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#IlSalotto: dialogo di Giuseppe Girimonti Greco ed Ezio Sinigaglia sui "Racconti" di Proust

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Racconti
di Marcel Proust
Clichy, 2017

pp 196
12 €

Traduzione di Mariolina Bertini, Federica Di Lella, Giuseppe Girimonti Greco, Ezio Sinigaglia e Ornella Tajani



Questa raccolta è senza dubbio molto preziosa per chi nutra il desiderio curioso di indagare uno dei più veri laboratori per uno scrittore: il racconto. E quale sublime piacere può riservare la lettura dei racconti giovanili di Proust, per scoprire in che modo fossero già lì, in nuce, luoghi e motivi del suo capolavoro, la Recherche?
Ho rivolto alcune domande in merito ai curatori dell'edizione, Giuseppe Girimonti Greco ed Ezio Sinigaglia, che hanno anche tradotto alcuni racconti; l'intervista prende la forma di un piacevole dialogo in cui vengono svelati i criteri della scelta dei racconti; qui è dove inoltre i due studiosi ci lasciano entrare in un altro laboratorio: quello del traduttore alle prese con Marcel Proust.

Come nasce il progetto di una breve raccolta dei racconti di Proust?

GGG: Il progetto è nato quasi spontaneamente dalla constatazione che questi racconti giovanili di Proust non erano più disponibili per il lettore italiano. La storica edizione Bollati Boringhieri (I piaceri e i giorni, a cura di Mariolina Bertini, Note di Luzius Keller, 1988) è “di difficile reperibilità”, per usare il gergo dei siti di vendita online; anzi, ne approfitto per suggerire a Bollati o ad altro editore filo-proustiano di riprenderla al più presto, perché si tratta di un’importante – oltre che elegantissima – edizione di riferimento. Clichy, un piccolo e raffinato editore fiorentino da sempre molto attento ai classici e in particolare ai classici della letteratura francese, ha prontamente accolto la proposta di una traduzione a più mani. Io e Sinigaglia venivamo da due esperienze analoghe condotte su due raccolte di racconti di Julien Green per l’editore Nutrimenti (Viaggiatore in terra, 2015, e Vertigine, 2017, vincitore fra l’altro del Premio Bodini), e quindi l’idea di moltiplicare polifonicamente le voci degli “interpreti” – abbinandole ai vari testi sulla base del gusto individuale è stata accettata senza perplessità. Così abbiamo messo insieme una piccola squadra composta da traduttori professionisti (Federica Di Lella e Ornella Tajani, oltre a me), uno scrittore (Ezio Sinigaglia, che è anche – fin dall’adolescenza – un appassionato lettore di Proust), e una studiosa di Proust che non ha bisogno di presentazioni come Mariolina Bertini. Poi, in qualità di curatori, Ezio e io ci siamo occupati di armonizzare queste cinque voci diverse, pur senza privare ciascuna di loro del suo – se così posso dire – timbro caratteristico.

Perché proprio questi racconti e come mai è stato inserito L’indifferente?

ES: Direi che si è trattato di una scelta antologica, anche se in gran parte obbligata. Ciò che ci interessava era riproporre al lettore italiano un Proust giovanile di qualità. Certo, non la qualità eccelsa della Recherche, ma una qualità indiscutibilmente alta, nella quale è possibile percepire – a tratti, e con una certa emozione – un grande talento nascituro, che scalpita e tira calci. Riusciva quindi naturale estrarre, da Les plaisirs et les jours, le cinque perle narrative che ne abbiamo estratto, escludendo non soltanto i “poèmes en prose”, i medaglioni poetici e altre invenzioni non propriamente narrative, ma anche il racconto Un dîner en ville (un titolo che si potrebbe tradurre con l’espressione A cena fuori), debole al paragone degli altri. Abbiamo invece aggiunto L’indifferente, che Proust aveva espunto dalla raccolta perché lo considerava un doppione, o per meglio dire un presagio, di Malinconica villeggiatura di Mme de Breyves. Il soggetto è in effetti molto simile, e nel secondo racconto viene trattato con maggiore finezza. Tuttavia L’indifferente resta una nouvelle fra le più “proustiane” del giovane Proust e ci è sembrato molto ragionevole accostarlo agli altri cinque testi.

GGG: Sì, si potrebbe dire che il nostro criterio di scelta è stato proprio quello di selezionare le più “proustiane” fra le opere giovanili di Proust. Tra l’altro, ci è sembrato doveroso rendere in qualche modo omaggio alla già citata edizione Bollati, ragion per cui abbiamo chiesto a Mariolina Bertini di poter riprendere le sue versioni de La morte della gelosia e, appunto, de L’indifferente.

Cosa ci dicono questi racconti sul percorso dell’autore e sull’evoluzione della sua scrittura?

GGG: Qui sta appunto il principale motivo di interesse di questa raccolta. Quasi tutti quelli che saranno i grandi temi della Recherche sono già presenti nei racconti giovanili: la mondanità come “errore” e pericolo “morale”, l’amore e la gelosia come malattie dello spirito, il morboso attaccamento alla madre, la passione per l’arte, la musica e la letteratura, l’azione corrosiva del tempo… Nella prima nouvelle, durante l’agonia di Baldassare Silvande, affiorano addirittura, sia pure in forma ancora embrionale, i ricordi involontari. Non manca quasi nulla.

