"Primavera": di incontri e connessioni umane in un mondo brutale e contraddittorio

Primavera
di Ali Smith
Sur, 2020

Traduzione di Federica Aceto 

pp. 300
€ 17,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

È quel genere di coincidenza che fa risplendere come luci accese le verità nascoste delle nostre vite. Le nostre vite che spesso somigliano, potremmo dire, a una sequenza di cartoline. (p. 88)
Certe storie aprono squarci. Certi libri ne richiamano alla mente altri pur mantenendo la propria assoluta unicità. Certi libri – e certi autori – ti portano a credere che la letteratura contemporanea è vibrante di vita, lo sguardo puntato sulla società entro cui affonda le radici eppure capace di trascendere il tempo e lo spazio con l’universalità delle tematiche trattate. Certi autori fanno a pezzi le parole, le norme di scrittura, la tradizione, e inventano un mondo letterario a propria misura, convincendo il lettore che esistono ancora nuove forme, nuovi modi per narrare il mondo e gli uomini. E, non da ultimo, certi romanzi sono una sfida per i traduttori, questo gruppo di eroi bistrattati e che invece possiedono la chiave unica per entrare come nessun altro in quella storia, maneggiarla con rispetto e premura, restituendo all’autore una voce che è ancora una volta la sua, seppur mutata.
Ali Smith è una delle scrittrici di lingua inglese più interessanti che ci siano in circolazione e per quel che mi riguarda la prova che negli ultimi anni la produzione letteraria tra Irlanda e Scozia – due luoghi che hanno molti punti in comune, a partire dal rapporto complesso con ciò che presuppone il termine Regno Unito – vive un nuovo fermento culturale e una capacità di sperimentazione notevoli. E, soprattutto, sono le scrittrici a mio avviso ad aver aperto uno squarcio nella letteratura contemporanea, cercando nuove forme di narrazione, lo sguardo vigile sulla realtà contemporanea o il richiamo a tematiche universali cui si accostano in modi inattesi. Penso per esempio a Sally Rooney che con due soli titoli è diventata tra le scrittrici più influenti del panorama editoriale in lingua inglese, parole che sono lame e sentimenti messi a nudo sulla pagina, o, ancora, a Eimear McBride il cui Bohémien minori è un capolavoro di scrittura, sperimentazione, capacità di scorticare il lettore.

#CriticaNera - Fantasmi del futuro e del passato: “L’impiccagione di Ann Ware e altre storie” di Margaret Doody

L’impiccagione di Ann Ware e altre storie
di Margaret Doody
traduzione di Rosalia Coci
Mondadori, febbraio 2020

pp. 144
€ 15,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

«Devo avvertire che due dei racconti (e la dimensione leggermente spettrale di un terzo) sono ispirati o basati su storie che mi sono state raccontate, che sono arrivate fino a me attraverso la cultura orale più che quella scritta.» (p. 8)
Ci mette in guardia, Margaret Doody – canadese e docente di letteratura comparata – evitando di sussurrarci quali dei sei racconti, pubblicati per la collana Il giallo Mondadori, siano quelli testimoniati dalle parole della tradizione. Date le circostanze, il lettore non può fare altro che investigare gli strani casi di tempi passati e recenti.
Sfogliando la spessa e ruvida carta ci troviamo subito nell'ottobre del 1748, seduti tra le panche sentenziose dell’Old Bailey, corte della corona nonché tribunale penale londinese. L’imputata è Ann Ware, chiusa nel suo abitino nero, ritenuta colpevole per aver ucciso i rispettabili zii. Tra ascoltatori e spioni c’è Harley l’Imbrattacarte, che annota i resoconti dei processi e scrive le vere vite e le ultime parole dei condannati, anche se spudoratamente romanzate. La presenza di quest’ultimo crea un racconto nel racconto, poiché alla narrazione in terza persona dell’autrice si sovrappone la testimonianza diretta di Harley, che quasi confonde. Ma non è l’unico elemento disorientante; la personalità della condannata è impenetrabile e la rende inquietante e sinistra. Solo l’imbrattacarte, a dispetto della definitiva condanna a morte per impiccagione, troverà la certezza dell’innocenza della giovane.

#IlSalotto - Farsi liquidi per sopravvivere: la storia di Roberto Chilosi narrata in "Come acqua"





Gli sport estremi come ragione di un’esistenza. A discapito di tutto, della sicurezza, di un introito stabile, di una vita tranquilla. È la vita scelta da Roberto Chilosi, che in Come acqua, il suo memoir edito da AltreVoci Edizioni, racconta il retroscena delle sue avventure più spericolate sui fiumi di cinque continenti. Perché affidarsi al proprio corpo come àncora richiede una fermezza e una determinazione mentale che la sua scrittura riesce a convogliare in modo mozzafiato. Ed è proprio riguardo il legame tra corpo e scrittura che abbiamo intervistato l’autore. 


Mesi passati sulla canoa in altri continenti, traversate a nuoto tra le isole del Mediterraneo, gare multisportive ai limiti delle capacità umane: esperienze in cui l’unica cosa su cui contare era il proprio corpo e la propria preparazione, fisica ma anche mentale. Nel libro lei non si tira indietro dal narrare le situazioni personali spesso difficili da cui i suoi viaggi lo hanno salvato. Viaggi che se all’inizio sembrano essere delle fughe, si configurano poi come dei momenti di ripartenza dai momenti più complicati della sua vita, pur non essendo facili da spiegare logicamente, come lei spiega nel capitolo finale del libro, significativamente intitolato “Inconclusioni”. La scrittura di Come acqua l’ha aiutata a riguardare indietro alla sua impressionante carriera sportiva ma anche ai suoi avvenimenti personali, giungendo un po’ a quella sensazione “totale” che lei narra di provare a volte, in alcuni fiumi particolarmente imponenti? O dopo trent’anni tra terra e acqua si sente ancora diviso tra il Chilosi uomo e il Chilosi sportivo?
Domanda difficile. Tornare a scavare su certi episodi mi ha fatto male senza dubbio; non che le avessi lasciate da parte, ma approfondirle, ha acuito il senso di inadeguatezza o frustrazione che provavo mentre le vivevo. Ora credo di aver trovato un buon equilibrio, anche se spesso temo di ricadere negli stessi errori, ma l'età e di conseguenza l'esperienza in questo senso aiutano molto. Adesso ho un lavoro fisso, anzi due, sono molto più responsabile dal punto di vista uomo. Dal lato sportivo anche in questi giorni sto facendo cose che forse sono un poco oltre il limite della sicurezza, ma non riesco a farne a meno, perché poi alla fine ne esco sempre bene. Fino al prossimo errore.

Quando la Scienza tradisce se stessa: l'illuminante saggio di Enrico Bucci


Cattivi scienziati. La pandemia della malascienza
di Enrico Bucci
add editore, 2020

pp. 192
€ 8,90 (cartaceo)
€ 4,99 (ebook)

Quali sono i danni causati alla comunità scientifica, e più ancora alla comunità umana nel suo insieme, dal comportamento egoistico di chi costruisce una carriera sulla menzogna? (p. 103)


Parafrasando la famosa risposta di Gandalf a Frodo all’inizio della Compagnia dell’Anello (il film, non il libro) si potrebbe dire che alcuni libri arrivano precisamente quando intendono farlo. O, meglio ancora, alcuni libri vengono pubblicati precisamente quando necessario. Sebbene infatti la prima edizione di Cattivi scienziati sia del 2015, l’editore torinese ha pensato bene, visti i tempi, di farne uscire una versione tascabile e ampliata, con un ultimo capitolo dedicato a questo 2020 così fuori dal comune. Il sottotitolo, presente già nella versione originale, risulta oggi tanto più adatto se consideriamo che la pandemia, lì metaforica e riferita alle cattive abitudini di quelli che, più che cattivi scienziati, nella prefazione Elena Cattaneo definisce proprio non scienziati, oggi è qualcosa di concreto.
Perché parlo di un libro necessario, io che tanto detesto questo aggettivo, troppo spesso riferito a taluni casi editoriali? Perché mai come in questo periodo – quantomeno da quando sono esplosi i social network, vale a dire da una decina di anni a questa parte – stiamo assistendo a un dilagare in apparenza incontrollabile di mala- e pseudoscienza, che raggiunge il parossismo nelle fake news inventate dai complottisti (e qui la politica non ne esce incolpevole) e supportate da letture sbagliate o falsate (quando non parliamo di vere e proprie falsificazioni di dati) di articoli scientifici.

