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#SpecialeSciascia - Il rapporto con la stampa e l’impegno giornalistico

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Sciascia iniziò prestissimo la sua collaborazione giornalistica con numerosi giornali locali prima e nazionali poi (l’8 novembre del 1944 su Vita Siciliana appare una nota dedicata a Quasimodo); per un periodo fu anche iscritto all’Ordine dei Giornalisti, ma poi preferì restare un semplice “collaboratore”. I termini di questo rapporto con la scrittura in genere, e con la stampa in particolare, devono essere ricondotti tutti all’esigenza di dimostrare verità nascoste sotto un velo, a volte travestito da sudario.  E si può addirittura datare la sua parabola di scrittore a partire proprio dalla collaborazione alle pagine di alcuni fogli siciliani, se è vero che queste anticipano almeno di sei anni l’esordio letterario del 1950 con le Favole della dittatura.
Forse per tali ragioni, per le quali non è possibile delineare gli aspetti di questo rapporto senza capire le motivazioni intrinseche che lo portano a scrivere è utile indicare i parametri con cui si misura lo scrittore avvicinandosi al ruolo di giornalista.  In lui scrittura letteraria e scrittura giornalistica si mescolano e si contaminano vicendevolmente, beneficiando poi ognuna a suo modo della chiarezza e dello stile che rende analitica e problematica la prima, aperta a impreviste soluzioni e bruschi scarti analogici la seconda (come suggerisce Antonio Di Grado in un saggio del 1986, Leonardo Sciascia, la figura e l’opera, Pungitopo Editrice).
Famoso è anche l’episodio raccontato da Consolo sulla risposta che Sciascia diede a Danilo Dolci, che insisteva a chiedergli “Chi sei?”, nel corso di un dibattito al Circolo Culturale di Palermo il 15 aprile 1965, e in cui dichiarò di essere “Un maestro delle elementari che si è messo a scrivere libri. Forse perché non riuscivo ad essere un buon maestro delle elementari”, e per lui non era una battuta, ma una cosa seria. C’erano i suoi libri certo, i suoi pamphlet, il riconoscimento dei contemporanei, di cui a volte non comprese l’amicizia e se pentì poi. Come nel caso di Pier Paolo Pasolini, che nel 1951, in un articolo, ne elogiò la capacità di “guardare le cose vicine col binocolo alla rovescia, rimpicciolendole in miniature dove esse trovano quella eternità a cui altrimenti non sarebbero ancora mature”.C’era tutto questo ma non bastava. Ci voleva la verità delle cose di ogni giorno, occorreva “la cronaca” del fatto e dell’avvenimento per ribadirne la periodicità e la coazione impunita. Ed ecco l’avvicinarsi di Sciascia al giornalismo, e più tardi, quando la carta stampata o la radio non basteranno più, o non soltanto, interverrà l’impegno politico. Seguendo le tappe di questa parabola giornalistica, seppur per sommi capi, la si può dividere in tre momenti, di cui la prima parte è occupata dalla sua collaborazione con L’Ora, quotidiano palermitano di sinistra, all’epoca diretto da Vittorio Nisticò, e su cui il primo articolo è datato 25 febbraio 1955, e prosegue, con lunghi periodi di sosta, per 34 anni. Tenne su questo giornale la rubrica Quaderno, tra il 1964 e il 1968, di cui l’estrema importanza si ravvisò fino in fondo soltanto nel 1991, quando apparve in volume. E del suo rapporto con un giornale di partito scriveva “…L’Ora sarà magari un giornale comunista : ma è certo che mi dà modo di esprimere quello che penso con una libertà che difficilmente troverei in altri giornali italiani”. 
