#IlSalotto - Intervista a Isabella Pinto, autrice di "Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività"




In occasione della pubblicazione di Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività, basato sulla ricerca accademica di dottorato della Dr. Isabella Pinto, Elena Arzani ha intervistato l'autrice, approfondendo le tematiche di straordinario interesse culturale e valore contemporaneo.
Il libro di Pinto è il primo testo a livello nazionale, che si focalizza interamente sullo studio dell'opera di Elena Ferrante, portando, a buon titolo, il lavoro della scrittrice in ambito Universitario e qui trovate la recensione


EA: Questo libro è la rielaborazione della sua ricerca dottorale, intitolata Poetiche e politiche della scrittura di sé nell’opera di Elena Ferrante, la prima mai condotta in Italia su questo argomento. Nonostante aleggi il mistero sulla vera identità della scrittrice, Ferrante è considerata come uno dei 100 personaggi più influenti al mondo. Quali aspetti dell’opera di Ferrante hanno maggiormente ispirato e motivato la sua ricerca?

IP: Grazie per questa domanda iniziale, che mi permette di fare un piccolo excursus su come sono arrivata a lavorare sull’opera di Elena Ferrante. Fin dalla prima lettura, suggerita da un’amica drammaturga conosciuta al Teatro Valle Occupato, Gaia Grosso, avvenuta prima del successo globale della tetralogia, mi ha colpita il modo di creare storie a partire da soggettività altre rispetto i molteplici canoni con cui veniamo educati. Oltrecanone, dice la direttora di Leggendaria Anna Maria Crispino, un concetto che racconta l’enorme lavoro che la critica letteraria femminista italiana ha fatto e continua a fare da una trentina di anni a questa parte, abitando e creando luoghi di resistenza posti spesso, troppo spesso, ai margini dell’accademia. Grazie all’opera di Elena Ferrante forse oggi questo discorso può essere esteso transdisciplinarmente, diventando Oltrecanoni, laddove la soggettività è legata non solo alle ontologie, ma anche alle epistemologie, che insieme ci permettono di conoscere il chi siamo. Narrazione e soggettività sono elementi intrecciati in un rapporto onto-epistemologico, ovvero politico e poetico a un tempo, dove l’invenzione di tecniche narrative è ingarbugliata con le forme di vita. Quando dico “politica” mi riferisco alla polis e a come è stata ripensata da autrici come Hannah Arendt, o dai movimenti da cui sono emersi altre soggettività altre rispetto l’esclusività della postura rivoluzionaria assegnata ai soggetti coinvolti nella dialettica hegeliana. Quando dico “poetica” mi riferisco invece alla “scrittura delle emozioni” di Ferrante, una scrittura corporale, incarnata, ma anche depersonalizzata, caratterizzata dalla “frantumaglia” e dalla “smarginatura”, un modo di esprimere il desiderio di altri modi di vivere e di stare insieme, di creare concatenamenti, su questo sono molto vicina a Gilles Deleuze e Felix Guattari - dove i mondi narrativi vengono pensati, immaginati, sperimentati a partire da un altro punto di vista rispetto a quello egemone. 



A quale pubblico si rivolge il suo libro e quali finalità si pone la sua indagine?

Il libro si rivolge principalmente a tre tipologie di lettrici e lettori. Chi ha letto almeno un testo di Elena Ferrante, chi si interessa di politiche e/o filosofie femministe, transfemministe o queer, e chi ama interrogarsi sui meccanismi teorici e critici riguardo la letteratura. Nonostante Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività sia un saggio accademico, il tentativo che ho fatto è stato quello di creare un testo accessibile anche se specialistico, facendo della narrativa di Ferrante il terreno comune da cui partire o a cui arrivare per inoltrarci sia in discorsi di teoria della letteratura, che di filosofie femministe, transfemministe e queer. Rendendo accessibili gli strumenti dello storytelling ferrantiano, uno degli obiettivi espliciti di questo volume è quello di tessere alleanze tra questi tre ambiti di lettrici e lettori, provando a stimolare da un lato una molteplicità di processi di soggettivazione, e dall’altro nuove visioni politiche, quindi nuove modalità dello stare insieme tra diversi, usando non solo il pensiero razionale e argomentativo ma anche il pensiero e le pratiche immaginifiche, visionarie, fantastiche.