#CritiMusica - I Camillas e "La storia della musica del futuro"

La storia della musica del futuro
I Camillas
People, 2020

pp. 112
€ 14,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)


C'è stato un periodo di circa settant'anni, iniziato più o meno nel 2950, nel quale la musica non è stata più ascoltata. Potevi però spalmarla sulla pelle. C'erano queste creme che, una volta messe a contatto con l'epidermide, permettevano di sentire la musica direttamente, senza utilizzare le orecchie. A ogni crema corrispondeva un'atmosfera musicale, un'emozione, un'energia, un affaticamento, un odio. Rilasciavano piccoli luccichii sulla pelle, luminosità artificiale.   
È difficile parlare della Storia della musica del futuro, un po’ come è difficile, oggi, parlare dei Camillas. 
Fino a qualche mese fa si sarebbe potuto raccontare a cuor leggero dei loro concerti come esplosioni colorate, sarabande allegre, suoni e confusione e risate e ogni volta uscire felici e sudatini canticchiando quando a casa tornerai / vienimi a trovar / posso sempre offrirti il pane (uno dei loro brani più famosi, ndr). 
E pensare ai testi delle loro canzoni e ai libri - il primo, La rivolta dello zuccherificio, uscito qualche anno fa per Il Saggiatore e questo da poco pubblicato da People - come a operazioni di pura fantasia, rassegne di mondi inventati à la Rodolfo Wilcock (per non scomodare Borges o Cortázar) raccontati col gusto per il racconto stesso, per la sperimentazione linguistica, per l’iperbole, l’assurdo, il dada. 
Questo erano, questo sono e in fondo saranno per sempre i Camillas. 
Quel che rende difficile parlarne proprio adesso è il fatto che Zagor Camillas, al secolo Mirko Bertuccioli, si è ammalato improvvisamente ed è morto il 14 aprile 2020. 
E dunque La storia della musica del futuro è divenuto suo malgrado l’ultima occasione possibile di sentire insieme la voce e le storie di Zagor e Ruben, Mirko e Vittorio, I Camillas.

#CriticARTe - "Breve storia delle macchie sui muri" di Adolfo Tura



Breve storia delle macchie sui muri.
Veggenza e anti-veggenza in Jean Dubuffet e altro Novecento
a cura di Adolfo Tura
Johan & Levi, maggio 2020


pp. 111
€ 13,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)


“Nella stanza in cui ora sto scrivendo ogni cosa è concreta” – Lewis Baltz


Quante volte nella vita molti di noi avrebbero voluto rivivere quella fanciullesca sensazione di magica leggerezza del cuore e della mente, in grado di scorgere figure e volti nelle nuvole, senza domandarsi l’origine di tale percezione visiva? Senza, soprattutto, la più vaga consapevolezza che, esattamente al capo opposto, esistesse un’incapacità di “favoleggiare” con il pensiero, intrappolato in una fitta rete di contenimento degno, se vogliamo, del più radicale illuminismo.
Lo studioso e curatore Adolfo Tura ci guida alla scoperta del fenomeno di “veggenza” ed “anti-veggenza”, attraverso un viaggio di inusuali accostamenti artistici, a partire dal ritrovamento di un ciottolo nella valle di Makapan, circa due milioni e mezzo di anni fa, per giungere ai giorni nostri, soffermandosi, ad esempio, sulle opere di Jasper Johns.

Il sasso lanciato nell'oscurità: «Volo di notte» di Antoine de Saint-Exupéry


Volo di notte
di Antoine de Saint-Exupéry
traduzione di Cesare Giardini
Bompiani, 2020

pp. 112
€ 9,00 (cartaceo)
€ 5,99 (ebook)

Pensava: “Quel corriere non deve fare dietro-front per un nulla. Se non li scuoto un po’, i miei uomini finiranno con l’avere sempre paura della notte.” (p. 52) 
Associare il nome di Antoine de Saint-Exupéry al suo Piccolo Principe è cosa immediata. Al di là del capolavoro che l’ha reso celebre, tuttavia, de Saint-Exupéry è stato un prolifico scrittore, con all’attivo diversi romanzi e un notevole carteggio, nonché corriere della Compagnia Generale di Imprese Aeronautiche Latécoère e capitano di complemento dell’aviazione francese durante la seconda guerra mondiale.
Si può ben dire che tutta la sua vita sia stata segnata dal volo, sia in veste civile che militare, in un’epoca in cui il mezzo stesso, e soprattutto la strumentazione di bordo e quella di terra, dovevano ancora raggiungere degli standard di sicurezza affidabili. È fuori di errore affermare che le donne e gli uomini della sua generazione sono stati dei veri pionieri nel settore aeronautico; un settore “nato” da poco, se consideriamo che il primo aeroplano dei fratelli Wright si era sollevato da terra solo nel 1903.

Anagrammi di genere: rileggere l'intima verità dei grandi della nostra letteratura in "Silvia è un anagramma" di Franco Buffoni

Silvia è un anagramma | Nazione Indiana
Silvia è un anagramma
di Franco Buffoni
Marcos y Marcos, agosto 2020

pp. 336
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Classificare Silvia è un anagramma è senza dubbio difficile: Buffoni, accademico, scrittore e poeta, ci propone un’opera che si colloca a metà tra il saggio critico e la narrazione biografica delle vite di alcuni dei più grandi scrittori del canone letterario italiano, e non si esime dall’inserire alcune poesie di proprio pugno da lui composte ispirandosi alle vicende narrate. Un’opera ibrida, come ibrida e sfuggente è stata la vita degli scrittori da lui scelti: Leopardi, Pascoli, Montale, ma anche Mario Mieli, Sandro Penna, Pier Vittorio Tondelli, Pier Paolo Pasolini e molti altri. Ma il suo scopo è netto e preciso: dimostrare che, nell’analisi biografica, si può collocare «anche l’omosessualità nel novero delle opzioni, delle possibilità» (p. 9). Il canone e la tradizione letteraria non si preoccupano mai di provare e testimoniare l’eterosessualità di questi scrittori, le cui vite vengono tramandate come fisse mitologie impossibili da osservare sotto prospettive diverse. Ma se invece ci fosse una chiave di lettura diversa? E se non fosse tutto come professori, maestri e libri di testo ci hanno insegnato sui banchi di scuola?

#IlSalotto – “Come ricreare l’empatia verso i corpi neri? Ispirandomi al romanzo ottocentesco”. Intervista a Igiaba Scego



Igiaba Scego in una foto di © Simona Filippini
La settimana scorsa ci siamo occupati dell'ultimo romanzo di Igiaba Scego, La linea del colore (Bompiani). Torniamo oggi a parlare del libro e dei temi dell'opera di Scego con l'intervista di Serena Alessi all'autrice.



