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"Molto prima che Billy Wilder fosse Billy Wilder, si comportava già come Billy Wilder". Ovvero: quando il regista sette volte premio Oscar era solo un eccellente "Inviato speciale"

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Inviato speciale. 
Cronache da Berlino e Vienna tra le due guerre
di Billy Wilder
a cura di Noah Isenberg
traduzione e cura dell’edizione italiana di Alberto Pezzotta
La nave di Teseo, 2022

pp. 270
€ 20,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

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Non c’è uomo o donna di successo che non racconti di avere fatto la sua bella (o brutta) gavetta. Una regola praticamente universale, questa, che in quanto tale contempla le sue fenomenali eccezioni ma che si consiglia tuttavia di rispettare specialmente nel settore dello spettacolo, dove le ascese vertiginose sono quasi sempre seguite da cadute altrettanto repentine. Senza contare che poi, quando la fama arriva davvero e se ne viene addirittura preceduti, sono proprio quegli esordi fatti di lavoretti collaterali, partecipazioni in extremis e comparsate anonime a diventare materiale letterario a cui attingere per rilasciare interviste su ogni media, scrivere o far scrivere libri di memorie, costruire la propria agiografia, “citarsi addosso a più non posso”. E se in fin dei conti è vero che ognuno ha la gavetta che si merita o che più gli somiglia, che dire di quella di Billy Wilder (1906-2002), autore e regista di capolavori della storia del cinema come Viale del tramonto (1950), Sabrina (1954), Quando la moglie è in vacanza (1955), A qualcuno piace caldo (1959) e Prima pagina (1974)? Il sette volte premio Oscar non si fece le ossa sui set, quanto, piuttosto, nelle redazioni dei giornali della Vecchia Europa e… sì, anche nei suoi caffè, nei suoi circoli, nei suoi luoghi di divertimento e sulle piste da ballo dei suoi hotel di lusso, nel ruolo di ballerino a pagamento. Un libro – Billy Wilder. Inviato speciale. Cronache da Berlino e Vienna tra le due guerre, appena tradotto e pubblicato in Italia da La nave di Teseo – ne fornisce tutte le prove. Ciak, si gira! Anzi: si scrive.


Nato in un paesino vicino a Cracovia il 22 giugno del 1906 da padre ristoratore, Samuel Wilder non aveva senz’altro respirato in famiglia l’atmosfera tipica dello show business e della polvere di stelle; ne era, però, irresistibilmente affascinato, e da sua madre – che lo chiamava Billie in omaggio a Buffalo Bill – aveva preso la passione per tutto ciò che era americano. A questa aggiungeva l’attrazione irresistibile per la cultura popolare e urbana, nonché una curiosità vivissima per le persone e le loro storie. Non potendo in nessun mondo corrispondere alle aspirazioni dei propri genitori, che avrebbero voluto per lui una rispettabile carriera da avvocato, pensò bene di darsi al giornalismo: una via di mezzo tra una vita di doveri e di piaceri, intendendo con questi le soddisfazioni che potevano derivare dall’interessarsi alle cose del mondo e soprattutto alle esistenze altrui. Proprio il fior fiore dell’attività da cronista, opinionista e recensore di Billie S. Wilder dal 1924 al 1933 è raccolto in questa nuova antologia arricchita da alcuni scatti d’epoca: uno spaccato della vita viennese e berlinese tra le due guerre mondiali, non c’è dubbio, ma anche una specie di diario dello stesso scrivente, di cui già si intuiscono i gusti, le predilezioni e i veri e propri “punti di vista” che ne caratterizzeranno anche la produzione cinematografica (tra gli scritti non manca il racconto della nascita di Uomini della domenica, il primo cortometraggio wilderiano risalente al 1929).