Citando un passaggio del suo libro: “la “riscrittura dei miti” riemerge per rinarrare la soggettività quale elemento determinante per le collettività in lotta, trasformando la funzione mitopoietica in processo di soggettivazione”. Un concetto molto affascinante, che trovo particolarmente attuale, soprattutto se applicato a ciò che sta accadendo nel mondo in questi giorni. Potrebbe estendere il discorso?

Questa domanda si ricollega perfettamente a quanto dicevo prima, ovvero il fatto che ci sono tecniche narrative, inventate e usate spesso nella cosiddetta “scrittura femminile”, che vanno lette ridimensionando l’egemonia delle teorie del materialismo storico applicate alla letteratura, che hanno avuto molti pregi ma anche alcuni difetti, come quello di ordinare il mondo in dicotomie oppositive, in questo caso la narrazione mitologica opposta alla narrazione storica. Ricostruendo una genealogia eterogenea del postmoderno minore, e arrivando fino alle sperimentazioni di Luther Blissett e Wu Ming - e facendo ad esempio riemergere le connessioni con il lavoro di Furio Jesi -, nel libro mostro come anche i femminismi, forse per primi, hanno usato la riscrittura mitologica come elemento funzionale alla produzione di nuove soggettività, come testimoniano, ad esempio, i lavori di Luce Irigaray, Hélène Cixous, Christa Wolf, Luisa Muraro, Adriana Cavarero, Angela Putino, Lina Mangiacapre. Oggi questo stesso processo lo vediamo riemergere sia nella scrittura di Elena Ferrante, la quale “storicizza le genealogie femminili” cogliendo una innovativa linea di fuga delle soggettività, all’intersezione tra femminismo, transfemminismo e queer, sia - per fare un esempio solo apparentemente opposto - nell’afrofuturismo femminista, come testimoniano i romanzi di Nnedi Okorafor, la quale recupera e riscrive le mitologie animiste del continente africano per dotare di narrazioni archetipiche l’emersione di nuove soggettività - e in questo senso potremmo tracciare anche una linea di connessione con lo xenofemminismo e il lavoro di Felix Guattari.
Quando nel libro parlo di “storicizzazione delle genealogie femminili” mi riferisco a un particolare posizionamento di Ferrante, dal respiro planetario, secondo cui non solo recupera e riscrive le versioni minori di alcune delle più importanti mitologie occidentali, come il mito di Demetra e Kore - come rilevato da Tiziana de Rogatis -, il mito di Medea, o il mito di Leda e Zeus, ma anche storicizza il lavoro di recupero e riscrittura fatto dal “femminismo emancipazionista”, dal “femminismo radicale”, dal “femminismo della differenza” e dal “cyberfemminismo”, mettendo in scena soggettività complesse e articolate, in cui c’è spazio anche per l’abietto, per la rabbia, per la ferinità, per la smarginatura dei sessi, e quindi per altre onto-epistemologie legate alle lotte e agli immaginari queer e transfemministi. 
Inoltre, nell’ultimo romanzo, La vita bugiarda degli adulti, c’è un notevole lavoro di riscrittura delle mitologie legate alla figura della strega. Ferrante assembla questa figurazione recuperando da un lato l’immaginario misconosciuto di Menzogna e Sortilegio di Elsa Morante, e dall’altro unendo ulteriori narrazioni mitologiche, come quelle contenute in alcuni passaggi di L’Orlando Furioso di Ludovico Arisoto, e così facendo sperimenta una crasi di diversi miti, fondendoli altresì con il sapere politico femminista - e qui mi riferisco al lavoro di Silvia Federici, Calibano e la strega -, e a un interessantissimo sguardo “meridionale”, direi glocale, per sottolineare come gli affreschi di Napoli, molto presenti i tutte le sue narrazioni, raccontino in realtà di un Sud Globale, terreno di vecchi e nuovi colonialismi, ma anche vecchie e nuove resistenze. 


