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Il vero volto del nichilismo: «Il ritorno del barone Wenckheim» di László Krasznahorkai

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Il ritorno del barone Wenckheim
di László Krasznahorkai
traduzione di Dóra Várnai
Bompiani, 2019

pp. 640
€ 28,00 (cartaceo)

[…] qualunque persona e qualsiasi cosa si fosse concessa a quella persona, quel rimettersi in balìa rappresentava la conseguenza più intollerabile per le persone come per le cose, poiché l’oggetto di quella meraviglia, di quella ammirazione, di quella cessione e dedizione, il centro, il punto nevralgico, il profondo, l’essenza di quella persona che era scesa nella piazza principale, e che con il suo sguardo morto e la sua gelida noia si era guardata intorno, e che infine, come se avesse fretta, era risalita nel veicolo, non essendo interessata né alla città né alle sue storie, era malvagia – malvagia, malata e onnipotente. (p. 232)
Immaginate di vivere un’esistenza piatta, senza luce, senza futuro, un’esistenza che si ripete ogni giorno uguale e senza possibilità alcuna di riscossa perché qualcuno prima di voi – almeno questa è la spiegazione che vi date – ha compiuto delle scelte che, sebbene non imputabili a voi, hanno portato a questo status quo da cui non si può fuggire.
Immaginate ora che qualcuno (ma chi, poi?) vi dica che da lontano sta giungendo una persona in grado di riscattarvi, di rimettere tutto a posto con un solo gesto, risanare le ferite, ridare lustro alla vostra vita, consegnarvi le chiavi di un paradiso a cui mai avete avuto accesso.
Immaginate la trepidazione per l’attesa di questo messia, la preparazione all’accoglienza, il dispendio delle ultime energie residue, la sensazione di star giocandovi il tutto per tutto con la certezza che quella persona sia l’ultima spiaggia, l’ultima possibilità di superare l’impasse. Quella persona è la salvezza: la via, la verità e la vita.
Immaginate poi la delusione quando quella persona si rivela nient’altro che una persona, l’ennesima inutile persona che non porta con sé alcuna novità se non la sua presenza che d’un tratto si fa ingombrante, rovinosa, deleteria. Immaginate la frustrazione, il risentimenti, l’odio, la voglia di obliare quella persona fuori da tutto.
Immaginate ora che tutto questo non avvenga solo a voi ma a una città intera, finita da tempo nel crepaccio nero della dissolutezza e dell’insolvenza, e immaginate ancora – infine – che, come a voi che siete fatti di carne e ossa, a ogni abitante di questa fantomatica città venga data voce per esprimere i propri pensieri animaleschi ed egoriferiti, e che questa delusione disarmata trasudi fuori in modo disconnesso e paralizzante, un profluvio di parole ed emozioni che si accalcano una sull’altra, riga dopo riga, per pagine intere, fino a giungere al punto in cui tutto si confonde, si mescola e si addensa in modo pericolosamente ostile.
Queste, più o meno, sono le sensazioni che si provano leggendo il lungo romanzo di Krasnahorkai, un densissimo testo in cui la sintassi e la ragione sembrano collassare su se stesse nonostante un tentativo disperato di rimanere ancorate a una qualche forma di razionalità; tentativo volto al naufragio perché ciò che avviene a livello di narrativa trova nella voce dello scrittore ungherese la propria perfetta controparte. Il suo infatti non è un mero esercizio di stile bensì il modo più immediato, ancorché contorto e malsano, di rappresentare il volto del più buio dei nichilismi.
La città in cui si svolgono gli eventi è senza scampo; così come senza scampo sono gli individui che, trincerati dietro un bieco individualismo, ridotti a macchiette senza neanche più un nome, spesso riconoscibili solo per il ruolo che svolgono – il Direttore della biblioteca, il Capitano della polizia, il Comandante delle Forzelocali, il Preside, il Sindaco –, sembrano incapaci di uscire da sé, dalla propria visione del mondo, per abbracciarne una nuova, un modo diverso di osservare le cose che, se da un lato richiederebbe l'abbandono di determinati schemi, dall’altro potrebbe essere l’unico modo per raggiungere una salvezza; senza scampo infine siamo noi lettori, costretti a questa danza macabra che sin dall’inizio, nell’Avvertenza, si palesa come un gioco al massacro, qualcosa di inevitabile, oscuro, dal quale nessuno, neanche chi l’ha commissionato, ne trarrà una sensazione positiva («anche se devo svelarvi, confessò, e quella sua voce metallica sembrò affievolirsi un poco a questo punto, che nemmeno io ne trarrò alcuna gioia, non ne avrò alcun piacere, e nemmeno consolazione», p 11).
È questo l’aspetto crudele del romanzo: calamitati da una scrittura tanto pertinace quanto seducente, si resta avvinghiati fra le strettissime maglie di una tela che viene fatta e disfatta davanti ai nostri occhi, laddove la trama viene presa, sfibrata, ripresa, modellata di nuovo e infine cancellata, spezzettata, frantumata e gettata al vento. Krasznahorkai conduce il suo gioco senza pietà per il lettore, lo porta dove vuole lui, gli dà speranza per poi togliergliela, e ciò che resta infine è solo un sordissimo silenzio, o forse meglio ancora il lungo fischio di un acufene.
Delle avventure del Professore – che, come si legge nella Partitura finale, risulta un materiale andato perso ma non distrutto – e di quelle del Barone alla fine resta poco: sono personaggi piccoli così, inadatti alla vita, destinati a perdersi nel grande oceano delle parole. E alla fine, a chi si aspetta da loro la salvezza – come chiunque si aspetta un qualche genere di salvezza da un ente esterno – resta solo l’amarezza del nulla.
Il ritorno del barone Wenckheim è un romanzo potente, sfibrante, disperato e nero. È un romanzo che sfida non solo il lettore bensì l’atto stesso dello scrivere e del narrare, che porta al limite il concetto stesso di romanzo. È un capolavoro della contemporaneità, e uscirne vivi un atto di coraggio.

David Valentini





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