Nella postfazione al romanzo scrivi: “Il libro conclude un’ideale trilogia, un percorso che è iniziato con il romanzo Oltre Babilonia nel 2008 e proseguito con Adua nel 2016. Nella mia testa la chiamo ‘la trilogia della violenza coloniale’”. Ci sono infatti molti incroci e confluenze tra i tre volumi: tra gli altri, la questione della mancanza dei colori come metafora della violenza subita, l’espediente del “monumento” silenzioso che ascolta i pensieri della protagonista (un po’ come se il cimitero acattolico stesse a La linea del colore come Piazza della Minerva stava ad Adua), l’uso di Piazza dei Cinquecento come trait d’union tra quest’ultimo romanzo e il penultimo, come scrivi tu stessa. Ma è stata una trilogia pianificata? E se non lo è stata, cosa fa di questi tre romanzi un unicum (che in qualche modo non comprende Rhoda o i racconti di Pecore nere)? 
No, non è stata una trilogia pianificata, ma una trilogia che è arrivata con la consapevolezza, col tempo. Fin dall’inizio della mia scrittura ho cominciato a farmi delle domande sull’identità delle seconde generazioni e soprattutto sui corpi migranti, cercando di capire come mai questi corpi subissero così tanta violenza nel nostro presente. Oltre Babilonia parla di rifugiati: c’è un richiamo vago alla storia coloniale, ma non è il centro di quel romanzo che io chiamo in modo affettivo bulimico, dato che ci sono tante storie, tanti personaggi, tanti modi di essere donna. Invece in Adua il colonialismo italiano viene preso di petto: uno dei personaggi, Zoppe, nasconde la sua collaborazione con i fascisti, si inventa un passato quasi da partigiano. Volevo fare vedere le ambiguità, perché i colonizzati non sempre sono gli eroi che resistono, a volte accettano il colonialismo. È un qualcosa che ti fa vivere male e soprattutto che ha avuto delle conseguenze nei paesi africani. Il collaborazionismo con gli europei è un sistema che distrugge, e quindi ho cercato di far vedere cosa succede ai corpi neri quando arriva una tale distruzione. 
È chiaro che questi libri raccontano storie diverse, ma hanno in comune dei caratteri femminili molto forti (e non solo quelli delle protagoniste) e un’attenzione verso lo spazio urbano. Uno spazio che approfondisco in La linea del colore, con la ricerca quasi ossessiva del topos del corpo nero incatenato. E con la presenza dei corpi neri in Italia, molto prima delle migrazioni, e cioè a fine Cinquecento, o nel Seicento. Ho sempre fatto un lavoro di scavo storico: mi interessava far capire che la violenza di oggi viene dalla violenza di ieri, e non possiamo superarla se non conosciamo il nostro passato. Soprattutto volevo che si capisse che i nodi di oggi – come ad esempio la mancanza della possibilità per molti migranti di viaggiare legalmente – vengono da una storia di dolore del corpo nero. In La linea del colore ho lavorato in modo quasi scientifico a questo proposito, con lo scopo di ricreare quell’empatia verso l’altro che oggi pare mancare del tutto. A volte la gente mi sembra quasi annoiata quando sente parlare dei barconi, dei morti, mentre io invece sono angosciata da quello che succede nel Mediterraneo. E allora mi sono chiesta: come ricreare l’empatia con il mezzo della letteratura? Ho pensato quindi di costruire un feuilleton ottocentesco, con tutto quello che c’è nei romanzi ottocenteschi: il corteggiamento, il rifiuto (che fa molto Darcy, no?!), anche i cliché del romanzo ottocentesco. Ma non l’eroina che anzi è tutto il contrario del cliché: è una donna nera in viaggio. La protagonista è ispirata a due donne realmente esistite, a Edmonia Lewis, che era una una scultrice, e a Sarah Parker Remond, che era un’attivista e ostetrica in Italia. Quella è stata la scintilla che mi ha fatto con cominciare a scrivere questo libro: due donne nere a metà Ottocento a Roma. La possibilità di usare questa presenza nera per parlare delle presenze nere di oggi. Nei miei romanzi parlo di corpi neri perché per molto tempo questi corpi sono stati assenti dalla cultura italiana, o se sono stati presenti lo sono stati come stereotipo, come elemento esotico. Volevo dare a questi corpi – che sono anche il mio corpo, non sono corpi estranei – una dignità che molto spesso lo stereotipo o l’immaginario deviato ha tolto. È in questo che sono molto simili i miei libri: raccontano delle storie che fino adesso non sono state raccontate. E lo faccio io ma lo fanno anche tanti scrittori e scrittrici. È un’azione di aggiungere a un discorso collettivo sulla letteratura italiana, che è stato molto di parte perché una fetta della società non è stata raccontata. Ed era l’ora di raccontarla.

#CriticARTe - Raffaello Sanzio, 500 anni dalla morte. Piccola guida per orientarsi tra le pubblicazioni dedicate all'artista rinascimentale

La scuola di Atene, Raffaello. Foto in concessione dell'Ufficio stampa Skira

In occasione dei 500 anni dalla morte di Raffaello Sanzio, diverse Case Editrici hanno reso omaggio al Maestro del Rinascimento, pubblicando nuovi libri che ne raccontano sia l’opera che il vissuto. In questa sede abbiamo selezionato sei proposte di lettura, che affrontano diversi aspetti, in grado di fornire una comprensione a tutto tondo dell'opera dell’artista. Lo spunto di riflessione iniziale parte dal dato biografico più rilevante, ossia la giovane età in cui Raffaello raggiunse la fama; quindi ci si sofferma su come la fulminante ascesa sia stata caratterizzata da una fervida creatività, complice la competizione con i più grandi Maestri del suo tempo. Si pensi, ad esempio, che Leonardo e Michelangelo furono suoi contemporanei, spesso in “gara d’appalto”, per aggiudicarsi prestigiosi progetti.
Furono anni di grande splendore, di profonda analisi e riflessione sui canoni estetici e architettonici, anni di indagine sulla pittura, caratterizzati da un’audace lungimiranza, che ha segnato una spaccatura con il passato, spesso messo in discussione, senza essere per questo ripudiato (come invece accade spesso nelle provocazioni artistiche contemporanee).

La vita, le stagioni: "Mai stati così felici" di Claire Lombardo

Mai stati così felici
di Claire Lombardo
Bompiani, 2020

pp. 681
€ 22,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

Titolo originale: The Most Fun We Ever Had
Traduzione di Silvia Castoldi


Chiunque abbia mai guardato la serie televisiva This is Us conosce perfettamente il senso di fascinazione, quasi di dipendenza, che deriva dall’osservare dall’esterno le vicende di famiglie allargate, apparentemente perfette e in realtà costellate di traumi e questioni irrisolte. Chiunque abbia amato i Pearson, la relazione ideale tra Jack e Rebecca, e abbia poi notato gli effetti di questo amore dirompente sulla crescita dei loro figli, si troverà immediatamente a suo agio nell’affrontare la ricca saga famigliare immaginata dall’esordiente Claire Lombardo, da poco edita da Bompiani.
Protagonista, anche in questo caso, è una coppia di lungo corso, quella costituita da David, medico di famiglia, uomo paziente e affettuoso, e Marilyn, un tempo studentessa di letteratura e poi soltanto madre, impiegata in tarda età nella gestione di un negozio di ferramenta. Profondamente innamorati, ancora attratti l’uno dall’altra dopo quarant’anni di matrimonio, nella grande casa a Fair Oaks appartenuta al padre di lei hanno cresciuto quattro figlie femmine: Wendy, coraggiosa, ribelle, sfacciata e ora profondamente infelice; Violet, seria e compassata, maniaca del controllo e devota alla nuova famiglia costruita con Matt e i due bimbi ancora piccoli, Wyatt ed Eli; la terzogenita, Liza, donna di successo, che si destreggia tra un lavoro soddisfacente e un uomo che ha amato ma non riconosce più; infine Grace, la piccola di casa, che anche da adulta fatica a farsi prendere sul serio dalle sorelle, di molto più grandi, e dai genitori. Intorno a questi personaggi Claire Lombardo articola un’ampia e turbinosa narrazione.

Com'è inquieta Lolita nell'era del #metoo: il potente romanzo di esordio di Kate Elizabeth Russell



Mia inquieta Vanessa
di Kate Elizabeth Russell
Mondadori, 2020

Traduzione di Linda Martini

pp. 360
€ 20,00 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)

