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#IlSalotto – Un felicissimo incontro di grandi professionalità: intervista a Anna Mioni, traduttrice, e Federica Aceto, revisora, sul lavoro che si cela dietro a "Le conseguenze" di Caoilinn Hughes

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Per chi si appassiona di traduzione letteraria, è sempre ironico notare come, nell’immaginario comune, la traduzione sia vista come un processo piuttosto solitario. Il traduttore viene figurato un po’ come un eremita, chino sulla scrivania di casa sua, alle prese con i suoi incartamenti e i suoi dizionari, in una specie di lotta epico-titanica contro il testo. Eppure, anche grazie al lavoro illuminato di alcune case editrici che finalmente stanno lasciando che il traduttore esca dall’invisibilità che per anni ha segnato questo ruolo, sempre più il mestiere del traduttore sta perdendo quell’aria nebulosa e un po’ mistica, svelandosi come un processo frutto di competenze ed esperienza personali, ma che trova sempre stimolo nel confronto e nella collaborazione con altri ruoli e altre figure dell’editoria. E nel caso di Le conseguenze di Caoilinn Hughes, l’opera eccellente che possiamo leggere in italiano non sarebbe la stessa senza il lavoro delle due professioniste che si sono incontrate tra le pagine di questo libro: Anna Mioni, la traduttrice, e Federica Aceto, la revisora. Le abbiamo invitate entrambe a parlarci di traduzione, di revisione, del rapporto con gli autori e con le terre di origine delle opere, per riconfermarci ancora una volta che in ogni lavoro di traduzione entrano non solo parole e frasi, ma mondi interi.



Intervista a Anna Mioni, traduttrice del libro:

Le conseguenze è incentrato sulle vicende di una famiglia di Roscommon, cittadina dell’entroterra irlandese, i cui abitanti a detta dei personaggi del romanzo parlano un inglese diverso da quello di Dublino, a sua volta ricco di particolarità. E infatti la traduzione riesce a rispecchiare con naturalezza la forte colloquialità dell’originale, senza però mai sfociare nel regionalismo o nell’abbassamento eccessivo del registro. Quali sono state le maggiori sfide che hai incontrato nel confrontarti con un linguaggio tanto specifico, dal punto di vista spaziale?
Anna Mioni

AM: Direi soprattutto quella di distinguere le sfumature locali. Oltre a un mese passato in una residenza per traduttori, in Irlanda ero stata solo per brevi viaggi; e la full immersion in letture irlandesi fatta in passato (soprattutto Beckett, Joyce, Flann O’Brien, ma non solo) e nella musica rock e folk non bastavano a garantirmi la sicurezza assoluta. Nonostante abbia lavorato con vari dizionari di Hiberno-English sia online che in volume, alcune accezioni erano rintracciabili solo in pubblicazioni vive e correnti, come l’Irish Times o qualche forum online. Per questo motivo ho insistito con l’editore perché scegliesse un revisore che avesse anche forti competenze nell’inglese d’Irlanda: Federica Aceto, che ha vissuto e studiato a lungo a Dublino, durante la revisione mi ha aiutata a sciogliere dubbi su varianti, o a capire meglio sfumature di uso quotidiano; e in un paio di casi abbiamo potuto chiedere chiarimenti sulle parlate locali a suoi amici irlandesi. Per il gaelico, invece, ho trovato dizionari e frasari online molto esaurienti; la decisione di lasciare il gaelico nel testo e la traduzione in nota nasce per dare un colore locale più spiccato. Per quanto riguarda le varianti dell’inglese d’Irlanda, le ho rese tramite le diverse sfumature di registro. Non avvalermi di regionalismi è una scelta precisa; ritengo azzardato tradurre le parlate straniere regionali con parole dialettali italiane: scegliere quale dialetto usare sarebbe impossibile, e comunque incongruo rispetto all’ambientazione estera del romanzo.

Il linguaggio del protagonista, voce narrante del romanzo, presenta anche ulteriori sfide rispetto al colorito locale. È molto colloquiale, diretto, ma a volte ricorrono espressioni molto liriche che fanno vedere in controluce la familiarità e le lunghe esperienze dell’autrice con la poesia; come è stato cercare di tradurre questa ambiguità, raggiungendo l’equilibrio che caratterizza il romanzo?