Procedendo nella lettura, offre uno spunto di profonda riflessione sull’identità della donna, che Ferrante libera dagli stereotipi, restituendole una complessità di interpretazioni, “alla soggettività femminile viene consentito di aderire alle figure immaginate per loro dall’ordine simbolico patriarcale, trovandosi costrette a riconoscersi nell’immaginario di chi le ha oppresse per millenni”. Intende dire che la donna per affermare la propria identità, deve compiere un atto di immaginazione e re-invenzione di sé stessa?

In un certo senso sì, intendo dire proprio questo. Come ci insegnano i femminismi, l’ordine simbolico patriarcale ha definito tanto il femminile quanto il maschile, riducendo anche qui il mondo a due emisferi opposti e autoescludenti l’un l’altro. E dunque il femminile che emerge dalla cultura “tradizionale” occidentale è un femminile creato in funzione del soggetto neutro universale, che neutro non è affatto, tantomeno universale. Da qui affiora un femminile ancillare, il quale viene raccontato attraverso le figure della madre, della moglie, della figlia, della fidanzata, della sorella, della musa ispiratrice dell’eroe della storia, ovvero dell’uomo, genio creatore, del principe azzurro di colui che guarda, che racconta, ma che non è visto da nessuno, è neutro e universale. Oggi è diventato nuovamente importante decostruire questo sguardo disincarnato, tanto negli ambiti artistici quanto nelle discipline, nella ricerca e nella politica. Si guarda e si racconta sempre da un certo punto di vista, da un posizionamento nel mondo. Tuttavia, proprio come avviene nell’opera di Ferrante, non possiamo fermarci al momento decostruttivo, di critica dell’esistente, poiché oltre ad esso è necessario impegnarsi e prestare attenzione al momento creativo, costruttivo, di reinvenzione di altri modi di stare al mondo del femminile, ma anche del maschile e di tutta la gamma di sessi e generi che non coincidono con queste due polarità. Questo non vuol dire, ad esempio, non raccontare la figura della madre, ma raccontarla fuori dagli schemi patriarcali, proprio come fa Ferrante, e prima di lei tante altre, tra cui Elsa Morante. Ecco, in questa re-visione, e grazie a queste scrittrici, ci rendiamo conto che il rapporto che ci lega a chi ci ha dato la vita, indipendentemente dal sesso o dall’identità di genere con cui ci identifichiamo, è complesso, è denso di significati, è potente e allo stesso tempo può essere distruttivo. Ne è un esempio l’episodio di Storia del nuovo cognome in cui Lila, insieme all’aiuto contraddittorio di Elena, reinventa la gigantografia di sé stessa che i fratelli Solara le hanno imposto di appendere all’interno del negozio di scarpe di Piazza dei Martiri. Una foto che fa a pezzi l’immagine di Lila decisa dal maschile, diventando opera d’arte ma che finisce per bruciare a causa di un’autocombustione quasi stregata, a sottolineare la ferinità e la rabbia distruttiva racchiusa in questo processo. Quindi ecco, ancora una volta, la vita messa in scena da Ferrante è una vita complessa, allergica ai dualismi oppositivi e alle narrazioni polarizzate, fosse anche quelle che raccontano di una superiorità del femminile. A me è interessato cogliere, nei testi di Elena Ferrante, non nuove e migliori gerarchie, bensì la complessità che ridefinisce tutto ciò che sappiamo sulle soggettività, soprattutto quelle che non si identificano storicamente con l’Uomo vitruviano.