Dopo l’utile Prefazione di Noah Isenberg (Un reporter errante tra due città: la nascita di Billy Wilder), in cui vengono raccontate per esteso le vicissitudini che portarono il futuro regista di redazione in redazione tra Vienna e Berlino (e poi sulla rotta per gli Stati Uniti), il libro è strutturato in tre parti: 1) Extra! Extra! Reportage, paradossi, storie di vita vissuta; 2) Ritratti di persone normali e straordinarie; 3) L’arte della recensione breve (a cui fa seguito l’Indice dei film citati). Ciascuna sezione, comprendente gli articoli raggruppati in base a criteri tematici, è preceduta da un breve cappello introduttivo che riassume il comune denominatore di quanto si sta per leggere e mette l’accento sulle peculiarità del Wilder giornalista: nella prima tranche ne viene esaltata la predilezione per il cosiddetto feuilleton, nella seconda la spiccata e sincera curiosità nei confronti degli esseri umani in quanto tali, nella terza la capacità di formulare giudizi brevi e inequivocabili su film e spettacoli; un esercizio quest’ultimo, che evidentemente gli fu assai utile anche per fiutare l’aria e capire la direzione dei venti riguardo i suoi progetti autoriali, sebbene in fin dei conti sarebbe stata proprio la scrittura in sé, generalmente intesa come esercizio costante e continuo, a costituire la cifra distintiva di un cinema come il suo, fatto più di dialoghi brillanti che di montaggio, movimenti di macchina o altri effetti speciali.


Letto retrospettivamente, e dunque alla luce di quella che sarebbe poi stata la carriera di Wilder sotto i riflettori e dietro la cinepresa, ogni articolo somiglia a un seme destinato a germogliare da lì a qualche anno: in ciò che viene trascritto per dovere di cronaca, infatti, non si può fare a meno di riconoscere il brio dello sceneggiatore e lo sguardo dell’uomo di cinema, pronto a selezionare solo ciò che è più importante far vedere allo spettatore. E questo per i più vari scopi: per intrattenerlo, informarlo, divertirlo. Anche quando le sue energie andrebbero meglio spese fuori da una sala di proiezione; anche quando le notizie date sembrano quelle più inessenziali, strambe, grottesche; anche quando in realtà non c’è nulla da ridere o, al contrario, è proprio grazie alla risata che ci si salva o si finisce seppelliti senza troppi convenevoli. L’immersione nella vita culturale e mondana di due grandi città e soprattutto di una capitale come quella tedesca, ebbra di americanismo, fu per il giovane Billie un battesimo nell’acqua più frizzante che avrebbe mai potuto desiderare: e non c’è brano, anche quello dedicato al fatto o al personaggio o alla pellicola meno entusiasmante, in cui non si percepiscano le bollicine di un umorismo innato, necessario, vincente. E poco importa che si stia raccontando un’esperienza di viaggio, un concerto così bello che non fa smammare il pubblico dal teatro, l’incontro con l’attrice del momento, il colloquio con una strega contemporanea, l’intervista con il Principe di Galles o la visita alla signora più anziana di Berlino: restituito attraverso le parole di un reporter freelance con la sceneggiatura nel sangue, qualunque posto, evento o individuo diventa protagonista di un piccolo pezzo di bravura nato dall’urgenza di sopravvivere sfruttando la propria dote migliore.


Alla pari dei molti lungometraggi di Billy Wilder entrati nella storia del settima arte, Inviato speciale è un libro che incolla letteralmente allo schermo della pagina: lo si legge e, articolo dopo articolo, cronaca dopo cronaca, recensione dopo recensione, è impossibile non affezionarsi al “personaggio” Samuel Wilder immaginandolo alla stregua di uno dei protagonisti (ma anche in una delle comparse) delle pellicole che verranno (non si dimentichi che in Der Teufelsreporter, film del 1928 di Ernst Laemmle, farà una breve apparizione nel ruolo di un giornalista). In queste scritture, che sono testimonianza di esperienze realmente vissute durante una giovinezza in balia di una sorte bizzarra ma che già appaiono filtrate attraverso quella peculiarissima verve che ne farà uno sceneggiatore e regista di enorme successo, è come se l’autore esplicitasse tutte (o quasi tutte) le tematiche che gli saranno care in avvenire: come se ogni evento, insomma, fosse già materiale degno di una rielaborazione artistica, o comunque destinato a una trasposizione futura più o meno fedele. Quello pubblicato da La nave di Teseo è dunque un volume che farà la gioia dei cultori del cineasta, e che nella grande varietà di spunti e di stimoli restituisce le premesse biografiche e professionali di una stella hollywoodiana che avrebbe consegnato agli archivi uno dei finali più emblematici della condizione umana: quel “Nobody’s perfect!” che ci ricorda, di converso, la perfezione di ogni vita, anche di quella all’apparenza più sgangherata, incoerente e sconclusionata; di tutte quelle vite, insomma, che vale proprio la pena raccontare nei film.


Cecilia Mariani