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«Quante identità si nascondono, in ciascuno di noi?»: "In forma di essere umano", la latitanza e la cattura di uno dei criminali nazisti più ricercati nel nuovo romanzo di Riccardo Gazzaniga

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In forma di essere umano
di Riccardo Gazzaniga 
Rizzoli, settembre 2022

pp. 516
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


C’è sempre un libro che rappresenta il punto di svolta nella carriera del suo autore. Non necessariamente perfetto o il migliore da un punto di vista critico, ma quello che marca un confine netto. Nel caso di Riccardo Gazzaniga, autore genovese poliedrico e assai interessante, quel libro è In forma di essere umano, appena uscito per Rizzoli. Gazzaniga non è nuovo alla scrittura né tantomeno alle storie e ai personaggi che lasciano un impatto importante sui lettori, specie quando si rivolge al pubblico più giovane. Ma questa volta tenta una prova più difficile, scrivendo un romanzo sulla cattura di Adolf Eichmann, il latitante nazista che per quindici anni si è nascosto in piena luce dopo la fuga dalla Germania, dopo i crimini commessi come SS. E che, fino all’ultimo, non si è mai pentito, non ha mai avuto dubbi sulle proprie responsabilità. In forma di essere umano è il racconto teso e puntuale della latitanza e della cattura, del processo di Gerusalemme; per farlo Gazzaniga sceglie due punti di vista complementari, Eichmann e Zvi Aharoni l’agente del Mossad che si mette sulle sue tracce.

Una storia complessa, densa di implicazioni e spunti di riflessioni, che mescola generi diversi: romanzo, thriller, spy-story, testimonianza e citazioni. Perché tanto complessa è la materia da trattare che necessitava di un apparato letterario altrettanto molteplice, basato su una ricostruzione storica che ha richiesto un lungo periodo di ricerche, studi, materiale. Era possibile scrivere un saggio con tutto il materiale accumulato, ma Gazzaniga ha efficacemente scelto questa forma ibrida tra fiction e storia pur con pochissimo spazio lasciato all’invenzione letteraria, spostandosi continuamente dall’uno all’altro, da Eichmann ad Aharoni, dal presente – l’Argentina di fine anni Cinquanta e la vita da latitante – al passato – l’ascesa come SS, la caduta, la fuga. Perché era l’unico modo possibile per dare voce a Eichmann, calarsi nel suo punto di vista, la fede cieca nelle proprie convinzioni. E, dall’altra parte, raccontare anche l’uomo che ne ha permesso la cattura, il fantasma del Mossad, le sue identità sfuggenti, il coinvolgimento emotivo e personale nell’ossessione e la ricerca del criminale nazista.

Quando pensiamo ai criminali nazisti catturati dopo la fine del Reich e della guerra, il nostro immaginario collettivo rimanda al processo di Norimberga e a quella «banalità del male» efficacemente sintetizzata da Hannah Arendt; ma l’etichetta non si applica ugualmente bene ad Adolf Eichmann perché di banale nella sua orribile determinazione e nella cattura vi è davvero molto poco se non nulla. È fino alla fine un uomo convinto del proprio operato, certo di aver solo eseguito gli ordini impartiti dai propri superiori, privo di alcuna responsabilità diretta nel piano di sterminio del popolo ebraico.
Lui non ha avuto quel potere, non ha deciso nulla. Ma ciò non lo scagiona affatto: se Eichmann è stato un esecutore, è stato un esecutore convinto, infaticabile, feroce, efficiente e, soprattutto, impermeabile al dubbio, e questa è la sua colpa più grande, non aver mai mostrato una crepa da cui filtrasse la luce dell’umanità. (p. 468)
È solo un involucro vuoto, Eichmann, privo di umanità? Una «forma di essere umano» che non ha mai avuto un cedimento, un momento di consapevolezza dell’orrore di cui anche lui era responsabile? « È stata una colpa collettiva, la decisione di un popolo, non di un singolo», ma quel singolo nel caso di Eichmann ha avuto il potere di decidere della vita di molti, eseguendo gli ordini, dal progetto sionista di organizzare l’uscita dalla Germania degli ebrei verso una terra tutta per loro alla soluzione finale.

