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"Metropolitania" di Carolina Cavalli per Fandango: disturbante e inutilmente spinto tanto da deludere?

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Metropolitania
di Carolina Cavalli
Fandango Libri, novembre 2022

pp. 208
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)


Dico la verità: sono stata attratta dalla copertina ancora prima di leggere la trama di questo libro. I colori acidi, quel fucsia saturo e l'unico distributore di bibite nel mezzo dei binari mi hanno fatto subito immaginare che potesse trattarsi di un racconto aspro, duro e forse un po' "alla Refn".
La sceneggiatrice Carolina Cavalli è al suo esordio nel romanzo, ma è già un nome noto nel mondo del cinema: ha vinto il San Francisco Film Society Rainin Filmaking Grant e il premio Solinas Experimenta; quest'anno inoltre ha realizzato il primo lungometraggio da regista, "Amanda", presentato sia al Festival di Venezia che al Toronto Film Festival.
Delle buone premesse allora, no?
Eppure, a malincuore, devo dire che il romanzo non mi è piaciuto.

La vicenda segue Eddi, una ragazza di ventotto anni, distrutta fisicamente e psicologicamente da un rapporto disastroso con la madre, dall'abuso di alcool e droga e dall'abitudine di fare sesso con chiunque le capiti a tiro. Per di più, esce particolarmente segnata dalla morte del suo fidanzato Mattias, collassato per overdose, e per questo, per alimentare l'illusione che sia ancora vivo, va a letto con il suo gemello Lou. Quasi subito incontra Masami, una ragazza ancora più rotta e caotica di lei, e insieme intraprenderanno una sorta di viaggio allucinato, spesso facendo tappa in fermate della metro, con lo scopo di proteggere l'ubicazione di un misterioso vaso cinese di grande valore.
La trama è bella, è attraente, potrebbe far pensare, come ci suggerisce anche la casa editrice, a una storia alla Thelma & Louise, e in effetti è quello che è, la disperata fuga da se stesse e dalla realtà delle due protagoniste.
Perché è sempre così, che non me ne frega mai un cazzo di niente, a meno che non mi faccia ridere o soffrire o dimagrire. (p. 97)
Eddi è bulimica, è un'artista che distrugge il suo corpo avvilendolo e le sue tele bruciandole, è blasfema, anche se dice di amare la Madonna, e in Masami troverà il suo doppio, un'amica che non farà altro che gettare benzina sul fuoco, esacerbando le sue paranoie già consistenti. Spesso si troveranno in punto di morte, che sia per qualcuno che vuole ammazzarle o per una sorta di lento suicidio.
Sulla carta, il romanzo ricorda molto le atmosfere conturbanti di Nicolas Winding Refn (regista di "The Neon Demon", "Too old to die young" e "Drive", per citarne alcuni) che io apprezzo molto, sia in quanto a cura estetica, sia perché racconta storie come nessuno. Spesso i suoi film mi hanno lasciata turbata, nauseata, ma anche euforica, ed è quello che speravo anche di questo romanzo, perché le carte in regola c'erano tutte: neon, splatter (poco), sesso (parecchio), droga, criminalità, corruzione, follia.
E in realtà ci sono, ma scritte male.

