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L'esordio di Diana Ligorio: «Mia e la voragine»

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Mia e la voragine
di Diana Ligorio
TerraRossa, 2022

pp. 132

€ 14,90 (cartaceo)


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Svegliarsi quando si compiono undici anni è come svegliarsi il giorno prima in cui si compiono undici anni ma molto più arrabbiati. (p. 66) 

Immaginiamo di aver appena messo piede fuori dall’auto dopo essere giunti in un paesino del centro Italia, uno di quei borghi di stampo medievale che hanno conservato gran parte del fascino delle cose perdute – il castello che svetta là in alto, le case piccole e arroccate una sull’altra, le viuzze strette con le piastrelle irregolari lungo le quali crescono ciuffi d’erba senza nome – e di guardarsi intorno con una strana sensazione di déjà vu. Prima di metterci in marcia per raggiungere la chiesa in stile romanico o il piccolo palazzo del municipio, restiamo a guardare per un istante ancora lo scorcio che si intravede nell’interstizio di due edifici, o l'edicola votiva situata proprio sopra il negozio del fornaio, dal quale emerge il profumo del pane caldo.

E d’un tratto, potente come solo il ricordo sa essere, ci rendiamo conto di essere già stati in quel posto. Ma non la settimana scorsa: una vita fa. Eravamo piccoli – ma quanto piccoli? Così piccoli da non essere ancora noi, così giovani da non aver ancora sviluppato una nostra identità, una nostra storia personale. Forse avevamo dieci o undici anni ed eravamo venuti qui con i nostri genitori per trascorrere qualche scampolo d’estate. Lì, in quel fornaio, papà comprava le focacce con cui facevamo colazione la mattina. Là, in quel vicolo, giocavamo a nascondino con i figli del sarto.

Ecco allora che si apre un mondo di memorie. Memorie di tempi quasi dimenticati, ricordi accantonati come fossero vecchi abiti dismessi. Tempi in cui ogni cosa era, nelle nostre menti giovani, immensamente più complessa, enorme e magica di come poi si è rivelata. Il divino doveva ancora sciogliersi davanti a noi come burro in una padella rovente. L’amore era impossibile e magnifico. Era l’epoca dei miti.

Se questa piccola narrazione ha evocato qualcosa di familiare, ebbene sappiate che la scrittura di Diana Ligorio – classe 1982, di professione sceneggiatrice – nel suo esordio in narrativa con TerraRossa è il genere di scrittura in grado di richiamare i fantasmi del passato come poche altre. Mia e la voragine è un libriccino di poco più di un centinaio di pagine in cui non capita granché a livello di trama, perché quasi tutta la narrazione avviene all’interno della giovane protagonista che, quasi una novella Alice, si trova a inventare ogni giorno le meraviglie del proprio mondo perché quello reale – quello in cui vive con una madre anaffettiva e troppo presa dalla propria carriera – non è abbastanza. Giunta come ogni estate nel paesino di Dolina, dove poco o nulla accade perché in provincia tutto è sempre uguale a se stesso, Mia vaga per le vie immaginando ciò che non è, dando vita a creature e situazioni che non esistono. In lei, tutto prende forma e colore, ogni cosa assume sembianze nuove. Storie vengono costruite e disfatte, persino l’immondizia riesce a diventare qualcosa con cui fare i conti. E fra tutte queste cose, ciò che ha maggior importanza è proprio la voragine che dà il titolo al libro: un luogo pericoloso, attorno al quale giocare con circospezione, come solo si può fare con qualcosa che appare come una colonna d’Ercole, un limite invalicabile, un non plus ultra che, però, diviene protagonista della parte finale del romanzo, quando gli eventi accelerano e ogni cosa precipita verso l’ignoto.

Ciò che colpisce di questo breve testo – come in buona parte capita con la collana Sperimentali di TerraRossa – è la scrittura di Diana Ligorio. Se difficile è mettersi nei panni di una ragazzina di undici anni, ancor più complesso risulta imitarne i pensieri. La voce di Mia, che racconta tutto in prima persona, è originale, autentica, realistica. Con un piccolo sforzo d’immaginazione possiamo ricordare come pensavamo noi a quell’età, come parlavamo, ma soprattutto come davamo forma a concetti complessi come l’amore, la paura, il dolore. Mia si apre a se stessa, e a noi lettori apre il proprio mondo fatto di timori ancestrali, di grandi sogni e immensi incubi. Nel suo modo di ragionare troviamo qualcosa della tradizione orale, quel ripetersi di parole e termini che sembrano errori di scrittura ma non lo sono, perché anzi rafforzano i concetti e donano alle frasi una potenza nuova e prima nascosta, come capita in una frase all’apparenza banale come questa: «Vedi se non mi caccio in qualche guaio solo per aver rovistato nel mucchio, anzi per colpa di mia madre che non potevo stare a casa per colpa sua» (p. 22).

Il mondo dei bambini, soprattutto di quelli che si annoiano e cominciano a inventare le proprie regole, è un luogo colorato, pieno di creature assurde e situazioni immaginifiche. Qualcosa che viene perso nell’età adulta, dove i colori sono inevitabilmente più spenti e le cose hanno funzioni specifiche. Mia e la voragine apre uno squarcio su tutto questo, e lo fa con una delicatezza rara.

David Valentini