Lo so cosa pensa, cosa penserebbe chiunque – che lo difendo, che sono una complice –, ma in realtà sto difendendo me stessa tanto quanto Strane. Perché anche se a volte la uso anch’io, la parola “abusi”, per descrivere alcune cose che mi sono state fatte, mi sembra che sulla bocca degli altri diventi orribile e assoluta. Inghiotte tutta la storia. Inghiotte me e tutte le volte che sono stata io a volerlo, a chiederlo. (p. 56)
Dal momento della sua pubblicazione negli Stati Uniti Mia inquieta Vanessa (titolo originale: My Dark Vanessa) - romanzo di esordio della scrittrice americana Kate Elizabeth Russell - non ha smesso di far discutere critici e lettori. Bestseller nelle classifiche di The New York Times e The Sunday Times, è stato salutato come un contemporaneo Lolita per la sua vena provocatoria e la dirompenza narrativa e di indagine psicologica.
Leggendolo ti rendi subito conto del perché. È un romanzo che non solo affronta una delle tematiche chiave della nostra epoca, le molestie sessuali e la violenza sulle donne, ma lo fa in una maniera del tutto problematica.
Al centro della storia si stagliano con forza due personaggi: Vanessa Wye, quindicenne dall'anima solitaria che inizia a frequentare un ambito collegio privato, la Browich School, e si trasferisce lì lontana dalla famiglia, e Jacob Strane, il suo quarantaduenne professore di letteratura che fa irruzione nella sua vita stravolgendola per sempre.
Tutto tra loro comincia con uno sguardo, presto ci si inizia ad attardare in classe alla fine delle lezioni, poi si passa a un colpetto sul ginocchio e infine si arriva a una travolgente relazione che durerà per anni finendo per distruggere intimamente Vanessa, ormai schiava di un rapporto che lei chiama "amore" ma che la alienerà del tutto da se stessa.
La vicenda narrata comincia nel 2000, quando i due si incontrano alla Browich, e arriva fino al 2017 quando il professore viene accusato di abusi sessuali da altre ex allieve dell'istituto.
Vanessa viene allora contattata da una di loro che le chiede di fare lo stesso, di unirsi al movimento. Ma per lei è impossibile denunciare Jacob: come può tradire il suo primo amore, il solo uomo attraverso il quale si è definita per tutto questo tempo? Come può accettare di essere stata solo una preda tra le tante? 

"Taccuino delle piccole occupazioni": l'osservazione del reale e i voli dell'immaginazione

Taccuino delle piccole occupazioni
di Graziano Graziani
Tunué, 2020

pp. 228
€ 14,50 (cartaceo)


Alle volte penso che la vita sia un tempismo imperfetto, e mancarsi non è meno nobile di prendersi. (p. 228)
È un libro da maneggiare con cura, Taccuino delle piccole occupazioni di Graziano Graziani. E forse non sono nemmeno la persona più adatta a parlarne, io che affondo le mani nel realismo e sono sempre un po’ restia di fronte ai guizzi del surreale, dell’ironia e di certi voli di immaginazione. Apprezzo le storie e la bella scrittura, però, e amo la frammentarietà del racconto, una forma letteraria con la quale il testo di Graziani ha molto in comune.
Quindi nel momento in cui mi sono avvicinata a questa storia ho stretto un patto silenzioso con l’autore e, come si dovrebbe forse fare sempre, accettato le sue regole, per perdermi dentro la vita di Girolamo, lo strampalato protagonista, seguirne i pensieri mai banali, le ossessioni, le avventure talvolta surreali ma sempre piene di umanità. Una vita raccontata per frammenti non ordinati cronologicamente, in cinquantacinque brevi capitoli che a tratti si ha la tentazione di considerare davvero come micro narrazioni a sé stanti, perché in fondo l’unitarietà non sembra essere lo scopo finale, quanto una collezione di attimi, di riflessioni. In questa finta biografia – di un uomo, ma che forse ne contiene molti altri dentro di sé – , infatti , quel che conta, più degli eventi, sono appunto gli istanti e le riflessioni del protagonista: osservatore attento, animo malinconico ma che si apre spesso all’ironia, Girolamo è un uomo che non smette mai di guardare il mondo, di interrogarsi sul senso – o forse sarebbe meglio dire sul non senso – delle cose, fra criticità e contraddizioni della società contemporanea e riflessioni più astratte sul senso della vita e dell’amore.

Giorni e notti fatti di (troppo) piccole cose

Giorni e notti fatti di piccole cose
di Tishani Doshi
Feltrinelli, 2020

Traduzione di Silvia Roti Sperti

pp. 272
€ 17,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Il secondo romanzo di Tishani Doshi, poetessa e ballerina indiana, presenta molti punti di contatto con il primo. In Il piacere non può aspettare (Feltrinelli, 2012) la scrittrice narrava le vicende della famiglia Patel-Jones (lui indiano, lei gallese, proprio come i genitori di Doshi), scegliendo come protagonista Babo, emigrato a Londra da Madras alla ricerca di un’educazione e di una vita migliori. Giorni e notti fatti di piccole cose, invece, racconta la storia di un'altra famiglia mista, quella di Grace, madre indiana e padre italiano.
Anche Grace, come Babo, ha lasciato l’India alla volta di una vita più avventurosa - il romanzo si sofferma sulla descrizione delle sue frenetiche relazioni sessuali durante l’università. Il fallimento del suo matrimonio e la morte della madre convincono Grace a tornare in India, per raggranellare i pezzi di una vita apparentemente sgretolata. Qui il libro prende una piega inaspettata: non vi aspettate una rinascita, uno di quei libri in cui la protagonista trova la pace interiore o si ritira in ashram sperduto tra le montagne; quello di Grace non è il viaggio di Elizabeth Gilbert.

#IlSalotto - Intervista a Isabella Pinto, autrice di "Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività"




In occasione della pubblicazione di Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività, basato sulla ricerca accademica di dottorato della Dr. Isabella Pinto, Elena Arzani ha intervistato l'autrice, approfondendo le tematiche di straordinario interesse culturale e valore contemporaneo.
Il libro di Pinto è il primo testo a livello nazionale, che si focalizza interamente sullo studio dell'opera di Elena Ferrante, portando, a buon titolo, il lavoro della scrittrice in ambito Universitario e qui trovate la recensione


EA: Questo libro è la rielaborazione della sua ricerca dottorale, intitolata Poetiche e politiche della scrittura di sé nell’opera di Elena Ferrante, la prima mai condotta in Italia su questo argomento. Nonostante aleggi il mistero sulla vera identità della scrittrice, Ferrante è considerata come uno dei 100 personaggi più influenti al mondo. Quali aspetti dell’opera di Ferrante hanno maggiormente ispirato e motivato la sua ricerca?

IP: Grazie per questa domanda iniziale, che mi permette di fare un piccolo excursus su come sono arrivata a lavorare sull’opera di Elena Ferrante. Fin dalla prima lettura, suggerita da un’amica drammaturga conosciuta al Teatro Valle Occupato, Gaia Grosso, avvenuta prima del successo globale della tetralogia, mi ha colpita il modo di creare storie a partire da soggettività altre rispetto i molteplici canoni con cui veniamo educati. Oltrecanone, dice la direttora di Leggendaria Anna Maria Crispino, un concetto che racconta l’enorme lavoro che la critica letteraria femminista italiana ha fatto e continua a fare da una trentina di anni a questa parte, abitando e creando luoghi di resistenza posti spesso, troppo spesso, ai margini dell’accademia. Grazie all’opera di Elena Ferrante forse oggi questo discorso può essere esteso transdisciplinarmente, diventando Oltrecanoni, laddove la soggettività è legata non solo alle ontologie, ma anche alle epistemologie, che insieme ci permettono di conoscere il chi siamo. Narrazione e soggettività sono elementi intrecciati in un rapporto onto-epistemologico, ovvero politico e poetico a un tempo, dove l’invenzione di tecniche narrative è ingarbugliata con le forme di vita. Quando dico “politica” mi riferisco alla polis e a come è stata ripensata da autrici come Hannah Arendt, o dai movimenti da cui sono emersi altre soggettività altre rispetto l’esclusività della postura rivoluzionaria assegnata ai soggetti coinvolti nella dialettica hegeliana. Quando dico “poetica” mi riferisco invece alla “scrittura delle emozioni” di Ferrante, una scrittura corporale, incarnata, ma anche depersonalizzata, caratterizzata dalla “frantumaglia” e dalla “smarginatura”, un modo di esprimere il desiderio di altri modi di vivere e di stare insieme, di creare concatenamenti, su questo sono molto vicina a Gilles Deleuze e Felix Guattari - dove i mondi narrativi vengono pensati, immaginati, sperimentati a partire da un altro punto di vista rispetto a quello egemone. 

