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Un'altra donna di fronte all'abisso: "Quello che non sai" di Susy Galluzzo

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Quello che non sai
di Susy Galluzzo
Fazi, 2021

pp. 268
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,90 (ebook)

 


 

Ho una figlia. [...] Si chiama Ilaria, ha tredici anni, compiuti a marzo. È la mia vita. E anche la mia morte. (p. 16)
È terribile il presupposto da cui parte il romanzo d’esordio di Susy Galluzzo, Quello che non sai. Il testo esplora una relazione disfunzionale che non è quella solitamente più esplorata tra una coppia di amanti, ma quella tra una madre e una figlia: un rapporto di dipendenza affettiva che non fa crescere, che non libera, anzi, finisce per soffocare, e che si sviluppa all’ombra di un altro rapporto, apparentemente idilliaco, quello della narratrice con la sua stessa madre, che è morta quindici anni prima e a cui ora torna a rivolgersi. Sì, perché Michela, detta Ella, è stata figlia, ma non riesce a essere pienamente genitore. Vizia la giovane Ilaria, per la quale ha sacrificato la sua carriera, ma la vive al contempo con insofferenza, per i suoi capricci, le sue manie, la sua fragilità. Prigioniera di un matrimonio che le va stretto e in cui si sente giudicata e non compresa, torna continuamente alla casa materna, conservata come un sacrario e immutata nel tempo. Qui si confida, cerca segnali di una presenza, continua a fare paragoni che la trovano mancante e inadeguata rispetto a chi non c’è più. È come, e i motivi si scoprono solo nel corso delle pagine, se ci fosse un conto in sospeso con la defunta, un motivo celato per cui è necessario riallacciare i contatti attraverso le fibre sfilacciate del tempo trascorso.
L’episodio che muove la scrittura è semplice eppure tremendo nelle sue implicazioni: Ilaria ha rischiato di essere investita e Ella ha assistito alla scena senza dire una parola, benché fosse consapevole di quel che stava succedendo. Per quanto provi a cercare giustificazioni, o ad autoassolversi, lei sa bene che non esistono scuse valide. E anche Ilaria sembra saperlo, visto che da quel momento non pare più la stessa ragazzina e la scruta con occhi che contengono un’ombra nuova.
Le pagine del diario, in cui Ella si sfoga scrivendo a un tu che coincide con la madre perduta, la vedono porsi inizialmente in veste di vittima. Non ci vuole molto però perché si inizi a capire che le cose non stanno proprio così: a intravedere quanto profonde sono le crepe che si aprono dietro la facciata di una vita perfetta, quale trauma si nasconde nel passato della protagonista (quale “idea scellerata”, quale “scempio”, p. 70); la colpa che lei non si può perdonare: di essere sempre, nei momenti fondamentali della sua vita, rimasta a guardare senza intervenire.
Susy Galluzzo riesce a creare una forte tensione narrativa, poiché il lettore percepisce l’inattendibilità della narratrice, ma non riesce a identificare la portata delle sue bugie, raccontate a se stessa, prima che a chi legge. Pare infatti sempre più evidente che a lei faccia piacere che la figlia sia fragile e insicura, che dipenda in tutto e per tutto dalle sue attenzioni, per dare in questo modo un senso al vuoto che si porta dentro. Questo sembra spiegare anche il rapporto conflittuale con la psicologa, una donna solare che si pone in antitesi con la sua angoscia e rispetto alla quale lei prova un rancore e una gelosia crescenti. Rebecca Castelli riesce a creare con Ilaria una relazione liberante, che aiuta la ragazzina a crescere, mentre la madre oppressiva e colpevolizzante per troppo affetto la tiene bloccata in uno stadio infantile. Il procedere del diario di Michela colpisce perché il linguaggio utilizzato afferisce sempre più spesso al campo semantico della guerra e del conflitto (la vendetta, l’alleanza, il nemico, il bersaglio, le armi...).
Mentre la protagonista si sente sempre più isolata in casa propria e inizia a fuggirne più spesso, guardando con ostilità alla coalizione che si sta creando tra la figlia, il marito e la psicoterapeuta, il lettore si chiede quanti e quali siano i piani del reale, dove stia la verità. Le domande emergono dal testo, inespresse ma molto vivide: qual è lo spazio in cui deve muoversi una madre? Quali limiti non devono mai essere superati? Quando una relazione è sana e quando diventa invece vampirismo, nell’una o nell’altra direzione?
