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Quanto contano i ricordi nella vita di ognuno?

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Certi ricordi non tornano
di Dario Pontuale
Carta Canta, 2019

pp. 142
€ 13


Le visioni appaiono senza avvisare, amano confondere mostrandosi caduche, sostenute dai dubbi che provocano. Vengono create per imbrogliare e di solito passeggiano dopo il tramonto…

Quanto contano i ricordi nella vita di ognuno? 
I ricordi spesso si traducono in luci,  ombre, eventi, dolori, irti percorsi, inspiegabili vuoti, piccole voragini, indizi confusi, incertezze o rimasugli ubicati in angoli nascosti della mente. Soffermarsi a ripescare quei tasselli memoriali  nel tentativo di ricavare forme più stabili, entrare in quello spazio della memoria senza tempo, ogni tanto  e in punta di piedi, è ciò che permette e invita a fare la delicata scrittura di Dario Pontuale. Senza rimpianti inutili, senza rimanere intrappolati nella constatazione delle legge naturale del tempo che passa, senza spostare lo sguardo sempre e solo indietro, è bello ed essenziale coltivare il ricordo con naturalezza senza sprecarlo, con e per il piacere di farlo. 

Dario Pontuale ci apre le porte di un memoriale ampio che riguarda un ambiente preciso: una periferia. Qui si stagliano e si intrecciano diversi destini. Il racconto si dipana lentamente, come possono essere gli stessi ricordi, lasciando spesso al lettore spazi indefiniti di movimento narrativo.

     In una zona periferica romana denominata  Barrio, una fabbrica di liquori in disuso viene chiamata Fortezza. Qui qualcuno vorrebbe far costruire un grande centro commerciale.
 Dallo stabile n.49  parte il racconto di Michele, voce narrante della storia.
Il protagonista rimette in circuito una fitta rete di ricordi, che partono dal momento in cui da adolescente viene beccato a scrivere su un muro. Si ripercorrono una serie di avvenimenti che riguardano i cambiamenti sociali delle persone che vivono in quel quartiere; relazioni che evolvono tra i personaggi e l’ambiente stesso, destinato a subire forti modifiche al suo assetto a causa di forze esterne. Si snoda anche la vita di Alfiero, l’anziano “accusatore” che si occupa della biblioteca del quartiere, a cui Michele rimarrà legato da un rapporto quasi filiale. 
La senilità di Alfiero proseguì parallelamente alla mia crescita, la sua immutabile quotidianità si adattava alle mie poliedriche abitudini universitarie. La biblioteca di quartiere continuò la sua opera, intanto in cortile i piccioni minaccivano il bucato, le strade si specchiavano nelle vetrine e la convivenza con le creature dalle potenti mandibole cresceva giornalmente. (p. 40).
Si alternano nella storia esperienze emozionali che includono diverse dimensioni: la valenza e l’intensità. Le persone solitamente si fidano dei loro ricordi; sono convinti che il modo in cui si rinvia a un evento tragico o positivo coincida con il modo con cui il fatto si è verificato. Spesso l’individuo è disposto ad ammettere che la memoria è fallibile e che spesso il ricordo potrebbe non essere il riflesso della realtà. È ciò che anche Michele tenterà di esorcizzare per tutto il romanzo.
L’autore non si limita a descrivere i personaggi, ma li rende “suoi”; la sua scrittura chiara ed elegante ci permette di entrare nei dettagli più intimi, di cogliere da un punto di vista emozionale gli eventi mutevoli che caratterizzeranno di molto la vita di Alfiero e i microimpulsi esistenziali che appartengono, invece, all’inquietudine di Michele.
La trama è ben strutturata e coniuga parole,  immagini e dettagli episodici. La relazione tra intensità, valenza e memoria autobiografica, anche degli eventi più tragici, offre in questa storia un’idea di veritiera coesione.  
C’era una ruga impressa nel volto di Alfiero, una piega indelebile talmente profonda da scendergli nelle viscere, provocata non dal rimpianto per il passato, ma dal sentimento di un irrecuperabile ritorno. Un impulso amplificato dalla capacità di intuire la fine delle cose prima che queste si consumassero  definitivamente.[…] Quella ruga non rappresentava il segno nostalgico del tempo, né le vessazioni inferte dalla transitorietà del  presente e, meno ancora, la prerogativa di chi si arrende a ciò che non c’è. Alfiero non simboleggiava affatto un esempio di arrendevolezza. (p. 64)
La scrittura di Dario Pontuale è estremamente curata, sia nella scelta lessicale, (ricerca verbale e aggettivazione) sia  nello stile complessivo utilizzato per tutta la narrazione. Parole mai scontate, che danno un’idea immediata e autentica di quanto descritto. 
La cena irruppe dal forno, occupò i piatti caldi,… sgomberando la mente, riuscii a nascondermi eclissandomi dietro un’auto parcheggiata…un cenno di intesa e le due persone sgusciarono fuori dal vicolo…non si accorsero di nulla pure quando mi sfilarono accanto…Non li riconobbi, ma mi rasserenò vederli girare l’angolo ad ampie falcate….Continuai a scrutarlo attraverso il parabrezza e i finestrini….Calò nel buco in pochi secondi, favorito dal buio, muto più delle ombre. In una notte neanche troppo fredda, accovacciato dietro un’auto, raggelai intuendo la minaccia”. (p. 93)
E ancora:
Nonostante l’impiego da prezzolato tesista, conservai la sana abitudine di muovermi nel Barrio di notte, vagando quando l’orologio frena le lancette e la luna imbianca le cose. Dopo tante ore al computer concedo tregua agli occhi ed esco, camminando senza meta, a caccia di obsolete novità. Scruto il movimento di una massa  abbrustolita dai neon, magma nascosto nel sottosuolo che risale col favore delle tenebre, coriaceo al logorio del giorno. In quelle ore il Barrio si lascia guardare senza pudori, né la vergogna delle cicatricinè l’ingiuria delle mutazioni. Il quartiere muta ed è diverso da quand’ero bambino, è altro rispetto a quand’ero giovane o quando lo erano Alfiero, Ivano, Eugenio, Virna. (p.75)
Certi ricordi non tornano è un libro dalla trama non scontata, dal finale aperto e connotato da vicissitudini inconsuete. Una storia che induce a diverse riflessioni sulle conseguenze imprevedibili delle azioni umane. 
 Non sempre gli eventi della vita trovano una spiegazione plausibile.
Certi ricordi, nonostante tutto, non tornano vividi nella memoria e valgono quindi per come vengono raccontati, proprio come affermava G. García Márquez:
La vita non è quella vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla. 

                                                                                                                           Mariangela Lando