matrimonio che la attanaglia, chiuso nel suo studio a immaginare la cattedrale e lontanissimo dalla sua famiglia. C'è già nel titolo (fedele all'originale), l'indicazione puntuale di dove sia puntato il faro dell'autore, che della quotidianità in crisi ha fatto il fulcro della narrazione. Un quotidiano plasmato fin dai primi giorni del loro matrimonio:
Il periodo successivo al matrimonio non fu infatti molto felice per Julia. Il giovane futuro vescovo aveva molto a cui pensare; i suoi doveri, come li concepiva, non meno delle sue convinzioni, lo obbligavano a una dedizione assoluta. (p. 15)
La distanza che li separa è fatta di silenzi, parole che non si possono dire perché convinti non sarebbero comprese, indifferenza a tratti. È un matrimonio, una relazione, come tanti altri, adagiato su un quotidiano che si è scelto di non turbare, l’infelicità e la frustrazione custodite in silenzio, tanto da una parte che dall'altra.
Lei voleva dirgli sì… Mi sento sola. Voleva gridargli: ho paura, Henry, e non so di cosa… O meglio, non ne sono sicura. Mi stringeresti forte, per favore, almeno per un po’? Ma era impossibile; mentre lo guardava si rese conto di quanto fosse impossibile. Non c’era nulla in lui che aspettasse di parlare alla sua solitudine o di consolare la sua paura. Lui la amava; stava lì, dritto e alto, e la osservava con gentilezza e affetto. Ma non scorgeva mai in lei le cose che non voleva vedere. (p. 54)
Un equilibrio precario che perde ogni punto di riferimento con l’arrivo di Michael: porta con sé ulteriori dubbi e desideri, facendosi via via sempre meno divino e più terreno. Julia ne è immediatamente affascinata, lo fraintende e ne viene attratta, consapevole del pericolo che quel rapporto potrebbe rappresentare per il suo matrimonio, per la sua famiglia e, se lei conoscesse la vera identità di Michael, per il dramma che il legame tra umani e divino porta scritto in sé. Ma non è importante sapere, per Julia, come del resto non lo è più di tanto importante come andrà a finire: perché il cuore della narrazione, in fondo, è la crepa che si allarga sulla facciata, è il racconto della crisi.

Una crisi che ha molteplici sfumature: è quella di un matrimonio che non conosce passione né amore, quella della divinità che fa i conti con la propria parte umana e sempre più importante; quella della fede che si confronta con il mondo, le sue contraddizioni, l’incanto delle parole; quella dei ruoli prestabiliti, delle certezze che non possono più essere tali. È un romanzo breve, quindi, ma denso di spunti e complessità appena sotto la superficie, che apre a molte considerazioni, a partire perciò dalle relazioni alla fede, argomento molto caro all’autore che qui intreccia in modo interessante alla vicenda.

Scrittore prolifico e molto apprezzato da colleghi suoi contemporanei come Fitzgerald e Bradbury, Nathan ha spesso attraversato e fuso insieme generi letterari diversi, in una commistione tra reale e fantastico che sa farsi credibile, sincera, in La moglie del vescovo come e soprattutto nel suo romanzo più notevole, Ritratto di Jennie, il primo che Atlantide ha proposto qualche anno fa nell’opera di riscoperta di questo autore. E sono le relazioni, i legami tra esseri umani, a catturare sempre e in modo diverso lo sguardo dello scrittore, che si posa tra le pieghe del quotidiano e delle sue piccole grandi frustrazioni, nelle parole che non si possono dire, nelle attese, nelle distanze, nella natura stessa dell’amore. La vita, la morte, il ricordo. Lo straordinario che si innesta sull’ordinario. La narrazione sapiente, che sfida regole e sterili confini di forma.


Debora Lambruschini