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The New York Stories: di inquietudini e crepe sulla facciata, nei racconti dell'autore più pubblicato dal New Yorker

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The New York Stories
di John O'Hara
Bompiani, giugno 2020

Traduzione di Maurizio Bartocci

pp. 444
€ 16 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Il jazz. L’alcool. I country club e i piccoli appartamenti di periferia. Broadway, o meglio, i suoi fantasmi. Il sesso. Le inquietudini. C’è il meglio della produzione breve di John O’Hara, autore imprescindibile per gli appassionati di racconti e narrativa statunitense, in questo bel volume uscito di recente per le edizioni Bompiani nell’attenta traduzione di Maurizio Bartocci. Trentadue racconti selezionati in una produzione letteraria molto vasta, che vanno dagli anni Trenta alla fine degli anni Settanta, tutti, come suggerisce il titolo, di ambientazione newyorkese.
L’edizione italiana riprende fedelmente quella curata da Steven Goldleaf nel 2013 per Penguin Random House ed è in effetti già all’edizione inglese che imputiamo qualche dubbio sulla scelta di ordinare i racconti non in ordine cronologico ma alfabetico, seguendo in questo il criterio adottato dallo stesso O’Hara nelle ultime raccolte pubblicate negli anni Sessanta, prima della sua scomparsa. Fortunatamente ogni racconto è seguito dall’anno di pubblicazione e per il lettore, quindi, è piuttosto facile ricostruire l’ordine cronologico per potersi immergere nella lettura e seguire l’evoluzione della scrittura di O’Hara, la ripresa di tematiche e spunti ricorrenti, i mutamenti della sensibilità letteraria e della scrittura, i cambiamenti della città stessa in cui le storie sono ambientate.
New York è il palcoscenico su cui si muovono gli attori di questo spettacolo, né commedia né tragedia, ma un ritratto piuttosto spietato e realistico di uno spaccato di mondo: uomini e donne alle prese con sogni infranti, relazioni quasi sempre fallimentari, desiderio di rivalsa e fantasmi di un successo mancato o perduto ad affollare la scena. L’inquietudine che pervade i racconti si mescola perfettamente all’ironia dello sguardo di O’Hara, molto meno pungente di quel sarcasmo alla Dorothy Parker ma in qualche modo efficace nel rivelare le frustrazioni e le meschinità quotidiane di questa umanità dolente. Tra i maestri del realismo americano del secolo scorso, autore di racconti e romanzi di successo, O’Hara è anche spesso ricordato per il carattere difficile e il rapporto complesso con i suoi editor, che il successo e i riconoscimenti di pubblico e critica non sono mai riusciti a pacificare. Autore prolifero, resta ancora oggi il più pubblicato sulle pagine del New Yorker, con 247 racconti, di cui ha contribuito a definirne il canone, al punto che nei casi in cui i suoi racconti non venivano accettati dalla rivista era davvero complicato trovarvi una collocazione diversa.

Addentrarsi nella raccolta è, quindi, un viaggio nel percorso artistico di O’Hara, nella sua lunga carriera letteraria e in certa misura nel mondo editoriale a lui contemporaneo, nella New York del secolo scorso, di cui l’autore racconta gli uomini e le donne da un lato all’altro della scala sociale, in racconti che mescolano abilmente tecniche narrative differenti, dalla cronaca, al rapporto diretto con il lettore, punti di vista e soggetti mutevoli, tutti accomunati dalla straordinaria capacità di O’Hara – e qui merita senza dubbio una nota di merito il lavoro di traduzione fatto da Bartocci – di costruire dialoghi efficaci, dimostrando per questi particolare orecchio
Certo, proprio nei dialoghi avvertiamo talvolta il peso del tempo che è intercorso fra la prima pubblicazione e ambientazione di queste storie e noi lettori contemporanei, ma fa parte del gioco, e in generale l’opera di O’Hara riesce comunque a superare la prova del tempo e dello spazio: perché nei ritratti di quell’umanità dolente, nelle rivalità, nel desiderio, nella lotta per la disperata ricerca di un po’ di felicità, è possibile riconoscere sentimenti e aspirazioni che restano immutate nel tempo. 

