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"Bianco": Ellis tra polemiche, spunti di discussione ed ego

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Bianco
di Bret Easton Ellis
Einaudi, 2019

Traduzione di Giuseppe Culicchia

pp. 289
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)



Ho amato e odiato questo libro in egual misura. Un po’ come amo e odio Bret Easton Ellis stesso, tra romanzi e tweet. Ma ringrazio il cielo che ci siano personaggi come lui, che non conoscono il finto buonismo, ci forniscono buone ragioni per avviare il dibattito e hanno ancora il coraggio di esprimere le proprie opinioni, anche – e soprattutto – quando sono consapevoli potrebbero essere impopolari. “Opinioni”: potrebbe essere proprio questa la parola chiave per interpretare “Bianco”, che non è un memoir, non è del tutto un saggio, di sicuro è un testo molto personale, non privo di contraddizioni e debolezze, parziale, ovviamente, per sua natura. È un distillato dell’Ellis pensiero, è un viaggio nei ricordi, nel suo mondo tra privato e pubblico, sono frammenti della sua vita e carriera – ma ben lungi dall’essere strutturati in forma di biografia ragionata – è il suo sguardo sulla società a partire da una sensazione di fastidio su dinamiche e stereotipi tra realtà e web.
Non sempre mi sono trovata d’accordo con le opinioni di Ellis, ma sempre in ogni caso ne apprezzo l’onestà nell'esprimere senza filtri ciò che pensa, qualità in cui non è tanto facile oggi imbattersi, specie quando hai un ruolo – e, di conseguenza, un’immagine – pubblica da difendere. Le reazioni a questo libro sono arrivate presto, da una parte all'altra dell'oceano e, neanche a dirlo, sono diametralmente opposte: si dividono in sostanza tra chi celebra la libertà di espressione dimostrata da Ellis e chi lo accusa di essere un narcisista, lagnoso e autoreferenziale. La verità probabilmente sta in mezzo, anche in questo caso, perché è vero che a tratti il libro è un po' troppo autoreferenziale, il tono si fa talvolta troppo lamentevole e nostalgico, le argomentazioni non sempre sufficienti e il campo di osservazione (gli Stati Uniti, in linea di massima) troppo circoscritto, ma d'altra parte la prima cosa che mi ha colpita è, ancora una volta, l'onestà con cui l'autore esprime le proprie opinioni, appunto, a partire dal presupposto che sono assolutamente soggettive, parziali. Per contro, non c'è praticamente nulla di Ellis scrittore come lo conosciamo, né mi sentirei di definirlo un intellettuale nel senso canonico del termine, proprio per la visione troppo ego riferita e le argomentazioni a sostegno delle sue idee a tratti un po' troppo scarne, specie su certi argomenti.
Di piacere e ottenere consenso ad ogni costo, a Ellis in effetti, credo non sia mai importato granché, eppure non mi ha mai dato neppure l’idea di essere un provocatore per il solo gusto di fare polemica, far parlare di sé. Di certo non gli è mai importato della propria reputazione. Ellis sprime le sue opinioni che, guarda un po’, non sono quasi mai politicamente corrette o in linea con il sentire comune e, negli ultimi anni, si è fatto un gran parlare delle sue “dichiarazioni” su twitter. All’immagine dello scrittore di culto della