AM: Questo libro è stato un felice caso di sintonia epidermica tra me e l’autrice. Forse perché anch’io ho iniziato con la poesia, e le mie primissime esperienze di traduzione partono da lì (ancora alla scuola dell’obbligo), sono particolarmente sensibile al linguaggio poetico e simbolico, e riesco a sospendere l’incredulità e a lasciarmi prendere dalla lingua allo stato puro. È un processo del tutto inconscio, “di pancia”, che quindi non va alla ricerca di normalizzare l’originale, ma di valorizzarne l’originalità stilistica, sonora o metaforica. C’è stato un ascolto attento di assonanze e allitterazioni, che dove possibile sono state riprodotte. E lo sforzo di aderire il più possibile alle metafore originali scelte da Caoilinn Hughes, tranne in pochi sparuti casi, nei quali l’autrice ha autorizzato una resa più orientata alla comprensione che alla fedeltà.

Ti va di raccontarci il lungo processo dialogico con l’autrice, la quale in varie occasioni ti ha ringraziato dei commenti puntuali e stimolanti che le hai fatto; ti era mai capitato di collaborare con l’autore o l’autrice di un testo? In che modo questa opportunità di dialogo con l’autore cambia il prodotto finale della traduzione, secondo te?

AM: Se traduco un autore vivente, cerco sempre un dialogo se lo ritengo necessario. A volte non serve, per esempio ho appena consegnato una traduzione in cui era tutto talmente chiaro che non ne ho avuto bisogno. Nel caso di romanzi molto letterari capita più spesso, invece. Di solito cerco di disturbare gli autori che traduco solo quando le fonti consultate non mi lasciano indizi sufficienti per decidere con certezza. Il caso più tipico è una parola o locuzione inglese che ha molti traducenti in italiano, che il contesto non aiuta a chiarire. O una metafora che non sono sicura di avere capito al cento per cento. Cerco sempre di proporre una o più soluzioni, per ricevere conferma o smentita: mi sembrerebbe offensivo chiedere chiarimenti senza proporre le mie soluzioni. Con Caoilinn Hughes il dialogo è avvenuto in due parti: le mie domande sulla prima stesura della traduzione, e poi quelle generate dagli interventi di revisione di Federica, e dai suoi dubbi. Durante la revisione, Federica ha proposto correzioni e varianti, e nei casi che restavano dubbi ho sottoposto le alternative alla Hughes. In entrambi i casi c’è stato anche un costante interrogarsi su cosa era comprensibile per il pubblico italiano senza essere troppo straniante o specifico; la Hughes ha vissuto per un po’ di tempo in Italia e ne conosce la cultura e anche un po’ la lingua, e questo è stato molto d’aiuto. L’opportunità di dialogare con l’autore elimina il rischio di fraintendere completamente alcune similitudini, immagini o accezioni di non immediata chiarezza. Quindi toglie un po’ di responsabilità al traduttore, e di sicuro migliora il prodotto finale, avvicinandolo di più a una resa verosimile (anche se non potrà mai esserlo del tutto).

In particolare, nei ringraziamenti del romanzo, la Hughes sottolinea la tua capacità di comprendere a fondo gli “insulti, le battute e le ingiurie” del romanzo; espressioni che sicuramente pongono non poche difficoltà a un traduttore, e di cui questo libro è costellato! Come hai cercato di rendere queste espressioni? Avvicinandole all’orecchio del lettore, o piuttosto cercando di rispecchiare la loro provenienza da una cultura altra?

AM: Di nuovo, si tratta per me di un processo soprattutto inconscio, che si svolge sintonizzandosi con la voce dell’autrice. Ma se dovessi scomporlo per spiegarlo, direi che prima di tutto, guardando il testo originale e i dizionari, cerco di capire dove si colloca ogni espressione nella lingua di partenza: quanto si scosta dalla norma dell’uso? È un registro elevato, normale, basso, bassissimo? Il tono è serio, ironico, grottesco? La collocazione cronologica è moderna, antiquata, contemporanea? Una volta identificati gli scarti dalla norma, cerco di riprodurli con un traducente italiano che risponda agli stessi requisiti, ma che sia radicato nell’uso italiano. Quindi non si tratta di voler rispecchiare per forza la provenienza da una cultura altra, ma di far vivere al lettore italiano un’esperienza il più possibile simile a quella che vive il lettore in lingua originale. Se per fare questo è necessario rimarcare l’alterità, lo faccio. Se non serve, non lo faccio. In fondo leggere un libro in traduzione significa (o dovrebbe significare) essere consapevoli a priori che il testo è stato scritto in un’altra lingua.