Lo sguardo del maestro nella "fiaba" khirgisa di Aitmatov

Il primo maestro
di Tschingis Aitmatov
Marcos y Marcos, 2020

pp. 122 
€ 15,00 (cartaceo)

Traduzione dal russo di Guido Menestrina



Si annida, tra queste pagine, una storia che deve essere detta. Il narratore è un artista, ma l’urgenza che lo coglie è tale da farlo ricorrere alle parole prima che alla pittura. Tutto inizia e finisce a Kurkureu, un borgo kirghiso che si esaurisce in poche case e una collina su cui svettano due pioppi, veri e propri numi protettivi per gli abitanti. Per i bambini che si arrampicano tra i rami, gli alberi si fanno maestri della vastità del mondo:
Nascosti tra i rami, noi pensavamo: è forse la fine della Terra, oppure ancora più in là ci sono lo stesso cielo, le stesse nubi, steppe e fiumi? Nascosti tra i rami, ascoltavamo i suoni dei venti, non terreni, e le foglie che, in risposta, sussurravano di regioni seducenti e misteriose, che si nascondevano oltre le azzurre lontananze. Io ascoltavo il rumore dei pioppi, e mi palpitava il cuore dalla paura e dalla gioia, e sotto quell’irrefrenabile stormire mi sforzavo di immaginare quelle lontane terre. (pp. 14-15)
Esistono però altri modi per arrivare lontano, per vedere ciò che accade oltre il limite dello sguardo. Lo sa bene chi, un tempo, quei pioppi li ha piantati. Di questo, in fondo, narra il breve romanzo edito da Marcos y Marcos. Protagonisti della storia sono un maestro e una ragazzina. Un maestro giovane e quasi analfabeta e una quindicenne orfana, che cresce in un contesto violento e anaffettivo. Djujšen e Altynaj.

La biblioteca di Parigi come rifugio dall'oblio

 
La biblioteca di Parigi
di Janet Skeslien Charles
Garzanti, luglio 2020

Traduzione di Roberta Scarabelli

pp. 399
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Janet Skeslien Charles è una scrittrice americana che si divide tra il Montana, luogo di nascita, e Parigi, città d’elezione, dove ha lavorato come responsabile culturale proprio per la Biblioteca americana di Parigi. Il suo romanzo è quindi un inno a questo luogo speciale, sito in Rue du Géneral Camou, al civico 10, e che celebra proprio quest’anno cento anni dalla nascita. 
Dal 1920, infatti, questo luogo accoglie visitatori e appassionati, ed è rifugio per chi cerca nei libri un’illuminazione. Anche per Odile, protagonista del romanzo, la biblioteca è un rifugio, prima come giovane utente, in compagnia di un’amata zia, poi come dipendente, realizzando il suo sogno professionale.
Attorno alle passioni di questa giovane così intraprendente e fiera ruotano gli altri protagonisti di questo romanzo. La storia, ambientata tra il 1940 e i primi anni Ottanta, si divide tra il passato di Odile e il suo presente, in America, dove ormai anziana e in solitudine, incrocia la sua vita con quella della giovane Lyli. Il lettore impara così a conoscere i sogni di Odile, la sua tenacia di giovane donna che va oltre ogni pregiudizio pur di lavorare nell’amata biblioteca. Sia i colleghi, che i frequentatori dell’American Library, diventeranno punto di riferimento e famiglia per la protagonista e attraverso le loro vicissitudini seguiremo quelle della Francia in guerra, dell’invasione tedesca, del terribile destino riservato agli ebrei. Ma anche Lily è una ragazzina speciale, che si troverà a fronteggiare un grande dolore nella sua vita e che imparerà a ritrovarsi proprio grazie all'amicizia con questa strana anziana, che tutti guardano con sospetto e che diventerà per lei indispensabile.

#CriticARTe - “Le donne devono per forza essere nude per entrare al Met. Museum?” - "Le donne nell’arte" a cura di Flavia Frigeri

Le donne dell’arte
a cura di Flavia Frigeri
Traduzione di Isabella Polli
24 Ore Cultura, 2020

pp. 176
€ 14,90 (cartaceo)



“Le donne devono per forza essere nude per entrare al Met. Museum?”
Recita così nel 1989 lo slogan delle Guerrilla Girls, il collettivo attivista femminista, formatosi solo 4 anni prima, la cui identità è nascosta dietro a una maschera stile King Kong.
La provocazione è legittimata dai dati allarmanti, secondi cui la presenza femminile in luoghi culto dell’arte è pesantemente esigua: si parla infatti di meno del 5%, contro un 95% di colleghi maschi. Non solo, il dato più sorprendente vede una percentuale di nudi femminili nell’arte pari all’85% della produzione totale.
Non è quindi banale domandarsi dove siano finite tutte le artiste, che nel corso dei secoli hanno contribuito con il loro genio ed estro a popolare questo variopinto settore.           

La storica dell’arte e curatrice, Flavia Frigeri, ha selezionato 50 storie di donne, che hanno lasciato un segno tangibile nel mondo dell’arte, a partire dal 1500. Il volume è un vademecum utile per scoprire il contributo artistico di personalità, che sono rimaste spesso nell’ombra per motivazioni di carattere storico sociale e/o culturale.

Interrogare la Storia alle fonti del silenzio. Un romanzo che alza il velo sui "bambini perduti" della Spagna franchista

L'orizzonte ci regalerà le stelle
di Ruta Sepetys
Garzanti, 2020



Traduzione di Roberta Scarabelli




pp. 465

€ 18,60 (cartaceo)
€  9,99 (ebook)


Il titolo di questo bel romanzo di Ruta Sepetys sembra ricalcare i vecchi fotoromanzi anni 50 o i libri di certe collane rosa presenti nelle librerie delle  zie. Peccato perché il titolo originale, The Fountains of Silence (Le fonti del silenzio), anche se meno poetico, avrebbe reso meglio, come spesso accade, l'atmosfera del romanzo. Che è quella del silenzio, del segreto, dell'occultamento della verità. Sono molti i segreti che albergano nelle pieghe del libro e che si dipanano fra le pagine fino allo scioglimento nella parte finale.
Siamo nell'anno 1957, nella Spagna governata con pugno di ferro dal Generalisimo Francisco Franco. Ana lavora come cameriera ai piani del primo albergo americano di Madrid, il Castellana Hilton, tutto marmi e stucchi, e viene assegnata al servizio della famiglia Matheson: padre magnate del petrolio, madre di origini spagnole e figlio diciannovenne, Daniel, che, ben lontano dall'idea di seguire le orme paterne, sogna di fare il fotoreporter. Aggirandosi per Madrid armato di macchina fotografica Daniel riesce a cogliere in un attimo un'immagine che lo lascia sconcertato, una suora che tiene in braccio un neonato morto e lo guarda atterrita mentre lui scatta la foto. Subito dopo Daniel è braccato da una coppia di agenti della Guardia Civil, i Corvi, come li chiamano gli spagnoli. Gli strappano di mano la pellicola (per fortuna un rullino nuovo) e lo diffidano dall'andare in giro a fotografare. Parte da questo evento il romanzo della Sepetys, che, come dice lei stessa nella nota finale, è un'opera di narrativa storica. L'autrice ci racconta anche come il suo amore per la Spagna, gli spagnoli e la loro storia sia nato in lei durante un tour promozionale per il suo primo romanzo. Da lì il desiderio di studiare, di approfondire quell'epoca così tormentata e così vicina nel tempo rappresentata dal periodo franchista. Durante il quale accaddero vicende dolorose e inenarrabili o perlomeno poco narrate, come il terribile ratto dei bambini da dare in adozione che costituisce l'ossatura narrativa del romanzo. Un segreto, di cui non racconto molto di più, tenuto sotto chiave dall'apparato statale dell'epoca, con il coinvolgimento di medici, suore e orfanotrofi compiacenti.

Il senso dell'umana precarietà: "Di chi è questo cuore" di Mauro Covacich

Di chi è questo cuore
di Mauro Covacich
La nave di Teseo, 2019

pp. 246 
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)



Che cos’è la profondità in cui si annida il cuore umano? Un nero abisso, forse un fondale oceanico, forse invece un punto inesplorato dell’universo. Oppure semplicemente la concretezza di una gabbia toracica indagata da una sonda. All’interno di queste polarità, solo apparentemente contraddittorie, in realtà complementari, si muove il romanzo (ma anche questa definizione risulta imprecisa alla lettura) di Mauro Covacich. Prosegue infatti il tentativo dell’autore di eliminare ogni barriera tra vita e letteratura, e la scrittura si fa così cronaca discontinua di un’esistenza che ne lambisce molte altre, in una Roma pullulante e animata come un formicaio, in cui i contatti tra gli individui sono il più delle volte casuali e stordenti come interferenze o scosse elettriche.

