in

Il sangue e l'ambiente, al centro di The Passenger California: il ritratto privo di retorica di uno stato all'avaguardia e contraddittorio

- -


THE PASSENGER - California 
Iperborea, febbraio 2022

pp. 192
€ 19,50 (cartaceo)


Per la prima volta The Passenger – la serie di inchieste, reportage e saggi narrativi di Iperborea dedicati a un luogo – arriva negli Stati Uniti, e sceglie la California: la frontiera, il West, quel Golden state su cui si fonda buona parte dell’immaginario collettivo relativo al Nord America. E nello stile di questa pubblicazione, ciò che restituisce al lettore è uno sguardo puntuale, privo di retorica, che ne mette in luce tutte le contraddizioni e i punti di forza, mediante contributi letterari e fotografici ancora una volta notevoli. Come per le pubblicazioni che l’hanno preceduto, è chiaro che l’argomento non possa essere esaustivo e che si scelga di volta in volta di raccontare il luogo selezionando alcuni punti di vista ed aspetti che lo caratterizzano, con particolare attenzione tanto alla ricostruzione storica di talune questioni quanto e soprattutto alle più attuali urgenze, dando spazio a sguardi nuovi, marginali. Raccontare la California contemporanea, quindi, è prima di tutto abbatterne gli stereotipi, nel tentativo di mostrare la realtà – che non significa sempre il lato peggiore, ma di certo quello più onesto – e i mutamenti in atto, consapevoli che sarà una fotografia di un dato momento storico suscettibile nel tempo a cambiamenti. 

Nella varietà dei contenuti qui presentati, la polifonia di voci e la lente con cui la realtà è osservata, ci sono due elementi che paiono attraversare come un fil rouge tutte queste narrazioni, in modo più esplicito o meno, portando a differenti considerazioni: il sangue e l’ambiente. La storia della California, più ancora che per il resto del Paese, è una storia fondata sulla violenza, tanto per l’esproprio delle terre ai nativi che per l’aggressività sconsiderata con cui è stato modificato il territorio. Un passato che è molto più facile ignorare che farci i conti, ma che anche alla luce delle tragedie recenti e del cambiamento climatico, non può più essere tralasciato. «Il futuro sembra essere roseo nella terra dorata, perché nessuno si ricorda del passato» diceva Joan Didion in Verso Betlemme, (citato anche nell’articolo “Ritorno alla madre terra”, di Lauren Markham, p. 45) ma con quel passato è quantomai necessario fare i conti, perché le conseguenze sono notevoli e coinvolgono la società a più livelli.
Più la popolazione cresceva, più i coloni avevano bisogno di terra, acqua e altre risorse naturali e, come da altre parti, vedevano i nativi californiani come un ostacolo. Li attaccarono, li violentarono e li uccisero, sottraendo loro la terra. I nativi californiani furono allontanati con la forza dal territorio in cui le loro comunità avevano vissuto per secoli, e poi furono ulteriormente spostati. (Ritorno alla madre terra, Lauren Markham, traduzione di Ada Arduini, p. 47)
È una riflessione morale, sulla brutalità con cui i nativi sono stati espropriati delle loro terre, violentati e uccisi, confinati nelle riserve e isolati; è una riflessione culturale, per l’appropriazione o la cancellazione di un’identità e una cultura; è, ancora, una riflessione sociale ed economica, perché la scelleratezza con cui è stata trattata la terra ha portato sì alla crescita economica e allo sviluppo ma anche a fenomeni sempre più problematici di gentrificazione e devastazioni. La storia della conquista dell’Ovest e le sue trasformazioni è, quindi, una storia «di colpa e violenza» e «la questione è se scegliere di ignorare i peccati dei nostri antenati o riconoscerli e fare qualcosa al riguardo», come sottolinea la giornalista Lauren Markham nel suo saggio “Ritorno alla madre terra”. Prima di ogni cosa, raccontare: riportare alla luce le verità del passato libere dalle narrazioni nazionali o dalle loro mancanze, nel tentativo di ricucire uno strappo identitario:
Quando le radici intrecciate che formano la base delle nostre storie sono nascoste o negate, al loro posto si forma un vuoto – che si tratti della storia della nostra famiglia, dei luoghi che amiamo o della nazione che chiamiamo casa – , un vuoto che più viene ignorato e più si amplia, che si tramanda di generazione in generazione fino a quando non viene svelato. (Un luogo americano, Francisco Cantù, traduzione di Fabrizio Coppola, p. 105)
Tutto questo significa anche rivedere come sono state narrate le cose, un discorso che si lega alla cancel culture, alla questione razziale e si stanno muovendo alcuni passi in direzione della “rematriation” attraverso cui rimettere nelle mani dei nativi ettari di territorio che erano stati loro sottratti o, ancora, risarcire gli eredi di vittime della schiavitù. Sono questioni estremamente complesse di cui nei saggi qui riuniti non si cerca di dare soluzioni semplicistiche ma sulle quali si riflette, con cognizione di causa e rispetto, evidenziando in entrambe le direzioni criticità e conseguenze. Questioni scomode, forse, ma sulle quali è fondamentale ragionare.

