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Dentro "un incubo denso di misteri" con Goya e Saturno: "La morte del tempo" di Umberto Curi

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La morte del tempo
di Umberto Curi
Il Mulino, 2021

pp. 132

€12,00 (cartaceo)
€ 8,49 (ebook)


Tempo che vola o che non passa mai. Tempo che scorre o che si ingorga invano. Tempo che non inizia più o che finisce per sempre. Tempo perduto o tempo trovato. Rallentamenti. Sospensioni. Accelerazioni. Pause. Attese. Riprese. Mai come in questo momento storico la riflessione sul tempo e sulla sua azione e percezione è ritornata al centro del dibattito, in puntuale coincidenza con quella sul significato dell’esistere. Una tematica antica e da sempre cara, non a caso, sia ai filosofi che agli artisti visivi: i primi impegnati nella ricerca appassionante di un “principio” originario, per dare conto, con esso, anche della questione temporale; i secondi alle prese con la raffigurazione allegorica e simbolica del tempo ma anche con l’ambizione ad una fama imperitura e dunque – contrapponendo l’eternità dell’arte alla transitorietà della moda – a una durata auspicabilmente infinita del proprio operato.

Una tematica classica, dunque, che nel costituire quasi un banco di prova obbligato e variamente declinabile per i pittori (basti pensare al successo di still life e affini), ha trovato nel Saturno che divora suo figlio (1820-23) di Francisco José Goya una delle sue rappresentazioni più inquietanti. Perché proprio il dio Saturno – colui che nel racconto mitologico ingurgitò gli eredi affinché nessuno ne prendesse il posto, la cui figura venne progressivamente assimilata a quella del Tempo per antonomasia – si pone in questa versione come l’immagine schizofrenica di una pulsione che è sia di morte (il tempo che consuma e divora) sia di vita (il tempo che lotta per non essere consumato e divorato a sua volta). Umberto Curi ha dedicato a questa enigmatica Pintura negra un saggio dal titolo tanto emblematico quanto ciclico nella sua “riflessività” – La morte del tempo, per l’appunto – appena pubblicato all’interno della collana Icone curata da Massimo Cacciari per Il Mulino.

Basta dare un’occhiata all’indice – nove i capitoli: La Quinta del sordo, Aion e chronos, Un dio terribile, Alle origini del Padre Tempo, Il tempo morente, Devorando a su hijo, Profeta dell’irrimediabile, Un incubo denso di misteri, Aun aprendo – per intuire che la trattazione non sarà certo all’insegna della soavità. E questo non tanto per lo stile o il tono dell’autore, che anzi riesce a non diventare mai né concettoso né grave, quanto per il peso specifico del tema in sé, che fa necessariamente il paio con quello (non altrimenti alleggeribile) della caducità e della fine. In più, come lo studioso ricorda fin da principio, qualsiasi discorso riguardante il dipinto di Goya in esame è tenuto a fare i conti con un’eredità di dubbi, misteri e ambiguità che ancora oggi, dopo ben duecento anni dalla realizzazione e al netto di una bibliografia critica specificamente dedicata, non può dire di avere raggiunto una pacificazione definitiva.

Umberto Curi ripercorre l’origine e la storia del capolavoro di Goya al netto degli studi più recenti, compresi quelli che in base a una documentazione scoperta nel 1946 avanzerebbero addirittura il sospetto della non paternità, che sarebbe invece da attribuire ad altro autore e presumibilmente al figlio Javier; un’eventualità, questa, dichiarata fin dall’inizio del volume, e che influisce non poco sullo stato d’animo del lettore, privato già dalle prime battute di una certezza assimilata in età scolare. Ma d’altra parte questo non è che un primo assaggio del disorientamento di cui si farà esperienza pagina dopo pagina, e ciò a partire dal ricordo delle particolari circostanze in cui nacque l’opera: sia per quanto riguarda lo stato psicofisico del pittore negli anni che vanno dal 1792 al 1824 (possibile sifilide, intossicazione da piombo, sordità, malinconia e pessimismo per il precipitare della situazione politica della monarchia spagnola), sia tenuto conto dei rapporti dell’opera con le altre Pinturas negras che ornavano le pareti della Quinta del sordo, la residenza di campagna a due piani poco fuori Madrid dove l’artista si stabilì nel 1819 e che poi abbandonò per Bordeaux quattro anni prima del decesso (1828). Senza dimenticare il fatto che i titoli delle quattordici opere, compreso il Saturno, non vennero dati loro dall’autore ma da Antonio Brugada, che proprio a pochi giorni dalla morte del pittore si occupò di stilare l’inventario dei beni presenti nell’edificio. Un elemento, questo, di cruciale importanza, e che lo studioso pone bene in evidenza per rivelare la peculiarità del “Saturno-non-Saturno” goyesco.