In un periodo storico dominato dall’eccessiva esposizione mediatica, dai selfie alla celebrazione dell’apparenza ed apparire sui social networks, Ferrante oppone una performance autoriale dell’assenza. Come è possibile costruire una fiducia nel lettore, mantenendo l’anonimato? A quali conclusioni è giunta la sua ricerca?

L’esperimento autoriale di Elena Ferrante è estremamente importante nel panorama contemporaneo. 
In quest’epoca è impossibile non parlare di sé, viviamo costantemente in un ordine del discorso testimoniale, e su questo credo abbia molto influito, oltre alla torsione individualizzante dei social-media, anche la massiccia presenza della cronaca nera nei mass-media, elemento di cui già si era accorto Roberto Saviano con Gomorra. In un certo senso Ferrante si inserisce su questo solco, ma per metterlo in questione, per farlo esplodere, per farci vedere tutto l’artificio delle poetiche testimoniali, o almeno è quello che ci ho visto io. In un’epoca di crisi abbiamo bisogno di nuove narrazioni, tuttavia non crediamo più agli organi ufficiali, addirittura agli scienziati (come abbiamo visto durante la pandemia), bensì diamo credito a questa o quella singola personalità, c’è stata una sorta di individualizzazione dell’ordine del discorso, questo anche a seguito della crisi delle ideologie, anche dette con Lyotard “grandi narrazioni”.
In questo contesto, l’opera di Ferrante, così come la sua sperimentazione autoriale, apre una fase inedita della produzione letteraria, non più postmoderna e non direi neanche ipermoderna, bensì postumana. Con questo termine mi riferisco al postumano critico di cui parlano Rosi Braidotti, Karen Barad, Francesca Ferrando, ma anche Frantz Fanon, Aime Cesaire e Hortense Spillers  (solo per citarne alcuni) che ci aiuta ad andare oltre le visioni univoche del postmoderno italiano - e di cui un’importante ricostruzione è stata fatta da Monica Jansen -, per comprendere in modo diverso il cosiddetto “ritorno alla realtà”. Ferrante infatti riesce a oltrepassare anche l’ennesimo dualismo creato dal pensiero binario, quello che suddivide questo tipo di scritture in “scritture del trauma” e “scritture di impegno civile”. L’opera di Ferrante è entrambe le cose, è traumatica e resistente, è postumana perché mette insieme “femminismi anche diversi tra loro”, creando narrazioni sia moderne che postmoderne, e dunque facendo saltare questa opposizione, in direzione di un continuum “realfinzionale” postumano.
Di questa meccanica fa parte anche la scelta dell’anonimato, elemento di coerenza straordinaria della nostra autrice, che dura dal 1992, anno di pubblicazione del suo primo romanzo, L’amore molesto, inserendosi all’interno di una doppia tradizione, da un lato il posizionamento eccentrico riservato storicamente alle voci femminili e dall’altro il desiderio di reinvenzione continua della propria immagine d’autore. Unendo un lavoro sulla funzione-autore, sull’autorialismo e sulla scrittura come “cura di sé”, Ferrante ha creato nel tempo - e con l’aiuto almeno di Sandra Ozzola, come possiamo apprezzare in La frantumaglia -, uno spazio di assenza altamente generativo, sia in termini dialogici, che in termini di invenzione artistica. Leggendo contemporaneamente i suoi scritti di finzionale “non-fiction” e lo sviluppo dell’Amica Geniale, fino al suo culmine in Storia della bambina perduta, vediamo come Elena Ferrante crei volontariamente uno spazio di assenza che riempie con la scrittura, arrivando a un nuovo patto con i lettori, che chiamo “fantasia di autofiction”. In questo modo Ferrante inventa uno spazio di assenza poetico e politico poiché da un lato riempie criticamente e creativamente lo spazio lasciato vuoto dalle “grandi narrazioni”con la propria raffinata scrittura - mix di letteratura alta e bassa, caratterizzata da un italiano standard e però modellato sulla sintassi del dialetto napoletano, che fa tesoro della serialità dei romanzi d’appendice, ma per deludere tutte le nostre aspettative e gli stereotipi attivati da quel tipo di forma, il tutto tanto per fare arrabbiare qualche critico - , dall’altro la sua assenza permette l’emersione di voci altre, che parlano anche “in sua vece”, svelando in realtà parti di mondo, e soggettività, lasciate inesplorate - un interessante esperimento pedagogico-performativo è quello che sta portando avanti Tony Allotta con il laboratorio “La Smarginatura”.