Riflettere sulle violenze e le espropriazioni del passato è, di conseguenza, ripensare al mito fondativo della California, a tante ipocrisie e stereotipi perpetrati negli anni; la stessa mitologia dei parchi naturali, luoghi “incontaminati” e quasi sacri, orgoglio nazionale, si fonda su quel passato violento.
[…] storie elaborate dallo stato che, per quanto evocative e romantiche, semplificavano e oscuravano la violenza inscritta molto tempo fa nel nostro paesaggio americano. La natura incontaminata che io e mia madre reputiamo così preziosa, i luoghi che hanno nutrito la nostra anima e ci hanno fornito un senso, non erano solo luoghi di salvaguardia, ma, come avrei imparato in seguito, anche di cancellazione. (Un luogo americano, Francisco Cantù, traduzione di Fabrizio Coppola, p. 101)
Il territorio violato, l’arroganza con cui è stato sottomesso ai bisogni dell’uomo, hanno portato da una parte a uno sviluppo abbagliante ma anche, come tristemente noto, a gravi scompensi naturali (un esempio su tutti i terribili incendi degli ultimi anni, per i quali segnalo il bellissimo reportage "L'incendio del secolo?" di Max Arax) e sociali, ancora una volta ben evidenziati in questi saggi. 
Il problema della gentrificazione è un fenomeno quanto mai urgente su cui di recente anche molti scrittori si sono interrogati – penso, per esempio, a Lot di Bryan Washington, il recente Ruthie Fear di Maxim Loskutoff, La casa vicino alle nuvole di Nickolas Butler, Sabrina&Corina di Kali Fajardo Abstine – e che sta assumendo sempre più contorni pericolosi. 
Illuminante su questo argomento il saggio di apertura a firma di Francesco Costa, giornalista, scrittore e podcaster, che riflette sul paradosso di uno stato ricco e all’avanguardia, con i tassi di disoccupazione ai minimi storici e un’economia in crescita che, in conseguenza al costo della vita – e della casa prima di tutto – sempre più insostenibile sta perdendo un numero incredibile di abitanti, a favore degli stati limitrofi. È l’esempio perfetto del sogno californiano andato in frantumi, in cui il fenomeno della gentrificazione «sta avvenendo su vastissima scala», con conseguenze gravi. E non va del tutto meglio per gli stati che richiamano un numero sempre più crescente di californiani, che si trovano a dover fare i conti con le profonde mutazioni che questo comporta:
I californiani, infatti, arrivano e californizzano: votano per politici progressisti, organizzano iniziative culturali, si fanno sentire nei distretti scolastici e nell’associazionismo locale. Creando una nuova domanda, e arrivando a portare l’offerta, cambiano i posti in cui arrivano. (Decalifornication, Francesco Costa, p. 25)
È la casa, l’impossibilità di sostenerne il costo, il problema più urgente di tale questione, il punto da cui scaturisce tutto il resto. Con la conseguenza che sono sempre di più le famiglie costrette a vivere per strada, nonostante abbiano una fonte di reddito e una rete di famigliari e amici. Laddove i dati e le considerazioni oggettive potevano rendere il peso della situazione da un punto di vista analitico, di fronte al reportage “Tre figli. Due stipendi. Un furgone. Nessuna casa”, di Brian Goldstone, è difficile rimanere indifferenti di fronte a una storia come troppe altre di disagio, umiliazione, difficoltà e l’impatto anche psicologico di questo tipo di vita.
C’erano molti fattori che scoraggiavano le famiglie dal chiedere aiuto – la paura di essere denunciati ai servizi sociali o, in un posto come Salinas, il fatto che alcuni genitori fossero senza permesso – ma quello principale era forse l’umiliazione del non avere una casa. (Tre figli, due stipendi, un furgone, nessuna casa, Brian Goldstone, traduzione di Silvia Rota Sperti, p. 37)
Una società complessa, quindi, fatta di contraddizioni, in cui lo stesso mito hollywoodiano ci ricorda Marta Ciccolari (la mitica McMusa) nel suo saggio “Hollywood racconta Hollywood” non è altro in fondo che una falsa promessa, fondata su discriminazione, ipocrisia – vedi la fortunata stagione dei premi agli afroamericani. 

Complessa e problematica, certo, ma non per questo priva di fascino e punti di forza, forse in questa mia riflessione messi in ombra dalle considerazioni sulle sue criticità ma non per questo ignorati nei testi contenuti in The Passenger. Chiudo con la sensazione che ci sarebbe ancora moltissimo su cui riflettere e come, anche in questo caso, mi pare il progetto The Passenger sia davvero interessante: al di là del luogo scelto di volta in volta, ciò che resta è la capacità di restituirne in ogni caso la complessità, in un ritratto realistico, mutevole e stratificato della società, della sua storia e delle persone che lo abitano. E, infine, dell’importanza che tali luoghi esercitano anche fuori dai confini nazionali, in un dialogo con il resto del mondo.