Il garbo del gatto ottocentesco: "Lettere dal mio gatto" di Helen Hunt Jackson

Lettere dal mio gatto
di Helen Hunt Jackson 
La Vita Felice, 2016

Traduzione di Benedetta Casella (testo inglese a fronte)

pp. 112
€ 9,50 (cartaceo)


«Povera Micina, niente più bei giochi per te, fino a che Helen non torna a casa!» e io pensato che sarei scoppiata in lacrime. Mi sembra tuttavia che sia un comportamento molto sciocco da tenere, di fronte a ciò che è inevitabile, così ho finto di avere qualcosa nell’occhio sinistro e l’ho strofinato con la zampa. È molto raro che io pianga per qualcosa, a meno che non si tratti del latte versato. Spero tu abbia trovato le castagne per il cavallo che ti ho messo sul fondo della carrozza. Non riuscivo a pensare a nient’altro da mettere lì dentro che ti potesse ricordare la tua gattina. (p.37)

Il processo di antropomorfismo investe ormai da tempo i nostri animali da compagnia. Siamo abituati a pensare ai cani come creature più semplici, sempre felici di vederci e pronti alla lealtà più estrema, mentre sui gatti tendiamo a riversare caratteristiche quali ironia, cinismo e uno sprezzo nei confronti degli umani, a malapena tollerati in quanto distributori di cibo.
Quest'idea ha dato origine a esiti più svariati: dai meme sui social, all'immaginare conversazioni whatsapp con il nostro cane e gatto, fino a opere letterarie quale, ad esempio, Woody di Federico Baccomo dove tutta la narrazione è affidata alla voce squillante del cagnolino.
Lettere dal mio gatto, romanzo epistolare di Helen Hunt Jackson uscito nel 1879, inaugura questa felice tradizione di dare voce agli animali. Ma la voce di Micina (Pussy, in originale) che scrive alla sua padroncina partita per le vacanze è quanto di più lontano da un gatto potremmo mai immaginare.

«La burrasca è arrivata così. Con uno schiocco di dita»: nella Norvegia gelata del '600, con il romanzo storico di Kiran Millwood Hargrave

Vardø. Dopo la tempesta
di Kiran Millwood Hargrave
Neri Pozza, luglio 2020

Traduzione di L. Prandino

pp. 336
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Maren ha conosciuto le reti prima ancora di conoscere il dolore, le intemperie prima di conoscere l'amore. 

Una burrasca improvvisa, dal nulla, può essere la rovina per un piccolo paese sulle coste della Norvegia: nel 1617 le donne di Vardø assistono impotenti alla scomparsa di quaranta dei loro uomini, in una tempesta spaventosa e distruttrice, degna di un prodigio. Che sia stata forse una vendetta divina? Quel che è certo è che arriveranno tempi duri, e c'è chi come Maren resta annichilita vicino alla madre, che si è chiusa in un pesante silenzio, e alla cognata incinta, Diinna. Hanno perso in pochi istanti il capofamiglia, Erik (fratello di Maren e sposo di Diinna) e Dag (promesso sposo di Maren). Recuperare i loro corpi non basta: alle donne si impone uno sforzo ulteriore, ovvero quello di conservare i cadaveri degli uomini nelle rimesse o addirittura in casa, in attesa che l'inverno ghiacciato passi e la primavera permetta di scavare tombe dove seppellire i corpi. E subito si pone un'altra questione: ora chi andrà a caccia di pesce sulle imbarcazioni rimaste? Kirsten, che ha perso il marito, non si perde d'animo: è lei a convincere le donne a uscire sul peschereccio con lei e a pescare, adottando le tecniche che - grazie a Dio! - il defunto marito le aveva insegnato. Non le importa di dover indossare i pantaloni, e di suscitare così lo sdegno del pastore e delle donne più devote: si tratta di aiutare le sue compaesane a sopravvivere! 
Maren si chiede se anche le altre si sentano come lei: vincolate a quel posto, adesso più che mai. Balena o no, segni o no. Maren ha assistito alla morte di quaranta uomini. Adesso qualcosa in lei è legato a quella terra, legato come in una trappola. 
Per aiutare i loro uomini, poi, a traghettare nell'aldilà, sono in tante a chiedere le rune e qualche rituale che preservi le loro anime: Diinna, di origine sàmi, è ben lieta di aiutare le donne che l'hanno accolta in paese.

Un Grand Tour per la nuova eroina di Igiaba Scego



La linea del colore
di Igiaba Scego
Bompiani, 2020

pp. 384
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


L’ultimo libro di Igiaba Scego è uscito nel momento perfetto. Sembra impossibile, dato che è stato pubblicato circa un mese prima prima del lockdown, in un momento non certo propizio per tutta la filiera del libro e della sua promozione. Eppure così è, perché La linea del colore non solo riprende, sviluppandoli ancor più a fondo, i temi tipici della scrittura di Scego – la questione identitaria per i neri italiani, la rimozione del nostro passato coloniale, la violenza sui corpi e in particolare sui corpi delle donne, la città di Roma – ma ne aggiunge uno nuovo: la rappresentazione dei neri e delle nere – nonché la loro presenza autoriale – nella storia dell’arte italiana. Proprio nelle settimane in cui ci si chiedeva (e speriamo ce lo si chieda ancora) se sono arte le statue e i simboli che celebrano uomini razzisti e scelte razziste, se fosse giusto mantenerli, c’era già sugli scaffali delle librerie la storia di una donna nera statunitense che nell’Ottocento viene in Italia per inseguire il suo sogno di diventare un’artista. E per inseguire quel sogno studia, fa sacrifici. Non si sposa e non mette su famiglia, perché è ambiziosa e vuole fare carriera, e nell’Ottocento i due desideri potevano coincidere molto meno di quanto già poco possano oggi.

L'Occidente non poteva che salvarsi nell'isola più a ovest

Come gli irlandesi salvarono la civiltà (How The Irish Saved Civilization)
di Thomas Cahill
Fazi Editore (1997)

traduzione di Catherine McGilvray

pp. 250
Annunciata ristampa. Attualmente non in commercio


È stata annunciata la ristampa, sempre da parte di Fazi, di questo volume che all’epoca della prima uscita fece innamorare di una nazione: l’Irlanda. I cui monaci, dal V secolo in avanti, eressero un centinaio di monasteri dalla Scozia al sud Italia. Un’impresa titanica. Ma compiuta con una tenacia inaudita. Se lo spunto vi solletica, in attesa di ritrovarlo in libreria, all’epoca servivano 28.000 lire, c’è sempre la buona vecchia biblioteca.
La prima immagine proposta è quella di un inverno di ghiaccio, anno 406, quando Reno e Danubio sono un’autostrada scivolosa ma percorribile per i popoli barbari. Il limes imperiale viene definitivamente violato. Il mondo così com’è stato per secoli diventa altro. La romanità residua è personificata da due figure, entrambi cristiani, letteralmente all’opposto: Ausonio, poetastro opportunista e mollaccione, Agostino di Ippona, lacerato dai dubbi, consumato dalle giovanili dissipatezze e riscattatosi in Platone prima e in Cristo poi. Insieme a Paolo di Tarso e al principe dell’apologetica Tertulliano, è questo vescovo africano il vero fondatore del cristianesimo.

