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L’arte queer del fallire: la ricerca dell’identità di Fatima Daas in “La più piccola”

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La più piccola
di Fatima Daas
Fandango libri, ottobre 2021

Traduzione di Giorgia Tolfo

pp. 192
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Il ticchettio meccanico di un orologio. Il beat cadenzato del rap di strada. Lo scrosciare scostante della pioggia sui vetri. Il rombare del motore dell’autobus. Il rumore dei passi in una strada affollata. Il canto del muezzin che invita alla preghiera. Ritmi di sottofondo che scandiscono il tempo narrativo insieme alla formula magica di invocazione del proprio nome che appare all’inizio di ogni capitolo di La più piccola (Fandango): «Mi chiamo Fatima». Fatima, Fatima Daas, la mazoziya, la più piccola di una famiglia musulmana di origine algerina che vive nella periferia parigina di Clichy-sous-Bois. Fatima Daas, allo stesso tempo autrice, protagonista e alter ego di quella stessa Fatima che, attraverso la ripetizione del suo nome, ricostruisce pezzo dopo pezzo la sua biografia.

Quella di Fatima Daas in La più piccola è una ricerca che sconfina in una necessità innata (ed estremamente attuale) dell’essere umano: capire chi siamo. Di famiglia algerina ma nata in Francia, musulmana ma inserita in un contesto occidentale ostile, donna ma che non ama gli uomini, fedele ma peccatrice, Fatima appartiene a tutto e a nessun luogo allo stesso tempo. Partendo da un contesto famigliare asfissiante, in cui il padre Ahmad incarna le ingiustizie e le violenze del patriarcato e la madre Karmar per esistere deve crearsi uno regno proprio, la cucina, lontano da ogni male, Fatima viene al mondo deludendo le aspettative di famiglia: doveva nascere maschio. Inizia così la storia di Fatima, giovane ragazza di periferia che raccoglie tra queste pagine il susseguirsi di ansie, dispiaceri, sofferenze, speranze, sogni e confessioni che, tassello dopo tassello, tentano di decifrare quel crocevia culturale e identitario che Fatima stessa rappresenta.

Fatima è troppo francese per essere algerina e troppo algerina per essere francese; Fatima è un essere periferico, che si muove a Parigi sulla RER e in autobus tra il quartiere latino e la banlieue di Clichy-sous-Bois, alla ricerca di un posto in cui sentirsi a casa; Fatima è lesbica ma si rende conto di essere anche “omofoba”; Fatima è musulmana ma allo stesso tempo “peccatrice”; Fatima scrive, ma nessuno ascolta le sue parole; Fatima ha bisogno di qualcuno nella sua vita, ma allontana tutti; Fatima ha paura, ma si mostra forte; Fatima soffre di asma cronico, ma vuole respirare a pieni polmoni la sua vita; Fatima si infila negli interstizi multiculturali della nostra società, decostruendo da dentro le sue contraddizioni.

Muovendosi tra centro e suburbio, tra la Francia e l’Algeria, tra la cucina di sua madre e i locali queer di Parigi, tra la scuola e lo studio dell’imam della moschea, Fatima scopre la sua identità per difetto, per negazione, per sconfitta. Una scoperta tipica, secondo quanto scrive Jack Halberstam in The Queer Art of Failure, dell’identità queer, identità che si definisce anche attraverso la sua storia di repressione, sconfitta, emarginazione: fallire, secondo Halberstam è ciò che i soggetti queer sanno fare meglio, smantellando in questo modo le logiche del successo, della produzione e della riproduttività, mostrando che esistono identità e modi diversi di stare nel mondo e che fuoriescono da quelli schematizzati e imposti dal regime eterosessuale dei corpi. È nell’arte di saper cadere che l’identità queer afferma la propria forza di rimettersi in piedi con dignità. Con La più piccola, Fatima Daas smantella il concetto di identità fissa, plastica e plasmata, mostrandoci attraverso la sua confessione tutto ciò che lei può, allo stesso tempo, essere e non essere: Fatima, Fatima Daas, un personaggio simbolico dell’Islam, un’abitante di Clichy che attraversa la periferia, una piccola cammella svezzata, la mazoziya, l’ultima, la più piccola, francese, algerina, francese e algerina, una bugiarda, una peccatrice, un nome che non può essere sporcato, «una ragazza di periferia che osserva i comportamenti parigini» (p. 31), un'asmatica, un’adolescente disadattata, musulmana, poliamorosa, donna che ama le donne, una turista, una di passaggio, una che resta.

Fatima Daas è tutto questo, e anche di più. Fallendo nell’intento di definirsi, Fatima mostra al lettore come in realtà definire un’identità fluida e indefinibile significhi di fatto etichettarla, stroncarla, ridurla, ucciderla. Fallendo, Fatima ritrova se stessa. Attraverso un sguardo decoloniale più che necessario oggi per comprendere la grande complessità della società europea post-coloniale e degli spazi interstiziali di contatto con l’Altro (geografico, culturale, politico, sessuale), La più piccola insegna una certezza fondamentale: nel caos multiforme che la circonda, Fatima apparterrà sempre a se stessa e al suo unico modo di (non) definirsi, con tutte le mille sfumature che la ripetizione anaforica del proprio io può scoprire giorno per giorno, semplicemente vivendo.

Nicola Biasio