Sorprende, poi, per l’assoluta contemporaneità di certi spunti, a partire dalla riflessione dolente su affermazione professionale e compromessi richiesti, soprattutto quando ad aspirare a ruoli di potere sono donne che non si accontentano di restare ai margini:
Tutto quello che aveva, se lo era guadagnato con il lavoro, aveva combattuto per averlo, combattuto sporco se era stato necessario. Aveva attraversato gli anni in cui dicevano cose terribili sul suo conto, e lo sapeva; era acqua passata, ormai; la posizione che aveva raggiunto imponeva l’altrui rispetto […]. (La macchina del nulla, p. 233)
“La macchina del nulla” è stato pubblicato nel 1962 e il discorso che porta avanti la protagonista riflette moltissimo anche del nostro tempo, della fatica per guadagnarsi il posto meritato in certi ambienti ancora a prevalenza maschile e, allo stesso tempo, di ottenere il rispetto di colleghi e sottoposti. C’è un passaggio, in questo racconto, che mi ossessiona da quando l’ho letto la prima volta:
Ho lavorato con gli uomini per moltissimi anni, e con un discreto successo, da pari a pari. Non mi piace quando un uomo fa il tipo di domande che non farebbe a un altro uomo. (La macchina del nulla, p. 235)
Mi ossessiona, dicevo, perché riflette una discriminazione sottile con cui più o meno tutte ci siamo trovate a fare i conti, in ambito professionale ma anche nella vita privata e che O’Hara riesce a insinuare con poche parole, delineando di lì a poco il carattere del personaggio femminile protagonista della storia, di cui avvertiamo tutto il peso del sottinteso, di ciò che c’è – come nei migliori racconti – negli spazi bianchi. Quelle domande, che alla protagonista vengono da un collega di un’altra filiale dell’agenzia pubblicitaria di cui è vice direttrice, un uomo che ricopre un incarico professionalmente inferiore al suo, rappresentano per lei – e per noi che le leggiamo – una sottile offesa per la confidenza che l’estraneo è portato a prendersi solo perché la propria interlocutrice è una donna. Ecco, in poche righe e quando eravamo convinti di quale fosse il tema del racconto, O’Hara insinua riflessioni più ampie e profonde e solo alla fine afferriamo davvero il senso del racconto, in questo caso come negli altri.

Di personaggi femminili, molto diversi fra loro, è disseminata tutta la raccolta e sono stati forse la scoperta più interessante, il punto di vista da cui partire per tentare di penetrare il mistero della scrittura e comprendere l’universo letterario di O’Hara. Troviamo in questi racconti donne che combattono con i propri fantasmi, con la paura della solitudine – anche e soprattutto quando sono sposate – con il giudizio degli altri e la messinscena di una vita priva di crepe e imperfezioni, con il desiderio, con ruoli imposti ma da cui si sentono imprigionare.
Cosa sono? Non ho mai combinato niente. Non sono mai stata niente. (A vita privata, p. 312)
La consolazione momentanea che viene dall’alcol, dalle relazioni extraconiugali, dal sogno di successo – Broadway e Holliwood sono due riferimenti frequenti in questi racconti, come l’ambiente pubblicitario – che si scontrano con i fantasmi di antichi traumi e la malinconia per quanto si è solo brevemente sfiorato o che si è perduto. L’insoddisfazione e l’inquietudine attraversano ogni racconto, seppur in forme diverse, in una ricchezza di tematiche, spunti, chiavi di lettura che rende la raccolta davvero interessante e motivo di riflessione e dibattito.
Ne abbiamo appena sfiorato la superficie, ma sono davvero tante le considerazioni che potremmo fare sui racconti di O’Hara, un autore imprescindibile che meritava un’edizione più completa dal punto di vista di un apparato critico-bibliografico che viene qui a mancare – e sì, mi rendo conto che è un punto su cui mi trovo quasi sempre a discutere – ma di cui ci auguriamo Bompiani possa fornire presto al lettore italiano ulteriori suggestioni di lettura e spunti.

Di Debora Lambruschini