«Il ricordo è prendere l'esistenza al contrario. Ridere là dove si dovrebbe piangere»: "Il tempo che faceva" di Aldo Boraschi

Il tempo che faceva
di Aldo Boraschi
AltreVoci, 2020

pp. 192
€ 15,90 (cartaceo)
€ 6,93 (ebook)

L'impressione che si ha guardando quella coppia intenta a mantecare il gelato non è quella che stiano salvando delle tradizioni secolari, ma un modo di pensare il mondo. Stanno restaurando un tempo in cui il tempo non conta, ma essenziale è il risultato finale. (p. 82)
Se avete abitato anche voi in un paesino, saprete bene quante storie vivono e sopravvivono al tempo, quanti personaggi riprendono vita con i loro soprannomi o le loro strambe abitudini, quanti volti non smetteranno di essere ricordati dopo la loro scomparsa, quante dicerie resteranno attaccate alle schiene delle persone senza rimedio. Senzaunnome, diviso tra una zona lido e una arroccata sui monti, è l'ambiente in cui camminano, agiscono, vivono, amano, soffrono, riprendono ad amare i personaggi di Il tempo che faceva, il romanzo di Aldo Boraschi appena uscito per la neonata casa editrice AltreVoci. 
Le vie di Senzaunnome sono state percorse tante volte da Gelinda Rustichetti, prima che la donna scegliesse di chiudere la sua gelateria per trasferirsi in una casa di riposo. Ha visto gli anni passarle davanti tra una conca di gelato e un'altra, ha portato un po' di dolcezza ai suoi compaesani, abituandosi a condividere un pranzo con uno e una chiacchiera con l'altro. Dalla sua vetrina privilegiata, Gelinda ha partecipato all'esistenza di Senzaunnome difendendo tuttavia la sua vita privata dalle maldicenze. Anche in casa di riposo, adesso, la signora Gelinda non ha certo smesso di interessarsi di ciò che accade nel suo paese, né ha disimparato a sopportare le stramberie degli altri: infatti condivide la camera con la signora Pesce, prozia di un importante rappresentante di un partito xenofobo:
"La vita è proprio strana", suole dire Gelinda parlando della sua compagna di stanza. "D'improvviso ti trovi a condividere la tavola e il bagno con chi, fino a ieri, nemmeno ti salutava. Credo che sia una prerogativa delle persone sole sapersi trovare. Qualcuno getta funi invisibili intorno alle persone e le fa avvicinare", chiosa. (p. 10)

Viaggio lungo i tre piani della psiche umana: il commovente romanzo di Eshkol Nevo



Tre piani
di Eshkol Nevo
Neri Pozza, 2017

pp. 253
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Titolo originale: Shalosh Komot
Traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi

Vedi il libro su Amazon

... e ho cominciato a piangere e fra un singhiozzo e l'altro ho provato a spiegare, non so cosa mi sta succedendo, nell'anima, c'è quella cosa che tiene uniti tutti i pezzi, la cosa che ricorda, che guida, che organizza, da cui tutto viene e a cui tutto va, un'essenza, quella cosa che è noi, una specie di spina dorsale ma non di ossa, è di sentimenti, capisci? (p. 150)
Ho letto Tre piani di Eshkol Nevo in poco più di ventiquattro ore. 
Nel momento in cui l'ho finito ho assaporato la (rara) sensazione di sentirmi completamente sopraffatta da una storia e dai suoi personaggi, talmente sopraffatta che la lettura sembrava aver preso una sua direzione, autonoma rispetto a me. Sfuggendo alle incombenti gabbie del tempo esteriore, questo libro rispondeva alle necessità di un tempo tutto interiore che ha definitivamente prevalso sull'altro.
Nei giorni successivi mi sono presa più tempo per rileggere quelli che per me sono alcuni dei punti cruciali del romanzo. Li ho marchiati rapidamente - con una piccola X segnata a matita - senza pensarci troppo. L'ho fatto per non dimenticarmi, un domani, i passi che hanno acceso il mio istinto quando avevo trentadue anni. Perché sono sicura che rileggendolo tra anni le X andrebbero in punti diversi; probabilmente dovrò scegliere un diverso colore per differenziarle.

Questo preambolo per dire che Tre piani è un libro che genera o attiva qualcosa nell'anima.
Una connessione, un nodo, un sordo rumore che ha sede da qualche parte, chissà dove.
Eshkol Nevo, voce di spicco della letteratura israeliana contemporanea (che ha trovato consacrazione sulla scena internazionale con romanzi come La simmetria dei desideri e Nostalgia), ha dato corpo a una brillante intuizione narrativa: scrivere tre storie che incarnano le tre istante intrapsichiche freudiane di Es, Io e Super-Io.

#PagineCritiche - "Il senso della fine", nonché il senso della letteratura: il capolavoro di critica di Frank Kermode rinasce in una nuova edizione

 
Il senso della fine
di Frank Kermode
Il Saggiatore, luglio 2020

1^ edizione: 1967
Traduzione di Giorgio Montefoschi e Roberta Zuppet

pp. 240
€ 26 (cartaceo) 
€ 12,99 (ebook)


Le premesse di questo saggio di Frank Kermode, da molti considerato il suo capolavoro, sono a dir poco sfidanti. La domanda che si pone non è facile, così come le risposte che cerca. Il compito del critico, secondo Kermode, è un compito “minore” rispetto a quello dei poeti, che «ci aiutano a dare un senso alla nostra vita» (p. 9); è semplicemente «la spiegazione dei modi con cui noi cerchiamo di dare un senso alla nostra vita» (p. 9) , racchiudendo in quel “noi” tutti i lettori e gli scrittori di ogni epoca. Come incipit, non c’è male. 

Entrare nell'età inquieta: "Sirley" di Elisa Amoruso

Sirley
di Elisa Amoruso
Fandango, 2020

pp. 160 
€ 15,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Per Nina le cose improvvisamente si sono fatte difficili: ha undici anni e deve ricominciare tutto da capo. I suoi genitori hanno deciso di trasferirsi all’improvviso, senza dare spiegazioni, dalla loro casa nel centro di Roma a un quartiere periferico, dove si assiepano palazzoni e dove non conoscono nessuno. Come se non bastasse, continuano a litigare: la mamma prigioniera della sua rigidità e il papà eterno bambino che sfugge dalle pareti domestiche ogni volta che può. E poi c’è Leo, il fratellino con disturbi del comportamento, che quando si arrabbia ha reazioni inconsulte e spesso di ferisce da solo, e a cui troppo spesso è lei a dover badare. In mezzo ai conflitti e alle novità, Nina fa molta fatica a capire e a capirsi, così come a esprimere il proprio malessere, prigioniera delle aspettative degli altri e del suo ruolo di brava figlia e sorella. Abituata a tenere tutto sotto controllo, a prendersi anche responsabilità che non le spetterebbero, Nina non riesce a dare un proprio “ritmo” all’esistenza (anche perché l’asma che la affligge la costringe a evitare gli eccessi):
Odio la mia asma. Ce l’ho da sempre, ci sono nata, eppure non mi rassegno. Non posso correre davvero nemmeno a danza, non posso emozionarmi troppo che mi si blocca il respiro e ogni movimento diventa impossibile, devo fermarmi, andare piano. Detesto dover dare un altro ritmo alle cose belle della vita. (p. 30)

#CriticARTe - Francisco De Goya, "Cuaderno C": una testimonianza della situazione socio-culturale del suo tempo

Francisco De Goya, Cuaderno C
a cura di José Manuel Matilla e Museo Nazionale del Prado
Museo del Prado/ Skira, 2020

Multilingue
Formato: 16,5 x 25,5 cm, cartonato
pp. 306, 130 immagini
€ 40,00 (cartaceo)


In occasione del bicentenario del Museo del Prado, è stata allestita una mostra dedicata all’artista spagnolo Francisco de Goya y Lucientes (Zaragoza, 1746 ‒ Bourdeaux, 1828). L’esposizione, curata dal responsabile capo della sezione disegni e stampa del Prado José Manuel Matilla, in collaborazione con Manuela Mena, esperta di Goya, ha presentato al pubblico una rassegna di oltre 300 disegni originali dell’artista, per la prima volta riuniti e provenienti da collezioni pubbliche, private, e soprattutto dal Museo stesso. Raggruppate in otto quaderni, dalla A alla H, le opere di Goya presentate all’interno della mostra “Voluntad me sobra” (ossia “non mi resta che la volontà”) rappresentano una testimonianza unica della situazione socio-culturale del tempo. I disegni, che vengono esposti solo per brevi periodi al pubblico, dato l’impatto degli agenti atmosferici sulla conservazione dell’opera su carta, si legano all’espressività dell’intera produzione pittorica dell’artista, talvolta anticipandone le tematiche.