Il meccanismo della “fantasia di autofiction” ci permette altresì di vedere tutta la costruzione culturale di un punto di vista che si dice unico e individuale, raccontando il fatto che ciascun punto di vista si può costruire solo grazie alle storie di almeno un’altra persona; per citare un adagio femminista potremmo dire, “nel mondo di Elena Ferrante si è sempre almeno in due”. Per cui forse un insegnamento che possiamo ricavare dalla “fantasia di autofiction” è quello di mettere in questione l’individualità chiusa e autofondata, classicamente autopoietica, in favore di una soggettività molteplice e diffratta. In questo senso l’assenza di Ferrante diventa una possibilità offerta ai propri/e lettori/ci, a cui viene implicitamente chiesto di riempirla, altresì facendo emergere gli stereotipi, le credenze, i saperi con cui ciascuno legge. Liana Borghi, anni fa e rispetto ad altre autrici, parlava della dinamica di dis/identificazione innescata dalle pratiche della lettura e scrittura, da cui affiora tanto la soggettività di chi scrive, quanto la soggettività di chi legge. In questa dinamica, ri-vediamo la processualità del divenire, che Ferrante mette in scena anche contenutisticamente grazie allo sviluppo intrecciato di Elena e Lila, che negli altri romanzi è anche il rapporto madre-figlia, o nipote-zia, o bambina-bambola. 
Ridimensionando sia lo schema lacaniano dello specchio, sia lo schema irigayano dello speculum, nell’opera di Ferrante si dischiudono altre possibilità di divenire insieme, divenire-con direbbero Donna Haraway e Federica Timeto. Io ho approfondito la linea deleuziana femminista, con Rosi Braiodotti e l’autopoiesi spinoziana, ma arrivando ad accennare anche al processo di simpoiesi per come descritto da Donna Haraway in Chtulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, paesaggi teorici e pratici che condividono più di quanto si possa immaginare di primo acchito.


Quali elementi possiamo acquisire dall’opera di Elena Ferrante e perché, a suo avviso, è importante approfondire il lavoro di questa scrittrice?