ES: Anche dal punto di vista stilistico ci sono quasi tutti gli ingredienti della magnifica prosa di Proust: la ricerca di un crescendo o di un calando nelle aggettivazioni multiple, per limitarsi a un esempio fra i tanti possibili, o le frasi “infinite”, di una complessità sintattica che – si può dire – non ha paragoni. Quello che manca, però, quello che il giovane Proust non ha ancora trovato, in definitiva, è proprio la sua voce. Qualcosa di indefinibile eppure di chiaramente percepibile: la magia della voce che racconta e che trascina. Il giovane Marcel la cerca, questa voce, ma non la trova ancora.

GGG: Sono d’accordo, ma è anche vero che alcuni elementi stilistici sono già presenti, e quasi maturi. Dal punto di vista strettamente “timbrico” – per così dire –, è interessante rilevare la compromettente intensità emotiva della prima persona utilizzata ne La confessione di una ragazza. Quanto alla presenza di elementi comici, ci siamo accorti, traducendo, che in questo Proust per certi versi acerbo, la comicità e il piglio satirico svolgono già una funzione abbastanza rilevante (anche se siamo lontani dalla magistrale ironia della Recherche). Altri due esempi: la creatività onomastica e toponomastica (che tanta importanza avrà poi, com’è noto, nella Recherche); e poi la vivacità dei dialoghi, primo passo del lungo cammino che porterà alla brillantezza del parlato proustiano e all’uso per certi versi rivoluzionario che Proust farà dell’indiretto libero sin dalle prime “scene” di Combray.

Come vi siete preparati alla traduzione? Qual è il bagaglio di esperienza e di studi alla base di queste traduzioni?

ES: È meglio che a questa domanda risponda Giuseppe. Per me è piuttosto imbarazzante: non sono un traduttore professionista, il mio bagaglio di esperienza, quanto alla traduzione letteraria, è molto esiguo e, in pratica, i miei studi si sono sempre limitati alla lettura pura e semplice. Perciò dovrei concludere che ero del tutto impreparato a tradurre Proust.

GGG: Innanzitutto, per puro scrupolo (ma anche per una nostra tendenza comune un po’ maniacale), ci siamo procurati tutte le altre edizioni italiane, anche parziali, della raccolta giovanile da cui sono tratti questi racconti. Pionieristica e a suo modo interessante, per comprendere il gusto dell’epoca (anche se molto invecchiata), è l’edizione a cura di Beniamino Dal Fabbro (Malinconica villeggiatura, Milano, Minuziano, 1945); tra le altre (che abbiamo “diligentemente” citato nella Nota ai testi, nella speranza di non averne dimenticata nessuna), la più bella e, per così dire, la più “spigliata” è quella a cura di Marise Bo, più volte ristampata. Ma è anche vero che, una volta concluso questo lavoro di ricognizione, ci siamo dati come regola quella di non guardare le altre versioni se non in casi eccezionali. I punti ambigui, in questi testi, non mancano, ma noi abbiamo cercato di risolvere i problemi, per così dire, ex novo, attraverso ricerche accurate, consultazione compulsiva del Trésor de la langue française (e dei nostri amici francofoni…), ecc.; un aiuto consistente ci è venuto dalla consultazione delle edizioni critiche de I piaceri e i giorni: in particolare dall’edizione Keller-Bertini, dall’edizione a cura di Thierry Laget (Gallimard, 1993), e dall’edizione Clarac-Sandre (Gallimard, 1971). Del resto, ormai la produzione giovanile di Proust è molto studiata, quindi non c’è pagina di questi testi che non sia stata analizzata e commentata in dettaglio dagli specialisti. Le edizioni commentate hanno un grande pregio: quello di collegare le pieghe più riposte di questi racconti ad altrettanti punti del testo della Recherche (spesso di non facile individuazione); ma è stato divertente, nel corso della traduzione (che, com’è noto, è una particolarissima forma di “lettura lenta”), accorgersi di tante altre segrete corrispondenze con il resto dell’opera proustiana. Quanto all’esperienza dei singoli traduttori, c’è innanzitutto, a monte, una grande passione per questo autore, che ci accomuna tutti. Alcuni di noi, peraltro, studiano da anni aspetti particolari dell’opera proustiana.

Quali difficoltà ha riservato la traduzione di questi testi?

GGG: Le maggiori difficoltà di resa si nascondono, come spesso accade (e con Proust accade regolarmente anche nella Recherche), nei dialoghi. Francese e italiano sono lingue sorelle, eppure non c’è quasi espressione di parlato che si possa trasporre tal quale da una lingua all’altra. È sempre necessario inventarsi una soluzione capace di riprodurre, a seconda dei casi, la spontaneità o la ricercatezza, il tono sbrigativo o quello enfatico, la parola preziosa o il tic linguistico di questo o quel personaggio. Tuttavia sono difficoltà, queste, che con l’esperienza e il mestiere si impara ad affrontare e a superare. Per il resto, se la difficoltà principale è rappresentata, per i traduttori di Proust, dalla complessità sintattica delle sue frasi, possiamo ben dire che noi traduttori italiani siamo fra i più fortunati, perché la nostra lingua si presta magnificamente a restituire tutte le svolte, i rallentamenti, gli indugi e le improvvise accelerazioni del francese di Proust.