Difatti, pur incardinando saldamente il suo discorso nell’antichissima matrice filosofica della riflessione sul tempo – dunque a partire dalla distinzione fatta dal pensiero greco tra aionil “sempre essente”, la “durata” senza limiti, che non ha né principio né fine e che se ne sta, perciò, perennemente nell’ “ora”, privo di passato e di futuro») (pp. 39-40) e chronosgrandezza misurabile, forma temporale del divenire e del perire, che trasforma continuamente il futuro in passato») (p. 40) –  Curi sarà costretto a far notare in più punti come il personaggio di Goya, fatta eccezione per la senescenza e il cannibalismo, non abbia, a livello iconografico, alcunché di spiccatamente “saturnino”: egli è in realtà intenzionalmente privo (meglio: privato) dei consueti attributi del personaggio mitologico assimilato alle funzioni e ai connotati simbolici del Tempo, e ciò che ne risulta è dunque assai più simile a un uomo (per quanto mostruoso) che a una divinità.

Nel commentare questa specifica evidenza, e per dimostrare l’intenzionalità sottrattiva di Goya, Curi ricorre al confronto con due opere precedenti: il Saturno divora un figlio (1636-38) dipinto da Peter Paul Rubens e specialmente l’acquaforte The Bathos (1764) di William Hogarth, rappresentazione della morte stessa del Tempo, in cui, come in una summa visiva, non solo compaiono tutti i riferimenti iconografici del tema ma soprattutto vi è «la rappresentazione riflessiva del potere distruttivo del tempo, il fatto che lo stesso Kronos sia coinvolto direttamente nell’immane ruina che egli stesso ha provocato» (p. 82). È proprio questa caratteristica, secondo l’autore, che si ritrova nella creatura di Goya intenta nel “fiero pasto”: un elemento che fa capire come il suo Saturno vada inteso come pura e primitiva forza distruttrice, e come estremo tentativo della vecchiaia di (ri)appropriarsi della giovinezza; un elemento, come si vede, che che sposta sensibilmente l’asse portante del discorso anche su quanto di terreno, personale e finanche autobiografico ci sia nell’opera dell’artista spagnolo, e dunque su quanto la raffigurazione del “suo” (presunto) Saturno lo riguardasse e ci riguardi ancora da vicino.

Così come il capolavoro pittorico da cui prende le mosse, La morte del tempo non è certamente un libro consolatorio: quello di Umberto Curi è a tutti gli effetti un contributo che invita a meditare, tanto più che la sua fruizione, risentendo in qualche modo degli effetti dell’attuale congiuntura storica, rende evidentemente più pensierosi di quanto non accadrebbe in circostanze meno eccezionali. Ciò che Goya aveva imparato e intendeva trasmettere anche visivamente ai contemporanei e ai posteri – «il tempo come potenza instabile e distruttiva, rappresentato nella sua brutale quintessenza di divoratore» (p. 123) – non era certo la più rosea delle prospettive:

«il tempo consuma e distrugge tutto ciò che ricade sotto il suo dominio, fino al punto da divorare ciò che ha generato – e dunque anche se stesso. Il tempo che consuma non può che finire esso stesso consummatum. L’estremo tentativo di sottrarsi alla distruzione ingoiando la vita si converte nella cancellazione dell’unica possibilità di sopravvivenza» (p. 127).

Tuttavia, se è vero che talvolta l’antidoto è già presente nel veleno, la disamina lucida di Curi aiuta a considerare con maggiore serenità ogni prospettiva annichilente non solo e non tanto in virtù della sua saggia accettazione, ma anche alla luce di un ulteriore disegno (un autoritratto del pittore?) realizzato da Goya a Bordeaux e intitolato Aun aprendo (1825-28): accompagnata dall’intestazione “ancora imparo”, l’immagine di un altro vecchio che incede con l’aiuto di due bastoni è quella di un individuo ben consapevole che la conoscenza (mathos) sia raggiungibile solo attraverso la sofferenza (pathos), e che la vecchiaia, l’invecchiamento, sia una fase non eliminabile e anzi necessaria del processo. Il tempo passa, logora, sbrana e demolisce, e nel compiere questa sua azione eterna e infinita, alla quale niente e nessuno (nemmeno il tempo stesso!) può sottrarsi, non resta che prendere atto di ciò che è possibile fare durante, nel frattempo: imparare il più possibile, prima che sia troppo tardi; imparare sempre, imparare ancora, mettendo in conto che il processo sarà tutto fuorché indolore.

La morte del tempo è un libro che va letto adagio, senza lasciarsi trarre in inganno dalla misura breve, ritornando spesso su alcuni passaggi e soffermandosi sulle riproduzioni delle Pinturas negras (tutte a colori; e c’è anche un ipotetico prospetto architettonico della loro disposizione all’interno della Quinta del sordo). Dentro e fuori dall’opera (attualmente al Museo del Prado di Madrid) il nostro confronto con il Saturno (o chi per esso) di Goya, d’altra parte, è e resta più che mai in corso: Curi lo sa bene, ed è per questo che le note esplicative poste in fondo a ogni capitolo offrono numerosi suggerimenti bibliografici di approfondimento. Perché mai come in questo caso – e per un’icona della modernità che Baudelaire definì “un incubo denso di misteri” – il lettore migliore è quello che non divora figli ma libri: il lettore insaziabile, affamato di conoscenza, e come tale, per l'appunto, il lettore che “ancora impara”.

Cecilia Mariani