generazione X, si è in parte sostituita così quella di enfant terrible, del cattivo dei social che non risparmia niente e nessuno finendo per inimicarsi buona parte del mondo culturale. In questa raccolta di saggi, Ellis fa dunque il punto su alcune delle polemiche più interessanti in cui si è ritrovato invischiato, tra politica, rapporto con la scrittura e il mondo editoriale, società e web. È, per esempio, contro le politiche dell’identità e il conformismo ideologico, che la riflessione si fa particolarmente partecipe e approfondita, spaziando dal cinema, alla politica, dai media alle conversazioni tra amici: 
Ma questa è un’epoca in cui ciascuno viene giudicato così aspramente attraverso la lente delle politiche dell’identità che se ti opponi al minaccioso gruppone dell’ “ideologia progressista”, la quale proclama l’inclusione universale tranne per coloro che osano porre una qualche domanda, in un modo o nell’altro sei fottuto. Tutti devono essere uguali, e avere le stesse reazioni di fronte a qualunque opera d’arte, movimento o idea, e uno si rifiuta di unirsi al coro di approvazione verrà accusato di essere un razzista o un misogino. (p. 94)
Brutale. Come nel suo stile. Ma efficace. Contro questo sistema del politicamente corretto nel quale rischiamo di restare invischiati e perdere la capacità di giudizio, la forza di opinioni individuali, costantemente attenti a conformarci con la visione generale, indignarci, esaltare, lodare. Tutti, sistematicamente, le stesse cose, senza veramente soffermarci a pensare con la nostra testa. In punta di piedi per non calpestare accidentalmente la sensibilità altrui, perché ogni cosa, ogni opinione oggi rischia di essere tacciata del marchio infame di “razzismo”, “misogino” eccetera. Il rischio, alla fine, è che quando davvero una parola, una situazione, sono discriminanti e violente, si perdano nel clima generale di allarme. Non è esente da questo tipo di rischio il giudizio sull’arte:
Il fatto che non si possa sentire una battuta o vedere una certa immagine (si tratti di un quadro o anche solo di un tweet) e che ogni cosa possa essere connotata come razzista o sessista […] è un nuovo tipo di mania, una psicosi che la nostra cultura ha incoraggiato (p. 144)
Opinione condivisibile o meno, lo sguardo di Ellis si sofferma, per esempio, sul mondo del cinema e le ragioni ideologiche e politicamente corrette che in certi casi sembrano aver avuto un peso ben maggiore di quelle puramente estetiche nella scelta di premiare un film, un regista: perché donna, perché gay, perché parte di una qualche minoranza, perché politico appunto. «Guardate l’opera d’arte, non l’artista», (Bruce Springsteen, citato da Ellis), ma sembra sempre più difficile scindere l’opera dal suo esecutore e, di conseguenza, giudicare la produzione artistica e non farsi influenzare dalla mano che l’ha creata. Il quesito in effetti resta: è giusto giudicare l’arte svincolata dall’artista? È una riflessione che si fa scomoda quando le scelte private dell’artista si scontrano con la nostra morale, se ne era discusso per esempio anche a proposito del saggio contenuto nell'antologia "I racconti delle donne", curata da Annalena Benini, e una questione quanto mai attuale.

