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E se gli schiavi fossero stati caucasici, anzi "caucasidi"? "Radici bionde" di Bernardine Evaristo, la distopia che riscrive la storia e la lingua

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Radici bionde
di Bernardine Evaristo
Big SUR, novembre 2021

pp. 314
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Che cosa sarebbe successo, se a schiavizzare milioni di persone fossero stati i neri, anzi di nehri? E se gli schiavi fossero stati tutti caucasici (detti "bianki")? Parte da questa domanda provocatoria e da un ribaltamento netto il romanzo che ha portato al successo Bernardine Evaristo, Radici bionde, uscito per la prima volta nel 2008 e adesso disponibile per Big SUR, con la traduzione di Marina Testa. 

La prima parte della storia ha per protagonista Doris, una ragazza occidentale che è stata rapita e venduta come schiava nel fiore dell'adolescenza; nei suoi ricordi restano il campo di cavoli dove lavorava suo  padre, i sorrisi e i battibecchi con le sue sorelle, i compiti quotidiani dati da mamma. Scopriamo questi e altri ricordi del suo passato in flashback che di tanto in tanto interrompono il filo della narrazione, perché Doris è una schiava in fuga: ebbene sì, nelle primissime pagine scopriamo che, dopo anni di onorato servizio a casa del suo padrone, Bwana, ha deciso di scappare, costi quel che costi. Sa bene che le punizioni, se dovessero trovarla, sarebbero terribili, ma Doris ha già rinunciato a tanto - persino al suo nome, ai tre figli e all'amore - e la libertà ha un profumo inebriante. È anche vero che da Bwana Doris lavora in un ufficio per la contabilità; per quanto possa essere stancante e non ci siano giorni, né ore libere, non ha niente a che fare con gli schiavi che lavorano nelle piantagioni e nei campi. La libertà e la speranza di tornare in patria sono ormai a un passo... Tanto più che ormai non la trattiene lì neanche il suo amore per Frank, l'unico uomo cortese che le abbia rapito il cuore. 

Se da un lato la schiavitù ci viene raccontata da Doris, attraverso i suoi occhi di caucasica che vede le donne e gli uomini neri di Nuova Ambossa come un modello irraggiungibile, dall'altro troviamo come narratore uno degli schiavisti, capo Kanga Konata Katamba, che scrive una sorta resoconto (definito "modesto e veritiero") o memoriale chiamato La Fiamma. Dal tono pomposo e magniloquente all'allocutivo "Caro lettore", fino alle scelte linguistiche (immagino ben difficili da tradurre mantenendo l'intentio operis), Capo Katamba ricostruisce la sua storia, dall'infanzia fino all'arrivo del "successo" come mercante di schiavi "caucasidi", ritenuti simili alle bestie, perché inferiori per tutta una serie di ragioni pseudoscientifiche. Scopriamo che anche lui è sulle tracce di Doris, che lui chiama Omorenomwara: chi riuscirà a vincere? Doris riuscirà a scappare o verrà catturata? 

Lungo è ancora il percorso che ci aspetta, perché Bernardine Evaristo ha preparato molti nuovi colpi di scena, incontri e scontri, punizioni e momenti di estrema generosità e sorellanza (molto bella in tal senso la figura della schiava Ye Memé, modello di fortitudine e di accudimento). La stessa Doris non è solo vittima della situazione, ma negli anni ha imparato a essere scaltra, a difendersi, anche se questo richiede violenza e gesti estremi. Viene spesso da chiedersi nel corso del libro se, al di là della libertà, l'autrice abbia in serbo anche possibilità di riscatto etico. 

Se la trama è senza dubbio avvincente, la critica sociale di Bernardine Evaristo colpisce non solo il razzismo, ma anche certi vizi del capitalismo: pubblicità e prodotti della nostra contemporaneità entrano nel romanzo, con slogan e nomi storpiati, ma non abbastanza da non essere riconoscibili. La società dei consumi è presente anche là; semplicemente, i bisogni sono diversi: le mode, ad esempio, seguono tutte quelle di Nuova Ambossa e gli occidentali cercano disperatamente di assumere fattezze, acconciature e usanze tipiche degli ambossani. Tali scelte hanno riplasmato la lingua, rendendola duttile e feconda di nuove possibilità, che la traduttrice ha reso con scelte interessanti, così come la lettrice dell'audiolibro, Vanessa Scalera. Il risultato è un libro stratificato, che si può valorizzare per molteplici scelte; personalmente ho ammirato molto il violento sarcasmo usato dall'autrice per mostrare il paradosso di tanti pregiudizi razziali e denunciare l'assurdità del commercio triangolare, così come ho apprezzato la scelta di rifare la lingua, giocando con la distopia. 

GMGhioni