Nel 1972 Sciascia cominciò la collaborazione col Giornale di Sicilia. Roberto Ciuni, direttore del giornale in quel periodo, ricorda come nacque la sua idea di farlo “praticante” mentre lavoravano insieme ai testi di un serial televisivo sulla mafia. C’era stato da poco il passaggio da “praticante” a “giornalista professionista” di Alberto Moravia e quindi il precedente illustre poteva servire da motivazione. Sciascia accettò, collaborando contemporaneamente in quel periodo con il “Corriere della Sera” diretto da Piero Ottone, e gli fu anche affidata una rubrica, “Gli zii e i nipoti”. Ma il suo praticantato durò poco, testimonianza precisa di un carattere che non amava le costrizioni e soprattutto non amava guadagnare alle spalle dei colleghi più giovani che sgobbavano tantissimo, riducendosi le sue visite al giornale ad un paio di volte la settimana. Marcello Cimino, presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia, gli spedì anche una lettera garbata per ricordargli che il “praticante non può rimanere iscritto per più di tre anni” e visto che poteva decidere la cancellazione, previa decisione dell’interessato, gli propose di “farsi sentire”, di comunicare cioè che aveva interrotto il praticantato col Giornale di Sicilia. Ma Sciascia “non si fece sentire” e il 20 aprile 1976 l’Ordine prese a malincuore la decisione di cancellarlo dall’albo dei praticanti. Nel 1977 l’arrivo di Lino Rizzi al Giornale di Sicilia, che prende il posto di Ciuni, licenziato senza motivazioni ufficiali, crea reazioni durissime all’interno del giornale, con uno sciopero redazionale durato 3 giorni, a cui segue la decisione di Sciascia di interrompere la sua collaborazione.Della sua esperienza al “Corriere della sera”, che è di certo la più significativa del secondo momento giornalistico, quello degli anni Settanta, si possono ricordare tre momenti : L’Affaire Moro, che oltre all’annuncio del libro fatto proprio sul Corriere, suscitò tutta una serie di interventi e di polemiche su coloro che non avevano voluto credere all’autenticità delle lettere, su chi travisava le parole di Sciascia, come Eugenio Scalfari, che il 19 settembre 1978 scrisse che secondo Sciascia la grandezza di Moro è stata “quella di non volersi battere per questo Stato”. Il caso Tortora, di cui Sciascia prese le difese e a proposito del quale, il 7 agosto 1983,  scrisse sul “Corriere”: «Non mi chiedo: e se Tortora fosse innocente? Sono certo che lo è», pubblicato in prima pagina; e infine il triste epilogo dei Professionisti dell’antimafia, che sancì in maniera amara la fine del rapporto tra Sciascia e il Corriere. 
L’articolo sui Professionisti dell’antimafia, uscito con titolo redazionale, il 10 gennaio 1987, fu travisato a tal punto, da suscitare una sorta di mobbing giornalistico, oltre a macchiare la reputazione di un uomo integro e schietto come lui, accusato ingiustamente e da più parti di essere “vicino” alla mafia. Il succo dell’articolo ruotava attorno alla tesi che una certa antimafia poteva essere stata, ed essere ancora, “utile” alla mafia stessa. Il senso di queste parole viene spiegato da Sciascia attraverso due esempi, uno pertinente al periodo fascista, l’altro coevo al momento storico dello scrittore stesso. Nel primo caso, a partire da due autocitazioni, tratte da “Il giorno della civetta”:
Da questo stato d’animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l’angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Un eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese : e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori, il fascismo : e trovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti…Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche : mettere mani esperte nella contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto […] sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle loro ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso.  
(Il giorno della Civetta, Adelphi, Milano 1993)