Credo che ci siano molti elementi preziosi nell’opera di Ferrante, e che forse possono essere racchiusi dalle due parole-concetto, “frantumaglia” e “smarginatura”. Sono questi i due squarci, le due glossolalie, per ri-vedere la realtà, a partire da una risignificazione poetica e politica della violenza subita storicamente dalle soggettività femminili o socialmente femminilizzate. Soprattutto nel ciclo di L’amica geniale, c’è un recupero antiallegorico della narrazione storica come acquisizione degli atti, l’istruttoria, che a me sembra essere il recupero del racconto delle soggettività che sono state incluse ed escluse dalla Storia e, come ha mostrato Adalgisa Giorgio, è divenuta di conseguenza anche esclusione fisica dal linguaggio, dalla cultura, dalle istituzioni. Rivitalizzando il pensiero di Carla Lonzi e facendolo dialogare con la “filosofia della narrazione” di Adriana Cavarero e il Manifesto Cyborg di Donna Haraway, ho provato a mostrare come Ferrante costruisca delle narrazioni che raccontano una realtà fatta di corpi, di relazioni, di violenza, di traumi, di resistenze. Un groviglio politico e poetico, che con Denise Ferreira Da Silva possiamo chiamare poethico, poiché l’opera di Ferrante mette insieme immaginario (arte-letteratura), etica (responsabilità nei confronti del mondo), e politica (polis, quello che costruiamo e come ci muoviamo nella società e nel nostro mondo). 
In Elena Ferrante. Poetiche e politiche della soggettività è possibile apprezzare moltissimi elementi e invenzioni poethiche di Elena Ferrante, che ho ritenuto utile approfondire proprio per dispiegare le potenzialità trasformative e mobili della realtà. Unendo elementi di filosofia politica e di teoria della letteratura, i frutti della mia ricerca e dunque gli elementi che possiamo acquisire dall’opera di Elena Ferrante, possono essere sintetizzati in tre concetti-strumenti: la storicizzazione delle genealogie femminili, la fantasia di autofiction - di cui abbiamo già parlato ampiamente nelle precedenti domande -, e l’istanza narrativa che ho denominato “narratrice traduttrice”. Questo ultimo elemento è estremamente importante e apre, a mio avviso, un campo di sperimentazione letteraria all’altezza dei tempi. Nell’opera di Ferrante è possibile infatti rintracciare alcune dinamiche proprie del lavoro della traduttrice, come hanno potuto apprezzare anche Stiliana Milkova e Rebecca Falkoff, che concorrono a creare una inedita istanza narrativa, ovvero una forma inedita di “narratrice” - uno dei siti del potere dello storytelling -, che fa del racconto in prima persona un modo per diffrangere sé stessa e il mondo, un modo per cartografare le relazioni, la pluralità, la molteplicità da cui emergono le sue storie. 


Quali sono i suoi progetti per il futuro?

Essendo precaria non è facile immaginare il futuro in questo momento. Proverò a portare avanti alcuni progetti legati alla scrittura, negli ultimi mesi mi sono resa conto della potenza che può esprimere un libro cartaceo, che nel mio caso sta funzionando da connettore tra ambiti diversi della mia esistenza e che prima di esso difficilmente entravano in dialogo. Il contatto e il confronto con lettrici, lettori, attivisti e artisti è un’occasione preziosa per produrre saperi incarnati, scoprire nuove esperienze e forme di vita, dischiudere nuovi significati delle parole, direzioni polifoniche e polisemiche. Inoltre, grazie all’esperienza del Teatro Valle Occupato, che insieme ad altri ho contribuito a creare fin dalla sua ideazione, ho avuto la possibilità di acquisire saperi e sperimentare anche forme di scrittura più artistiche, arrivando a lavorare come dramaturg (figura alquanto misconosciuta qui in Italia) nella pièce teatrale di Silvio de Luca “Lila Esposito - Oggi Voglio Parlare”. 
Non posso d’altronde nascondere il fatto che mi piacerebbe molto continuare a fare ricerca all’interno dell’istituzione accademica, un percorso impervio e difficile, soprattutto in questo momento storico. Dopo l’approvazione della nefasta riforma Gelmini l’accademia è diventata un luogo ancora più impermeabile, il turn over è bloccato, l’antintellettualismo di stato ha svilito totalmente i saperi umanistici, contrapponendoli a quelli scientifici. La riforma Gelmini ha avuto altresì la terribile funzione di cancellare tutto ciò che di eccedente si creava nell’accademia e intorno all’accademia, rinforzando vecchi e nuovi baronati. Tuttavia, in questo desolante panorama ci sono alcuni luoghi di resistenza, uno di questi è quello del Master in Studi e Politiche dell’Università di Roma Tre, diretto da Federica Giardini, per cui ho coordinato dapprima il Modulo Arti e attualmente la Summer School Narrazioni, e di certo questo è un progetto che porterò avanti. Insomma, sono una persona che non demorde facilmente.

Intervista a cura di Elena Arzani