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Nel ventre della terra, dove è possibile la rivoluzione: "Boccadorso" di Liz Hyder

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Boccadorso
di Liz Hyder
Giunti, 2022

pp. 251 
€ 14,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
 
Titolo originale: Bearmouth
Traduzione di Marco Astolfi
 
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Boccadorso è una miniera, che sprofonda nel ventre della terra. Gli uomini e i ragazzi che la abitano vivono e lavorano nel buio, senza poter mai risalire alla superficie. Esiste una rigida gerarchia, a Boccadorso. Un sistema preciso di premi e punizioni. Tutto ha un prezzo a Boccadorso: fare il bagno nel lago sotterraneo, spedire lettere in superficie, persino i necessari strumenti di lavoro.
È così che si controllano le persone. Li fai desiderare qualcosa, lielo fai pagare, ma sei tu a decidere quanto possono averne, così quelli ne voliono di più. Come tutto il resto qua giù, si tratta di potete. (p. 193)
È spietata l’esistenza a Boccadorso. D’altronde è il Signore che lo vuole: gli uomini devono espiare i peccati, i tradimenti, dei loro antenati. Solo quando arriverà un segno dall’alto, la punizione si potrà considerare finita, e tutti saranno di nuovo liberi.
In uno degli strati più profondi della miniera vive Newt, così soprannominato perché simile a un tritone, minuto e furbo, dal pensiero vivace. Di lui si occupa Thomas, che “lo impara a scrivere” e che lo protegge nella sua diversità, radicata e sostanziale, rispetto ai compagni della miniera.
Mentre la natura di questa diversità emergerà progressivamente nel corso della narrazione, ciò che è subito evidente è il processo di apprendimento, non solo “scolastico”, ma umano, della voce narrante. Sì, perché Newt è inizialmente ingenuo, ignaro delle cose del mondo. La sua scrittura è rudimentale, sgrammaticata, e nonostante gli insegnamenti la migliorino, l’ortografia resterà sempre vacillante. Eppure il ragazzino è sensibile, attento alle dinamiche che lo circondano, e resterà profondamente turbato dall’arrivo di Devlin, bellissimo, che diffonde “pensieri retici” e sussurra di cambiamenti possibili. Basta una persona sola per fare una rivoluzione, suggerisce il giovane che arriva dal mondo esterno e porta con sé memoria vivida dell’aria fresca e di diritti che nella miniera sono disattesi o apertamente violati.
Un’idea, questa, che fatica ad attecchire in mezzo a lavoratori stremati, malnutriti, sottomessi all’abitudine e profondamente convinti che un piano divino li mantenga in catene. È molto pericoloso, tra le gallerie, essere etichettati come “persone scomode”, perché chi comanda può rendere la vita molto difficile, e capita anche che alcuni spariscano in circostanze misteriose, o vengano coinvolti in brutti “incidenti”.
Risulta molto interessante, a una metalettura, l’esperimento che l’autrice compie sul linguaggio. Si nota infatti che, man mano che in Newt si complica la lingua e si perfeziona la scrittura, grazie alle precise indicazioni di Thomas, si approfondisce anche il pensiero: il suo ragionare si fa più articolato, più sfaccettato. Sono le lezioni che gli aprono gli occhi sulla realtà che lo circonda. È in virtù di questo che inizia a farsi domande, prima sepolte sotto il rigore delle regole e anni di pratiche routinarie. Inizia a chiedersi perché, pur rendendosi conto che si tratta di una domanda rischiosa.
Questa roba retica che mi gira pe la testa. Le cose sono come sono, mi ripeto. Le cose sono come sono. È così e basta. Queste sono le regole. Ma il ciervello mi gioca brutti scherzi. Perché quando credo che ho messo in riga i miei pensieri sento di nuovo quella parola. Perché. Perché. (p. 51)
Quando poi qualcosa di terribile accade al piccolo Tobe, per lui quasi un fratello, Newt capisce che anche le parole non bastano più. Non bastano le preghiere, una fede che sembra sempre più strumento dello sfruttamento umano che espressione del divino. Non bastano le richieste formali per maggiori garanzie, ignorate dal padrone e dai suoi sottoposti, interessati solo al guadagno e pronti a spremere fino all’ultima risorsa tanto le vene di carbone di Boccadorso quanto i suoi dipendenti.
Ho capito anche naltra cosa. Che comunque anche prima vivevo ne la paura. Diamo pe scontato che questa è la volontà del Sinniore, tutti questi morti, ma non è giusto, vero? Non è giusto vivere onni giorno ne la paura. (p. 146)
Quanto la parola non basta, serve l’azione. Un’azione che destabilizzi le coscienze, che faccia vacillare (o crollare del tutto) l’intero sistema, che distrugga dall’interno Boccadorso e ciò che rappresenta. E se il Signore non manda il segnale tanto atteso, forse può essere l’uomo a crearsi il proprio segno, a innescare la scintilla della propria liberazione.
Boccadorso descrive un ambiente che disumanizza l’individuo, che lo fa soggiacere a interessi economici e che rappresenta una società in cui il più forte dispone di arbitrio assoluto sul più debole, totalmente asservito alla logica dominante. Eppure il romanzo non è pessimista: nel buio della miniera splendono molte piccole luci. Le fiammelle delle candele si fanno preludio a quelle stelle che i protagonisti aspirano a rivedere, in una quasi dantesca, faticosa fuoriuscita attraverso un budello che corre negli abissi. Più luminosa di tutto è però la speranza che anima Newt, la forza di volontà che lo spinge, insieme a Devlin, e nonostante il dolore delle molte perdite, a perseguire il proprio obiettivo di riemersione dal profondo, e di riappropriazione di sé.
 
  
Carolina Pernigo