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"È dura ricordare le cose tenere con tenerezza". David Foster Wallace e Il ramo spezzato di Karen Green

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Il ramo spezzato
di Karen Green
trad. Martina Testa
Baldini+Castoldi, 2018

pp. 188
€ 26

«Alla fine il lutto diventa immortale e il buco è più familiare del dente. La lingua stuzzica la radice fantasma, la mente ispeziona le cavità del cuore per verificare che sia vuoto. C'è la cosa in sé e poi c'è la condizione del suo essere cava.»
Ci sono libri che leggi con profonda emozione e poi è difficile parlarne; qualunque cosa tu possa dire suona banale e un po' patetica.
Come col dolore, in fondo.
Il ramo spezzato è un libro sul dolore. Di una moglie che ha perso il marito e del marito che è uno dei più grandi scrittori contemporanei e delle migliori menti della sua generazione e, devastato dalla depressione, a quarantasei anni, una mattina di dieci anni fa, si è impiccato, a casa loro, a Clermont, in California, lasciandole una lettera di due fogli e un buco nero impossibile da colmare.  
Quell'autore, indimenticato e indimenticabile, è David Foster Wallace e quella moglie è Karen Green, il cui memoir, una sorta di diario d'appunti sgangherato, poetico e crudele, è appena stato tradotto da Martina Testa per Baldini+Castoldi. 
«Sono cattiva e sto soffrendo e mi serve più aiuto di quanto ne serva a te ma tu sei come la luna: illumini la mia insignificanza da un'enorme distanza muta.  
Chiamo il dottore: sto soffrendo, è imbarazzante, e ho bisogno bisogno bisogno. Lui risponde qualcosa. Dice ginger beer, bagno caldo, rifugiarmi in un posto sicuro, ma nella vasca da bagno non riesco a respirare; non sopporto le pretese del mio corpo a mollo, milza e viscere, e orifizio: non c'è rifugio nell'architettura, non pontificate. Il dottore dice che se fossi stato così tra virgolette perfetto per me, probabilmente saresti ancora qui, non per offenderla eh.» 
La prosa della Green è sorprendentemente simile a quella di Foster Wallace, come fosse illuminata da quell'enorme distanza muta di cui sente l'urgenza, il bisogno di raccontare, sputando fuori ricordi sbocconcellati, una carezza ai cani, il giardino, carta cotone cristallo frutta, quel suo «profumo di vicinanza alla divinità. Una maschera a ossigeno in caso di panico o fiato corto: qualcosa che ti tenga su quando il motore inizia a guastarsi.» 
Un modo per materializzare il dolore e cercare di espellerlo. 

Il paragone con lo strepitoso  L'anno del pensiero magico (ed. italiana Il Saggiatore), che Joan Didion scrive all'indomani della morte del marito, John Gregory Dunne, è fin troppo facile. 
Anche in quel caso, la scomparsa è improvvisa, la sofferenza è sfiancante, ma la Didion non perde di vista quella lucidità nella scrittura che rende limpido il racconto. 
Al contrario qui è la sfumatura, il frammento, (che prende corpo anche nelle immagini che inframezzano lo scritto) che disorienta e che avvince.

Alle tante cose dette sulla morte di David Foster Wallace, sulla depressione il suicidio l'angoscia mancava soltanto la voce di chi quel percorso l'ha affrontato insieme a lui, salvo poi sentire la mano, che credeva aggrappata, scivolare dalla sua. Per sopravvivergli, suo malgrado, con rabbia. 
«È dura ricordare le cose tenere con tenerezza.» 

Giulia Marziali
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