Intervista a Federica Aceto, revisora del libro:

Mentre Anna si è occupata della traduzione, tu hai fatto la revisione, rileggendo cioè la traduzione con il testo a fronte; e se di recente il nome del traduttore si sta giustamente guadagnando posti sempre più di rilievo nei libri, i nomi dei revisori non vengono quasi mai citati. Quanto è raro che in editoria questo processo sia affidato ad altri traduttori, e quanto spesso accade che tale ruolo sia riconosciuto?

Federica Aceto
FA: È vero che al di fuori della stretta cerchia degli addetti ai lavori si sa poco o niente del ruolo dei revisori. Ho raccontato più volte un episodio che mi è capitato perché mi sembra emblematico: anni fa ero alla presentazione di un libro che avevo tradotto e a condurre la conversazione c’era un famoso regista italiano che mi ha fatto i complimenti per la traduzione. Io ho ringraziato e ho detto che il merito era anche dell’ottima revisione che mi era stata fatta, e lui mi ha guardato con sorpresa e un po’ di pena e mi ha detto “Ah, ti hanno dovuto revisionare?” La revisione non è (o non dovrebbe essere) un lavoro che si fa per mettere delle toppe ai buchi di un originale di scarsa qualità, come evidentemente ha immaginato il regista nel mio caso. È un passaggio fondamentale, un’occasione di confronto preziosissima che funziona al meglio se entrambe le parti in causa hanno una precisa consapevolezza dei limiti entro i quali ci si deve muovere. Il revisore deve intervenire solo per correggere eventuali errori e per valorizzare al meglio l’opera del traduttore, con il testo originale come unica bussola e non le proprie idee su come andrebbe tradotto un testo. Mi spiego meglio: è comune che chi rivede spesso sia anche un traduttore, ed è probabile che se si fosse cimentato con il testo che sta rivedendo come traduttore avrebbe prodotto un risultato diverso. Ma il suo ruolo come revisore è fondamentalmente quello di controllare che gli equilibri e la coerenza dell’architettura messa in piedi dal traduttore funzionino al meglio, intervenendo solo laddove questi equilibri e questa coerenza del progetto traduttivo originario vengono meno, e non per dire “se l’avessi tradotto io avrei fatto così”.

La tua formazione, sia linguistica che letteraria, è avvenuta proprio in Irlanda, a Dublino, tramite un MA in letteratura irlandese; in che modo conoscere la letteratura e la lingua irlandese ti ha aiutato nel lavoro su questo romanzo?

FA: È vero che ho studiato, vissuto e lavorato a Dublino per diversi anni, ma non mi considererei un’esperta di letteratura irlandese. Sento invece particolarmente mio l’inglese parlato nella Repubblica d’Irlanda perché è quello a cui sono stata esposta ed è quello in cui mi sono mossa più a lungo nei più disparati campi della vita quotidiana. Quindi sicuramente mi ha aiutato molto il fatto di avere quell’inglese, quelle voci e quegli accenti nelle orecchie, nella memoria e nel cuore. In che misura il linguaggio dei protagonisti differisce dall’inglese parlato nella capitale irlandese, dove hai vissuto? FA: L’irlandese dei personaggi è un Hiberno-English molto marcato, con costruzioni sintattiche e grammaticali che forse non si sentono più tanto a Dublino, ma che mi hanno ricordato molto le interessanti lezioni del compianto Terry Dolan che ha scritto il preziosissimo A Dictionary of Hiberno-English: The Irish Use of English che so che Anna ha consultato. Ma in genere l’Hiberno-English usato dai personaggi di Caoilinn Hughes mi è parso anche volutamente esagerato, quasi surreale a tratti, e Anna è stata molto brava a rendere questo difficile equilibrio tra il colloquiale e l’iperbolico.

Intervista a cura di Marta Olivi
Si ringraziano Anna Mioni, Federica Aceto e la casa editrice Pessime Idee
Qui la recensione a “Le conseguenze” di Caoilinn Hughes