La violenza come unica regola di vita: "Le brigate", il primo romanzo di Ariel Luppino

Le brigate
di Ariel Luppino
Edizioni Arcoiris, 2020

Traduzione di Francesco Verde

pp. 168
€ 13



Le brigate (Edizioni Arcoiris) è il primo romanzo di Ariel Luppino, un autore argentino che affida il suo esordio a un testo durissimo e che mette a disagio in ogni pagina, ma che è in grado di mostrare le potenzialità di uno scrittore che si è appropriato di modelli letterari titanici, li ha fatti propri e li ha estrinsecati in un’opera personale ma inserita perfettamente nel filone della letteratura sudamericana contemporanea che sta dicendo tanto e che molto avrà ancora da dire. Il suo è un progetto che, lungi dall’essere un semplice esperimento letterario, incarna piuttosto l'immagine del mondo preconcetto e preesistente nella mente dell'autore: la narrazione di Luppino, culto della scrittura pura, genera un universo nel cui nucleo una certa realtà non letteraria sembra riposare.

#LibriSottoLOmbrellone - Ferragosto? Libri da godersi sotto il solleone: i nostri consigli!



Foto di Debora Lambruschini
Buon Ferragosto!
Come ogni anno non vi lasciamo soli neanche oggi, e anzi abbiamo pensato di condividere con voi una puntata speciale di #LibriSottoLOmbrellone con tanti consigli di lettura per chi anche oggi vuole godersi qualche pagina.
Oltre al motivo per cui leggere il libro e il lettore ideale a cui è indirizzata l'opera, inseriamo il link alla recensione per approfondire il consiglio, se vi abbiamo convinti.

E intanto cin-cin e buona festa!
La Redazione

***


Cecilia consiglia: 
"I peggiori bambini del mondo 1, 2 e 3" di David Walliams (L'ippocampo)
Perché: perché a Ferragosto c'è qualcosa di peggio di una giornata in spiaggia, in piscina, in montagna, al lago, al parco, in città, in campagna (insomma dovunque!) funestata dalla presenza di bambini pestiferi proprio a pochi metri di sopportazione? La trilogia di David Walliams sui minorenni più ingestibili del creato può essere un buon training per allenare la propria indulgenza in caso di incontri particolarmente nefasti nel dì di festa, e finanche per ridimensionare la propria severità nei confronti di un'eventuale prole: a confronto con quelli raccontati dallo scrittore best seller (e illustrati da Tony Ross) i vostri figli o nipoti vi sembreranno delle autentiche presenze angeliche! 
 A chi: a chi proprio non ha pazienza con i più piccoli e vive con insofferenza ogni minimo e pur legittimo capriccio; a chi vuole inviare un messaggio subliminale (ma non troppo) a una coppia di parenti o di amici che sta crescendo i propri eredi con eccessivo lassismo; a chi vuole fare pace con la parte più infantile di sé o ha addirittura bisogno di tirarla finalmente fuori e lasciare che si esprima in tutto il suo caos (possibilmente creativo e non distruttivo come quello delle storie in esame!).


Claudia consiglia: 
"Cara Ijeawele" di Chimamanda Ngozi Adichie (Einaudi)
Perché: È un libriccino che condensa in sole 90 pagine i principali punti della questione femminile. Una lettera intima, un mini pamphlet su come crescere le bambine affinché reclamino il posto che spetta loro nel mondo, senza paura e senza inadeguatezza, ma con coscienza e coraggio. 
A chi: In primis ai neo genitori (non solo di bambine), perché quello che li aspetta è un compito cruciale. Ma poi a noi tutti, perché è ancora lunga la strada da fare per poterci dire davvero liberi.


Debora consiglia: 
"Il capofamiglia" di Compton Burnett (Fazi)
Perché: Ferragosto in famiglia? Se le domande inopportune della zia o la lasagna della suocera risultano un po' indigeste, specie con quaranta gradi all'ombra, leggere di famiglie ben più disfunzionali della propria potrebbe essere la salvezza! E ne Il capofamiglia, Ivy Compton Burnett incendia la pagina con una storia dal dialogo fitto fitto in equilibrio fra commedia e tragedia per raccontare segreti e meschinità della famiglia guidata dal volubile e prepotente patriarca Duncan Edgeworth. 
A chi: cerca una storia dall'ironia pungente, ricchissima di dettagli e intrighi ma sempre ben celati dietro l'apparente rispettabilità. Perché l'unica cosa che conta sono le convenzioni.


Giulia consiglia: 
"Non sparate sul regista" di Simone Cerri (Las Vegas Edizioni) 
Perché: quando abbiamo bisogno di rilassarci, ci rivolgiamo a prodotti dal facile consumo. I film d'azione all'americana, nudi e puri, sono i massimi rappresentati dello svago senza impegno. Il piccolo e ironico Morandini di Simone Cerri esamina e disseziona tutti i cliché situazionali e di personaggi che si possono trovare al cinema: il tassista che non riesce a evitare il traffico, il poliziotto che muore proprio il giorno prima di andare in pensione, l'eroe che non riesce mai a presenziare agli eventi sportivi del figlio e il barista saggio che al comando di “fammelo doppio” è in grado di elaborare perle di grande saggezza sono solo alcuni degli esempi che vi troverete davanti. A chi: a chi continua a domandarsi perché un cattivo debba fare una lunghissima tirata anziché sparare e a chi si chiede come mai le auto delle persone in fuga (soprattutto donne) non partono mai quando serve.


Gloria consiglia:
"Vie di fuga" di Lucrezia Sarnari (Rizzoli)
Perché: dai, non vi siete mai chiesti, almeno una volta, che cosa accadrebbe alla vostra vita se i social, il web, i telefoni smettessero di funzionare e non poteste più raggiungere al volo le persone che conoscete? Se la caverebbero meglio gli adolescenti o gli adulti? Nel romanzo di Lucrezia Sarnari trovate alcune risposte possibili: all'improvviso, una zona d'Italia resta "al buio", probabilmente per una tempesta magnetica. La protagonista, Giulia, si rende improvvisamente conto che la sua storia clandestina con Carlo non vive senza il telefono: non sa dove abita con precisione, non sa in quale altro modo contattarlo, e viceversa. Ma c'è anche chi spera che internet non torni prima di aver trovato una soluzione: Stefano, poche ore prima che la rete cadesse, ha mandato agli amici una fotografia compromettente di una ragazza che gli piace, Camilla, e adesso non sa che fare... 
A chi: a chi ama i romanzi che con la leggerezza di una commedia ci fanno invece riflettere sui nostri vizi, sulle dipendenze che facciamo fatica ad ammettere ma alle quali siamo poco disposti a rinunciare! 


Marta consiglia: 
"Gli occhiali d'oro" di Giorgio Bassani (Feltrinelli)
Perché: nella Ferrara di Bassani che rispecchia un'epoca intera ha luogo una storia da leggere e rileggere attraverso i tempi, una storia di pregiudizi e oppressioni, che continua a parlarci senza mai terminare le cose da dire. 
A chi: perfetto per chi cerca una lettura breve ma densa, che colpisce come un fulmine, impossibile da metter giù durante la lettura e impossibile da dimenticare dopo. 


Sabrina consiglia: 
"Un'estate in montagna" di Elizabeth von Arnim (Fazi)
 Perché: non c'è niente di più piacevole che passare i pigri giorni del Ferragosto facendosi cullare da una scrittura cesellata e intelligente. Sempreché non si venga coinvolti in grigliate, gite al mare o pranzi familiari, tutte attività che, forse in questo anno così strano e doloroso, risultano meno scontate del solito. Allora, se siete tra i monti o anche nel fresco condizionato del vostro salotto, leggere questo libro della von Arnim è un percorso di assoluto piacere. Elizabeth riapre la sua casa di montagna, dopo cinque anni che non vi mette piede. Non cinque anni qualsiasi, ma quelli che hanno visto il mondo dilaniarsi nella Grande Guerra. Vuole solo dimenticare, curare la sua anima e rimettere a posto i pezzi del puzzle della sua vita. 
A chi: a chi ha la fortuna di trascorrere quella che un tempo si chiamava "la villeggiatura" al mare o in montagna e sperimenta quella felice condizione di chi può permettersi di pensare al ritorno a casa, tra l'usate cose, come una prospettiva per nulla immediata. Si immedesimerà nelle giornate di Elizabeth, "piene zeppe di una monotonia sconfinata", che è tutt'altro che negativa, anzi è un balsamo per il cuore. E anche a chi invece questa fortuna non ce l'ha, ma vuole regalarsi una lettura intelligente e al contempo divertente e garbata. Pur se il lavoro richiama all'ordine appena dopo Ferragosto.