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«Quanto valeva la sua casa? Tutto, se ci abitava una famiglia felice. Altrimenti, niente»: "L'albero della nostra vita" di Joyce Maynard, tra sovrabbondanza e riflessioni importanti

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L'albero della nostra vita
di Joyce Maynard
NN editore, 2022

Traduzione di Silvia Castoldi

pp. 496
€ 20 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)


Le famiglia non sono sempre come te le immagini. E anche se lo fossero, quella non sarebbe quasi mai la verità. (p. 463)
Una famiglia, un matrimonio, una vita. È un terreno particolarmente fertile per la scrittura, uno di quei topos letterari che si rinnovano continuamente, adattandosi alle complessità e alle contraddizioni del mondo evocato e capace di creare un legame molto intimo – tanto per affinità quanto per contrasto – con il lettore che tra le pagine osserva la vita prendere forma, lo sguardo dello scrittore abile a delinearne le crepe sulla facciata, gli angoli più bui, le felicità e le miserie quotidiane.
Di famiglia, matrimoni e relazioni, è disseminata buona parte della letteratura ed è un centro nevralgico cui come lettrice mi ritrovo a tornare spesso, con particolare interesse per quelle narrazioni capaci di raccontarne le complessità, il mistero, i punti di vista meno ordinari. Per NN editore lo scorso anno era uscito intorno a questo tema un mirabile romanzo, La sposa del mare di Amity Gaige, che nella lacerazione del dolore e della perdita pulsava di vita, salsedine, intima solitudine e amore. Un romanzo che avevo adorato, doloroso, bellissimo. Citerò solo questo, perché l’argomento è tanto vasto e a me caro da rischiare una sovrabbondanza che svierebbe dal discorso. L’albero della nostra vita, della scrittrice e sceneggiatrice statunitense Joyce Maynard si ascrive idealmente al filone in questione, ma a differenza dell’opera di Gaige o di molte altre selezionate da NN non vi ho trovato quella capacità intrinseca di andare oltre l’immediata lettura e immaginare possa davvero resistere alla prova del tempo. È, a mio avviso, un problema di sovrabbondanza – e, va da sé, di gusto personale – in una narrazione che si fa strabordante, troppo densa di tematiche e spunti tutti importanti ma che per forza di cose non sono adeguatamente approfonditi e di alcune scelte strutturali che non funzionano del tutto. Va detto che, magistralmente tradotta dall’abile Silvia Castoldi, la narrazione resta nonostante tutto coerente, Maynard pare non perdere mai di vista i molteplici elementi che la compongono e anche laddove si ripeta e soffermi ancora e ancora su taluni elementi queste scelte paiono assolutamente consapevoli.

È innegabile, comunque, una certa fascinazione per le vicende narrate in questa saga famigliare che abbraccia trent’anni di vita di una donna e della famiglia che costruisce e perde, e per la scrittura piana che si arricchisce di immagini e metafore ben congeniate. Così come vi sono spunti e tematiche che prendono forma sulla pagina per inserirsi in un discorso non solo letterario ma umano stesso, più ampio e interessante. L’albero della nostra vita è un romanzo imperfetto, ma di pregio, nel quale si avverte a mio avviso la mancanza di un editing capace di andare a sfoltire talune ridondanze e sovraccarichi, di cui forse non avrò piena memoria di qui a qualche tempo ma del quale salverò senz’altro alcune riflessioni indotte dalla lettura. La famiglia, si è detto, rappresenta il centro nevralgico della narrazione ed Eleanor, la protagonista della vicenda, ne è il cuore. Suo è il punto di vista sulla storia, fallevole, soggettivo, umanissimo, suo il mondo che un pezzo dopo l’altro si costruisce e che, dolorosamente va in pezzi. 

