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#CritiCOMICS - Quando "la gabbia" siamo noi: il nuovo graphic novel di Silvia Ziche

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La gabbia
di Silvia Ziche
Feltrinelli Comics, 2022

pp. 144
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


 
Una figlia, ormai affermata e lontana, torna a casa per occuparsi delle esequie della madre appena mancata. La separazione non è però ancora definitiva: la donna si presenta infatti all’improvviso nella soffitta disordinata della sua mente, con una ramazza in pugno e tanti rimproveri da muoverle. Tra giocattoli rotti, scheletri negli armadi, cianfrusaglie accatastate e ombre di pensieri negativi che fanno capolino qui e là con i loro occhietti minacciosi, i ricordi positivi si contano, letteralmente, sulle dita di una mano, e non sono nemmeno condivisi.
La defunta di Letizia ha solo il nome, che pare anzi ossimorico, stonato, per una persona che
non ha mai saputo o voluto essere felice, che si è crogiolata tanto a lungo nella propria autocommiserazione da non considerare, se non negativamente, la propria stessa figlia. Nelle parole a tratti feroci, impietose, che vengono scambiate, iniziano a balenare lampi dal passato.
La depressione è un’onda che travolge tutto, l’unico salvagente sono i blister di pillole con cui la madre cerca di spegnere il suo dolore, e di calmare una bambina che ha la sola colpa della naturale vivacità della sua età. 
È stata allora che ho cominciato a pensare che per farsi amare bisognasse stare male. […] Non è certo che la depressione sia ereditaria. Ma di sicuro è una modalità che si apprende. Il dolore non nasce dal nulla. È una catena.
La forma del graphic novel costringe a una sintesi estrema, a una radicale selezione delle parole, così che quelle che restano risultano dense, essenziali. Di generazione in generazione, le donne della famiglia portano lo stesso fardello, e ne caricano le spalle delle proprie figlie, mentre questo attraverso il tempo e lo spazio sembra allargarsi e appesantirsi a dismisura.
Il confronto tra madre e figlia è un duello senza esclusione di colpi, perché nessuna delle due cede rispetto alla propria posizione: la madre nel giustificare il proprio comportamento duro e anaffettivo, la figlia nel considerarla responsabile di tutti i suoi problemi, primi fra tutti l’incapacità di accettare se stessa e di capire che l’amore (anche quello maschile) non ha la forma dell’indifferenza o del disinteresse. La bambina continuamente colpevolizzata diventa
la vittima perfetta. Tutte le sue relazioni sono destinate a fallire perché replicano il modello di quelle famigliari. Eppure anche lei non è scevra di colpe, come le ricorda la figlia che non ha mai avuto, ulteriore proiezione dei suoi sensi di colpa, che appare a rinfacciarle la sua non esistenza.
Ci si inizia quindi a interrogare sul valore polisemico della gabbia evocata dal titolo: la gabbia è la prigione del contesto ambientale e genitoriale che è toccato in sorte, delle aspettative sociali, ma anche di quelle che il soggetto crea per se stesso. Gabbia può essere la maternità, quella vissuta e quella respinta. Le figure con cui la protagonista dibatte non esistono infatti se non nella sua mente. La madre con cui discute non è la sua vera madre, ma la memoria della madre filtrata dal suo ricordo, dalle sue ferite. Per iniziare a fare i conti con questa figura scomoda, ma ineludibile, è necessario riportarla alla situazione reale, quella in cui deve essere seppellita, quella dei resti decadenti dei suoi beni terreni, dell’appartamento desolato in cui ha trascorso i suoi ultimi tempi. Solo nel momento in cui si apre a un dialogo vero, in cui inizia provare una briciola di empatia, in cui inizia a guardare alla figura della donna con gli occhi degli altri, la protagonista può provare a comprendere, e quindi ad accettare la sua verità, a pensare che qualcosa può essere sfuggito: 
Incidentalmente ero anche tua madre. Ma non solo tua madre. Proprio come te, che non sei solo figlia. Ho fatto quello che potevo, come tutti. Anche tu hai fatto quello che potevi.
Uscendo (ma solo apparentemente) dalle sue corde, quelle dell’ironia e della leggerezza, Silvia Ziche affonda il pennino in una storia inizialmente drammatica, dalle radici autobiografiche, una storia di crescita, di perdita e di riscatto, di guerra e pacificazione; una storia che non manca però di un colpo di scena finale, un guizzo che riporta il sorriso e permette di relativizzare all’improvviso quanto letto fino a quel punto, ricordandoci come dai nostri fantasmi, dalle nostre prigioni, non ci liberiamo mai del tutto. 
 
  Carolina Pernigo