 e da A ciascuno il suo:

Ma il fatto è, mio caro amico, che l’Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua…Ho visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia: ma io sono ugualmente inquieto. (A ciascuno il suo, Adelphi, Milano, 1988)

Vi si ribadisce innanzitutto qual è il pensiero dello scrittore sulla mafia, per passare poi alla segnalazione di un libro uscito da pochi mesi in italiano, appartenente ad uno studioso inglese, Christopher Duggan, che pur analizzando il fenomeno mafioso nel periodo fascista, lo fa  per così dire anche con un certo risentimento razziale. 
In ogni caso, per Sciascia, né i suoi stessi libri, né altri libri o testi teatrali, erano serviti per spiegare pienamente il fenomeno mafioso, essendo stati percepiti come pure descrizioni folcloriche.
 Una breve notazione storica a questo punto serve a Sciascia per ricordare come in Sicilia la debolezza del socialismo sia stata la forza del fascismo e della mafia, ed essendo proprio quest’ultima ad avere impedito la nascita del socialismo, potesse essere accomunata al fascismo. Riscontrando che ovviamente il fascismo era anche altre cose, e confluendovi alfine anche minoranze di ex combattenti e forze di giovani rivoluzionari, una frangia con vagheggiamenti anarchici e socialisti vi era stata incorporata. Da sparute minoranze erano diventate man mano invadenti e terribili, temibili anche dal fascismo stesso, soprattutto quello del nord – nato in rispondenza di interessi legati all’industria, all’imprenditoria e al mondo agricolo - che le avrebbe eliminate volentieri (come fece nel caso di Alfredo Cucco, fascista di linea radical-borghese, arrestato dallo stesso fascismo),  per far posto al dialogo con agrari siciliani e quindi con la mafia.
Lo scambio, analizza ancora Sciascia, ci fu, e si attuò tra il fascismo e gli agrari ad opera del prefetto Mori, mandato da Mussolini a reprimere le forze più spietate della mafia, che scoprì invece negli stessi agrari la forza per combattere quelle istanze. Mori si rendeva conto che i “campieri”, le guardie del feudo, avevano un ruolo fondamentale nella lotta alla mafia, in quanto “prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto”.
In tal senso appunto Sciascia parla del paradosso di una “antimafia” come “strumento del potere”. Per cui il prefetto Mori, con inalterato senso del dovere nei riguardi dello stato (che ormai è lo stato fascista), e alimentando questo senso del dovere in virtù del suo essere un conservatore non liberale, grazie alle operazioni repressive del fascismo, nascondeva anche il gioco di una fazione fascista conservatrice, nei confronti di una, per così dire, più “progressista” e più debole.
Scendendo poi all’esempio dei suoi giorni fa una similitudine con un sindaco occupato tutto il tempo a fare comizi contro la mafia (Leoluca Orlando, allora sindaco di Palermo) e poco attento all’amministrazione effettiva della città, ma incontestabile  dal “di dentro”, cioè dai compagni di partito, come dall’opposizione, perché la contestazione rischiava di apparire “mafiosa”(ed è proprio quello che poi toccò allo stesso Sciascia). 
Oppure, per citare un altro esempio, Sciascia parla del mondo giudiziario, dove poteva accadere che al dottor Paolo Borsellino potesse assegnarsi il posto di procuratore della repubblica a Marsala, pur toccando questo stesso ad un magistrato più anziano di lui (ovvero il giudice Alcamo, più anziano di lui), per regolamento. Adducendo tra i meriti del più giovane quello di essersi già occupato di mafia, e conseguendone quindi un “certa anzianità” di merito.
Queste considerazioni, il merito di avere obiettato una certa irregolarità procedurale che favoriva suo malgrado un giudice bravo e stimato da Sciascia come Borsellino (che infatti avrà modo di chiarire che aveva inteso pienamente l’accusa mossa contro la magistratura e non diretta personalmente a lui), gli valsero mille polemiche, l’etichettatura di “quaquaraquà”, il sospetto di simpatizzare con la mafia e l’inizio delle incomprensioni con il Corriere.
 Solo Piero Ostellino, direttore uscente in quel momento, lo difese a spada tratta, scrivendo anche un articolo di fondo per ribadire che Sciascia era un uomo che ragionava con la sua testa. Ma di lì a poco arrivò Ugo Stille, corrispondente dagli Stati Uniti, a dirigere il giornale, e non è che ostacolò in qualche modo la presenza dello scrittore o i suoi articoli, ma se ne lavò le mani, non si assunse responsabilità e lasciò che vincessero le pressioni di una “certa sinistra giudiziaria”, atteggiamento che spinse poi lo scrittore, in quei mesi a Milano per curarsi, ad affidare a La Stampa le ultime considerazioni e gli ultimi articoli.
E proprio con La Stampa si chiude questo brevissimo excursus sull’attività giornalistica di Sciascia, che fu lunghissima e costellata di tantissime collaborazioni importanti anche a riviste e periodici come “Galleria”, “Letteratura”, “Nuovi Argomenti”, “l’Espresso”, o di minori come “Malgrado Tutto”, piccolo giornale nato a Racalmuto per iniziativa di alcuni adolescenti e a cui Sciascia restò molto legato, convincendo altre firme importanti a collaborarvi, ad esempio Gesualdo Bufalino; di quegli interventi potete leggere adesso in Malgrado Tutto, libro pubblicato recentemente da Giancarlo Macaluso, in occasione dei venticinque anni del giornale.
 Senza dimenticare anche la stampa estera che della sua collaborazione si gloriò, soprattutto la spagnola con El Pais e alcuni periodici francesi.  
Al quotidiano La Stampa, allora diretto da Gaetano Scardocchia, Sciascia affida le ultime considerazioni, il commosso necrologio all’ufficiale dei carabinieri Renato Candida “modello” del capitano Bellodi de Il giorno della civetta, e soprattutto vi affida una risposta alle polemiche sull’antimafia, scrivendo il 6 agosto 1988:

Io ho dovuto fare i conti da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità. Ho sessantasette anni, ho da rimproverarmi e rimpiangere tante cose; ma nessuna che abbia a che fare con la malafede, la vanità e gli interessi particolari. Non ho, lo riconosco, il dono dell’opportunità e della prudenza. Ma si è come si è.(A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1989.
Samantha Viva