Quando Michela, sempre più fuori di sé (e sempre più convinta che siano gli altri a esserlo) constata che “nessuno conosce Ilaria come la conosco io” (p. 147), non si può fare a meno di chiedersi quale Ilaria conosca sua madre. E se questo tentativo di controllo assoluto non sia una delle cause del malessere della figlia, piuttosto che un effetto.
A questo primo e fondante piano di interrogativi, che restano insoluti e tendono ad accumularsi, Susy Galluzzo riesce ad affiancarne un altro, non meno importante: quello relativo alla realizzazione di Ella in quanto donna. Chirurgo affermato, ridotta a involucro vuoto dopo una scelta tragica e avventata, relegata a un lavoro poco gratificante e al suo ruolo di moglie, infelice e tradita, e di madre, Ella inizia a ricercare uno spazio per sé solo nel momento della frattura, quello in cui tutti gli equilibri raggiunti vengono rimessi in discussione. È proprio quando le due sfere, quella della madre e quella della donna, da poco riscoperta, entrano in collisione e iniziano a stridere l’una contro l’altra che il controllo di Michela su se stessa e sui propri pensieri si fa più labile: 
Mia figlia ha detto delle cose orribili stasera su di me, Mamma. Mi ha denigrato come donna, mi ha umiliata. [...] Mi ha dipinto come una mentecatta, che attira la pietà della gente, priva di ogni femminilità. L’ho sentita così estranea a me, stasera, come se non avessimo sangue e carne da condividere. Era solo una donnetta che stava cercando in tutti i modi di ferirmi, di farmi del male, con i modi più meschini. [...] Ho avvertito un distacco netto tra di noi, come se avessi espulso da dentro di me ogni cellula, atomo o minima parte che mi lega a lei. E insieme a ciò ogni minimo afflato, legame, attaccamento che ci teneva unite. (p. 163)
La violenza di questi pensieri, frutto di un’emotività che dilaga, colpisce allo stomaco. L’operazione tentata dall’autrice è coraggiosa perché ha creato una voce narrante per cui è inizialmente difficile provare empatia. Per quante attenuanti le si possano concedere, la sua propensione a colpevolizzare sottilmente la figlia per il suo stesso esistere risulta inaccettabile, disturbante, per tutta la prima parte del romanzo. Nella seconda invece qualcosa cambia, perché Michela inizia a venire a patti con se stessa, a riconoscere la propria duplice natura (“non sapeva della doppia provenienza delle mie lacrime, della mia doppia identità di vittima e carnefice”, p. 191). Per uscire dal baratro, è necessario sprofondare, toccare la miseria della propria debolezza, disperare per un attimo di fronte alla propria quotidianità in frantumi. Le parole di Galluzzo sono lame che recidono, sassate che arrivano a segno. Sono le parole con cui Michela dice la propria ferita, la propria meschinità, il proprio dolore; la sconfitta, che è totale, annichilente, e che affonda le radici all’inizio della storia, davanti a quella Juke che arriva lanciata su Ilaria, o forse a qualcosa che è successo il giorno prima, o forse invece già da molti anni.
Susy Galluzzo sceglie di non fermarsi a quest’operazione di scavo e di ricostruzione, ma di dire anche il dopo: quel che c’è dopo l’abisso, quella seconda occasione piena di nuova vita, ma in cui non tutto è facile e ci sono tante cose da incastrare perché funzionino; in cui ci sono tanti ritorni, tanti punti scivolosi. In cui bisogna inseguire i propri mostri, per vederli scomparire.
Quello che non sai è un romanzo sugli strappi dell’esistenza, sui grumi oscuri che ci portiamo dentro, su quelle relazioni che ci svuotano e ci impediscono di essere noi stessi, anche quando vorremmo e dovremmo a ogni costo farle andare bene. Un romanzo in cui una donna si mette a nudo, anche se questa nudità è quasi oscena e ci obbliga a tratti a distogliere lo sguardo per riprendere fiato. Dall’Elena Ferrante de I giorni dell’abbandono (leggi qui l’invito alla lettura) a Silvia Ranfagni con Corpo a Corpo (qui la recensione), prosegue un elenco di testi che ci sono necessari proprio perché scomodi, perché esplorano un universo femminile complesso e doloroso senza bisogno di addolcirne le asperità, le pulsioni inconfessabili, le cadute rovinose. E perché, dopo averlo fatto, ci mostrano anche le vie di una risalita possibile.
  
 
Carolina Pernigo