La materia storica e umana che Gazzaniga tratta in questo romanzo è quantomai complessa e non è intenzione dell’autore farsi giudice morale, ma attraverso il romanzo di Eichmann e Aharoni ci permette di riflettere sul male e la vendetta, su identità, colpa, responsabilità. E, pur riconoscendo il male dentro Eichmann ne racconta anche l’uomo, il marito, il padre, restituendoci una figura complessa e le implicazioni che tale aspetto comporta. In noi lettori, in Aharoni.
E lei, Vera, è consapevole di ciò che ha fatto il suo uomo o lo ignora? Perché, se lo sa, dovrebbe seguire il marito anche nel suo ultimo destino. Ma quel bambino. Cosa ne può sapere quel bambino? Se ho ragione, se suo padre è il criminale che cerchiamo, gli sconvolgerò la vita. La verità è che lo renderai orfano, Aharoni. Credo alla giustizia e non alla vendetta, ma sono odio e vendetta che mi parlano con sussurri pestiferi, nel buio di Bancalari. (p. 119)
Ecco perché era importante dare voce ad Aharoni, restituire un corpo e un’identità a chi per tutta la vita è stato un’ombra, un fantasma, «un nome inventato su un documento falso, un soldato senza divisa né medaglie, non una persona, ma il suo obiettivo». E, con lui, dare corpo al dubbio, al confine labile tra odio e giustizia. Ebreo tedesco costretto a fuggire dalla Germania antisemita, ex soldato, agente segreto incaricato dal Mossad di seguire una debole traccia di Eichmann in Argentina e scoprire senza dubbio alcuno se dietro l’identità di Ricardo Klement si celi davvero il criminale nazista che stanno cercando. Nella figura di Aharoni c’è tutta la complessità di un uomo che convive con i propri fantasmi, si muove da sempre nell’ombra, spogliandosi di identità, celando alla sua famiglia stessa la portata del suo lavoro. E, ancora, c’è il dubbio che si insinua nelle convinzioni, l’umanità e la pena, la critica non celata alle macchinazioni del Mossad. Attorno ai due protagonisti si addensa un mondo di fantasmi, le vittime del passato, i nemici combattuti e gli amici perduti, le amanti, la famiglia da tenere al riparo, le voci, i sospetti. Il caso, che qualche volta gioca a favore della giustizia.

È una storia complessa nelle sue numerose implicazioni e riflessioni che induce nel lettore, e da un punto di vista critico si avverte talvolta la necessità di sfoltire la narrazione; ma risulta efficace la modalità con cui Gazzaniga ha scelto di consegnare ai lettori la vicenda di Eichmann e Aharoni, i due punti di vista alternati, la commistione di generi letterari che si posa saldamente su un apparato storico-critico ben assimilato dall’autore. La narrazione è forte, ma ciò che distingue questo romanzo è proprio la distanza con cui l’autore sceglie di raccontare la storia, privo di giudizi o mistificazioni. Sono gli interrogativi senza risposta, i dubbi e le riflessioni che suscita nel lettore a fare la differenza. A farne, quindi, un romanzo sul confine tra giustizia e vendetta, sulle forme che il male può assumere e che vanno oltre il tempo storico cui una storia appartiene; sul singolo e le colpe collettive.
Sui mostri, che sono dentro certi esseri umani. 
«La verità è una luce? Avrei voluto si contorcesse nei vestiti e mostrasse la sua vera natura. Sai, lunghi denti affilati, unghie ricurve, prima di liquefarsi. Invece niente. È solo un uomo. E questo significa una cosa, per me.» «Cosa?» «Che in un’altra parte del mondo, in un altro tempo… succederà ancora, Malkin. Non servono vampiri. Bastano gli uomini, a fare cose mostruose.» (p. 419)


Di Debora Lambruschini