Quando il campo d’indagine si allarga alla sfera politica e alle reazioni in seguito all’elezione di Trump, il discorso si fa ancora più controverso e, purtroppo, non sempre all'altezza di quanto ci si aspetterebbe: prima del messaggio politico è, secondo Ellis, la stessa estetica di Trump a infiammare i suoi detrattori, la Sinistra impegnata in un gioco di superiorità morale che rischiava di schiacciarla, mentre i media sembravano incapaci di smontare quello che era il futuro presidente da un punto di vista intellettuale e puramente politico, finendo per raccontarlo in maniera assolutamente imparziale e, di fatto, favorendo il suo gioco:
[…] il modo in cui i media tradizionali stavano raccontando le presidenziali del 2016 – la Clinton come l’eroina, Trump come il cattivo – si sarebbe rivelato una completa catastrofe morale per il Paese perché contribuiva a fare di Donald Trump il più grande outsider della storia politica americana. (p. 158)
C’è in “Bianco”, ovviamente, moltissimo di Ellis scrittore, della genesi dei suoi romanzi, delle reazioni di pubblico e critica, dei rapporti con il mondo editoriale e con gli altri scrittori contemporanei, ma anche la sua attività di sceneggiatore, produttore, i podcast, Los Angeles tra star del cinema e scandali, stroncature e – neanche a dirlo – polemiche. Il successo, per Ellis, era arrivato molto presto e, con esso, le polemiche, i fan, i tour promozionali, il personaggio pubblico e l’uomo privato, le critiche:
Sono stato giudicato e recensito da quando sono diventato un autore edito all’età di ventun anni, e nel corso del tempo mi sono completamente abituato a ricevere commenti positivi e negativi, a essere adorato e detestato. Questo è il mio habitat naturale, e non ho mai dato troppo peso alle opinioni che mi riguardano, che fossero pro o contro. La reputazione di scrittore che ne è emersa era basata sul numero dei recensori che avevano amato o no i miei libri, o da che cosa pensavano che io incarnassi. Queste sono le regole del gioco – e ci sta, direi. Tra gli scrittori ero caso raro, nel senso che venivo apprezzato tanto quanto disprezzato. Al contrario dei miei colleghi, se a un critico o a una critica non piacevano i miei libri, questi non venivano educatamente ignorati – venivo massacrato. […] Ma ricevere recensioni negative non ha mai cambiato il mio modo di scrivere o i temi che volevo indagare, non importa quanto certi lettori si sentissero offesi dalle mie descrizioni di sesso e violenza. (p. 120)
Perché, appunto, è proprio questo Ellis, uno scrittore che scava negli angoli più oscuri dell’animo umano, ne descrive le perversioni, gli incubi, i desideri più reconditi; che analizza con cinica lucidità la società in cui si muovono e ne restituisce, ogni volta, un manifesto generazionale, una storia che destabilizza e sconvolge, rielabora ed esaspera alcuni aspetti della realtà raccontata ma basandosi in fondo proprio sulla società che conosciamo. Tra i più famosi scrittori della sua generazione, amato e odiato dalla critica e dal pubblico, Ellis sottostà alle regole del gioco cercando di non perdere la propria voce:
Volevo calarmi nei panni degli altri e vedere il mondo con i loro occhi – specie se si trattava di outsider e mostri e freak che mi avrebbero condotto il più lontano possibile da quale potesse essere la mia comfort zone. (p. 129)
Non poteva mancare tra queste pagine la riflessione su David Foster Wallace, altro scrittore simbolo di quella generazione, distante anni luce dall’estetica di Ellis. Del loro rapporto si è detto e scritto praticamente di tutto, come tra Ellis e altri scrittori contemporanei (vedi per esempio Franzen), i media sempre pronti a scatenare la polemica per ragioni di rivalità, invidie, superiorità. E se di Franzen, Ellis si spinge a dire che ha scritto il romanzo che lui stesso avrebbe voluto scrivere (Le Correzioni, il primo libro, tra l’altro, che Ellis lesse dopo il trauma dell’11 settembre), il giudizio su Wallace è decisamente differente:
[…] salvo per alcuni primi racconti e certi capitoli de "La scopa del sistema", non sono mai riuscito a entrare in sintonia con il suo lavoro per numerose ragioni di natura estetica. Ho spesso considerato David lo scrittore più sopravvalutato della nostra generazione, oltre che il più pretenzioso e tormentato […]. Ma detto questo mi piaceva l’idea di David e il fatto che esistesse, e penso anche che fosse un genio. (su Wallace, p. 182)
Tra letteratura, politica, arte, cinema e celebrità, successo, polemiche e disgusto per certe dinamiche sociali, Ellis ci porta ancora una volta a confrontarci con il mondo contemporaneo e le sue contraddizioni: poco importa se siamo d’accordo con le sue opinioni oppure no, quel che resta è il gusto raro di una buona discussione. Amato e odiato che sia, questo libro - e il suo autore - ci da più di una ragione per dialogare, discutere. E questo, a mio parere, non basterà forse a farne un libro fondamentale e capace di trascendere il tempo e lo spazio, ma di certo ci spinge a ragionare e riflettere osservando le cose da punti di vista differenti: una qualità oggi quanto mai necessaria. 


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Di Debora Lambruschini