Il problema infatti di questo libro è proprio la scrittura.
Non ho pregiudizi per quanto riguarda lo stile secco, diretto, contemporaneo, pure volgare, ma, a mio avviso, quando si sceglie di adottare una scrittura cruda e degradante, la "parolaccia" va dosata sapientemente. Se troviamo la parola "cazzo" ripetuta venti volte nello stesso paragrafo c'è qualcosa che non va. Esistono romanzi che seguono questo filone, prendiamo "Trainspotting" nella traduzione in italiano, che personalmente non mi ha mai entusiasmato, proprio perché la scurrilità non è al servizio della storia, ma la svilisce.
Succede lo stesso qui: una parolaccia, come "cazzo", "vaffanculo", "stronza", "porca troia" e compagnia cantata può essere estremamente efficace in una frase (vedi Bukowski), ma l'esagerazione, la replica, la drammatizzazione fine a se stessa non incontra mai il mio favore, perché spesso non è bilanciata da una sua controparte più "soft", da un passaggio successivo che smorzi quello precedente.
Qui ci troviamo di fronte a una narrazione che infila uno "scopare" ogni due parole, una scena di sesso, esplicita fino alla nausea, ogni tre pagine, spesso inutile, che davvero non serve all'economia di quel pezzo di storia. Si ha l'impressione che la trivialità pur necessaria in un racconto di questo tipo sia trattata in modo ingenuo, perché una scena di sesso va bene, due vanno bene, tre, quattro ok, ma non venti, e tutte dello stesso tenore. Come la parola volgare può essere un fortissimo motore e combustibile all'interno della narrazione, così la sessualità, e quando queste sono lanciate nel testo perché "beh, la gente ormai parla così e scopa così" purtroppo stona tutto.
Lo stesso discorso per le ripetizioni continue: reiterare una stessa parola può essere un mezzo per sottolineare l'importanza di un passaggio, di un concetto (Bolaño ce l'ha insegnato molto bene) ma perché dire venti volte in quattro righe "supermercato?", "stronza di merda", "degenerativo", "faccio"? Può essere efficace una volta, due, ma non con una frequenza così serrata.
Con questo non sto dicendo che l'autrice non sappia fare il suo lavoro, il romanzo è fortemente cinematografico, si possono quasi vedere alcune scene come fossero sequenze di un film, ma si percepisce quanto lei sia una sceneggiatrice e molto poco una scrittrice, perché la differenza è tanta, anche se all'apparenza le due professioni potrebbe assomigliarsi.
Capisco l'intento di voler raccontare qualcosa di contemporaneo, di forte, anche di scioccante, ma la strada scelta è completamente sbagliata. Ça va sans dire, è certamente una questione di gusti e non ho dubbi che questo libro incontrerà molti favori, ma ecco, io non mi posso dire entusiasta.
Che strano questo lenzuolo che continua ad abbracciarmi da dietro, non mi vuole scopare da dietro, mi vuole proprio abbracciare. Poi se ci scappa una scopata non è che mi dia fastidio, ma è un lenzuolo dolce che, se parlasse, balbetterebbe da quanto è fragile e spaventato [...] Allora mi tolgo le mutande e mi strofino un po' sul lenzuolo. In realtà scopro che voleva questo dall'inizio, era una finta, non è liscio ma viscido, come strusciarsi su un'anguilla, voleva questo dall'inizio. Neanche lui è carino con me, è solo un figlio di puttana peggio degli altri. Sono abbandonata e sola, di nuovo, come un cane randagio, rifiutata dal facchino, scopata dal lenzuolo, cacciata dalla camera perché è ora del check-out. (p. 77)

Noi facciamo sempre questa cosa che prima mi scopa e poi mi faccio venire in bocca perché non prendo la pillola e tra di noi possiamo non usare il preservativo perché lo usiamo con tutti gli altri, questa è una sorta di esclusività, volendo. E poi c'è una cosa che faccio sempre, da sola, dopo tutto quanto, vado in bagno per sputare il bianco, ma me lo faccio gocciolare un po' sulle labbra, lo sputo lentamente così mi rimane sul mento [...] (p. 101)

L'autrice ci mette davanti una persona sostanzialmente disturbata e dunque adotta uno stile che ci permette di immergerci nella sua follia. Questo lo capisco: Eddi è una tossica, una malata, forse pazza come la madre, si droga e vomita in ogni angolo, quindi certamente non poteva parlare con la stessa finezza di Elisabeth Bennet, ma, ripeto, la follia va dosata, altrimenti diventa non solo petulante, ma anche disturbante in senso negativo.
Peccato perché ci sono dei picchi ironici notevoli, sappiamo che Eddi è sempre fatta, ma in alcuni punti è davvero piacevolmente acuta. E anche i personaggi collaterali, come Masami stessa, o Noura, sono potenzialmente esplosivi, ma restano schiacciati da una ripetitività fastidiosa, come se tutti i personaggi dovessero per forza somigliarsi. Sono tutti rotti, tutti fatti, tutti pazzi. Dov'è il conflitto allora? E se pure non esiste redenzione per loro, qual è lo scopo di tutto?
Trovo che sia un'occasione persa, il libro avrebbe davvero potuto sbocciare in modo diverso. Se l'autrice ha voluto scegliere uno stile ben definito, e ben venga il coraggio o l'originalità, questa scelta si è sfilacciata nella mancata correttezza della scrittura che, attenzione, non è troppo spinta, ma inutilmente spinta.
Questo è il punto: non la parolaccia, non la scena di sesso, ma la loro condotta, distribuzione e frequenza nel testo. Sarebbe bastato dosarle, porle sapientemente qui e lì invece che gettarle a casaccio, una cosa che spesso fa innervosire i lettori, come nel mio caso.

Deborah D'Addetta