Maynard ci pone immediatamente di fronte alla rottura dell’equilibrio, alla frattura già da tempo avvenuta: nelle primissime pagine del romanzo sono già sparsi tutti gli indizi di ciò che è accaduto e che leggeremo in un viaggio a ritroso, dall’infanzia di Eleanor – segnata dalla solitudine, la lontananza e poi la tragica scomparsa dei genitori – , la sua adolescenza, all’età adulta e alla determinazione nel costruire per sé una stabilità famigliare mai posseduta. Quella famiglia che, sappiamo, a un certo punto si è persa, frammentata in altri pezzi, solitudini e segreti.
Come può succedere che la persona con cui hai condiviso i tuoi momenti più intimi – il più grande amore, il più grande dolore, la più grande gioia, il più grande lutto – diventi un estraneo? (p. 28)
C’è stato un tempo per la felicità piena, l’incontro con Cam dopo i traumi dell’infanzia e gli abusi, la costruzione di una famiglia in quella dimora un tempo solitario rifugio e poi diventata una casa; l’amore, il matrimonio, i tre figli nati a distanza ravvicinata l’uno dall’altro. Ma ben prima del terribile incidente che manda in pezzi ogni cosa, c’erano già evidenti le crepe sulla facciata: Cam, padre affettuoso ed entusiasta, ma del tutto inaffidabile, privo di concretezza; il peso famigliare tutto caricato sulle spalle di Eleanor, le notti insonni per far quadrare i conti, la propria identità annullata nel solo ruolo di madre e moglie. Le crisi improvvise e i traumi irrisolti, le solitudini e le incomprensioni quotidiane, che si sedimentano e restano lì, sul fondo di una vita che nonostante tutto scorre, il tentativo di proteggere i figli da ogni più piccolo dolore.
Era come diventare genitori, pensava Eleanor, guardando la piccola flotta di barchette oscillanti che si allontanava trasportata dalla corrente. Fabbricavi preziosi omini e donnine. Li sorvegliavi da vicino, animata da un unico scopo impossibile: tenerli fuori dai guai. Ma presto o tardi dovevi lasciare che gli omini di sughero salpassero senza di te, e a quel punto non ti restava altro che rimanere ferma a riva o correre lungo la sponga gridando parole di incoraggiamento, e pregare che ce la facessero. (p. 11)
Ma non è possibile metterli al riparo dalla vita. E qualche volta l’impatto è fortissimo. C’è un punto di rottura in questo romanzo ed è l’incidente che coinvolge Toby, il figlio minore, quell’essere speciale, stravagante e geniale. Un attimo, una disattenzione – una delle tante – e ogni cosa va in pezzi. Nel disegno di Eleanor di una famiglia perfetta, al riparo dal male del mondo, dalla sofferenza, dalla perdita, si insinuano nuove ombre e sentimenti con cui non è facile fare i conti. L’accusa, la rabbia, il peso delle responsabilità. Una crepa che si fa sempre più strada nel matrimonio tra Eleanor e Cam e che li allontana, definitivamente. Un tradimento imperdonabile e, ancora una volta, la scelta di preservare per quanto possibile i propri figli dal dolore: tacere, allora, non svelare le ragioni che hanno portato alla rottura dell’equilibrio, assumersi la colpa andandosene da quella casa dove sono stati felici. Tutto ciò che verrà dopo è il caos, il tentativo disperato di una madre che vede sgretolarsi la propria famiglia e tenta di salvare i pezzi, quegli omini di sughero in balia della corrente del fiume, perdendo di sempre più il controllo, la capacità di comprensione. E i dubbi che uno dopo l’altro vengono a galla, le domande su quanto in fondo conosciamo le persone che amiamo, i loro desideri, ciò che sono.

Identità è senza dubbio un altro dei centri nevralgici della narrazione, che si intreccia al discorso di non riconoscersi nel genere sessuale d’origine, alla riflessione sulla maternità come ruolo che fagocita tutto il resto, ai fantasmi del passato che definiscono ancora ciò che siamo nel presente. Sullo sfondo le vicende di un Paese, i mutamenti sociali, lo sviluppo tecnologico, la tragedia del Challenger, la piaga dell’HIV e infiniti altri pezzi e storie che compongono un microcosmo di individui spesso alla deriva, immersi nella propria solitudine quotidiana, celata dietro le apparenze. Tante storie e tante vite che affrontano tempeste da cui non sempre si esce incolumi, insieme. In questa sovrabbondanza, si diceva, si perde un po’ la rotta, qualcosa appare troppo raffazzonato e stereotipato, mentre la storia scivola verso un finale pacificatore che lascia qualche perplessità.
Eppure, dietro alcune incertezze, L’albero della nostra vita mi pare anche offra la possibilità di riflettere in modo non convenzionale su certe questioni, a partire appunto dalla maternità, l’idea di perdono, di pensare che cosa di noi mostriamo agli altri, quali maschere scegliamo di indossare e quanto sia difficile liberarsene. Ed è anche, essenzialmente, la storia di una donna: che mette da parte se stessa, che vive la maternità e la famiglia in modo totalizzante e per un breve, fugace momento ne è perfettamente felice. Ecco, forse è proprio questo L’albero della nostra vita, la storia di quella fragilità, di quel delicato meccanismo che è la vita, la famiglia. Un romanzo imperfetto, che qui e là apre squarci nel lettore. E che credo sia la storia ideale da discutere con altri lettori.