ES: In effetti, più che di traduzione difficile, parlerei nel caso di Proust di traduzione lenta. Si deve dare per scontato che occorre procedere con estrema prudenza, non correre mai, se non si vuole correre qualche inutile rischio. Insomma, la produttività è bassa, come è giusto che sia quando ci si confronta con i giganti della letteratura. Però, personalmente, non ho incontrato difficoltà speciali. Nel complesso, sono convinto che sia più difficile tradurre scrittori mediocri che grandi scrittori. Con la mediocrità si pone sempre un problema deontologico insolubile: adeguarsi fedelmente o, infedelmente, migliorare? Io che, fino a pochissimi anni fa, traducevo soltanto saggistica, so bene che si finisce quasi sempre per migliorare infedelmente. E si fa una gran fatica.

Quale è stato il vostro metodo di traduzione? Quante stesure sono state necessarie?

GGG: Ogni traduttore ha un suo metodo e quindi, essendo noi in cinque, è impossibile parlare di una metodologia comune. Tuttavia si possono distinguere due modus operandi diametralmente opposti, e ciascuno di questi è ben rappresentato all’interno del nostro gruppo. La maggior parte di noi fa una prima stesura che non ha nulla di definitivo: per ogni frase, e quasi per ogni parola, vengono proposte varianti, quasi sempre più di una. Nella fase di revisione (che può essere affidata a un altro traduttore, quando si lavora in coppia o in gruppo) si procede alla scelta, caso per caso, della soluzione più convincente e all’eliminazione delle altre. Restano alcuni passi dubbi, sui quali ci si confronta a voce o per iscritto. Una sorta di estenuante, e al tempo stesso inebriante, vertiginosa negoziazione… Quante stesure siano necessarie non è facile, anzi, non è possibile dirlo; ma lavorando con questo metodo saranno come minimo tre: la prima, la revisione e la controrevisione.

ES: Da parte mia, ho un metodo diverso, o forse sarebbe più esatto dire che non ho nessun metodo. Proprio come quando scrivo, il mio obiettivo è quello – impossibile da raggiungere – di fare della prima stesura la stesura definitiva. Perciò è ben raro che proponga varianti. Le sfoglio tutte nella mia testa e scelgo quella che più mi soddisfa. Un lavoro, si potrebbe dire, di aggiustamento preventivo. Il testo che ne esce sembra davvero una traduzione già largamente accettabile. Ma va detto che mi permetto il lusso di lavorare in questo modo anomalo perché so che poi la revisione di Giuseppe individuerà tutte le magagne della mia prima stesura. Alle mie correzioni preventive seguiranno quindi decine e decine di correzioni repressive e tutto andrà meravigliosamente a posto. O almeno così si spera…

Quali i vostri esordi di traduttori e come vi siete avvicinati a Proust?
ES: Oddio, i miei esordi di traduttore furono davvero strani. A ventisette-ventott’anni facevo il redattore di una rivista di economia, “Economia pubblica”, fondata e – a quei tempi – diretta da Alberto Mortara. Si trattava di una rivista fatta (ironia della sorte) in estrema economia, ma molto ben conosciuta e apprezzata nell’ambiente accademico e in quello delle imprese pubbliche. La rivista pubblicava anche articoli di autori stranieri, specie di lingua inglese. Accadde che un giorno arrivò un articolo di storia economica di un autore americano: lo lessi, lo trovai sorprendentemente chiaro (di economia, io, non capivo nulla), mi piacque e cominciai a tradurlo. Il mio esordio fu quello. Si scoprì che ero un traduttore più che discreto: fin lì non avevo mai sospettato di esserlo. Tradussi parecchio di economia, negli anni successivi, poi di musica, di cinema, di gioielleria e di orologeria, di arte contemporanea, sia dall’inglese che dal francese. Le traduzioni letterarie sono incominciate per me dopo l’incontro con l’amico Giuseppe, quattro-cinque anni fa. Sono molto più difficili, danno molta più soddisfazione e sono pagate molto peggio. Quanto a Proust, invece, è una passione antica: le mie prime letture della Recherche risalgono infatti all’adolescenza. Nel mio libro d’esordio, Il pantarèi, che è una sorta di metaromanzo sul romanzo del Novecento, Proust è l’autore di apertura, quello da cui si prendono le mosse per iniziare il viaggio nella grande sperimentazione narrativa del XX secolo. Insomma, è un autore che amo, che conosco abbastanza bene e del quale spero di tradurre presto altre pagine.
GGG: Ironia della sorte, quella che io considero la mia prima traduzione “importante” è legata a doppio filo a Proust e alla mia tesi di dottorato (su Proust, la lettura e la fotografia): a Parigi io e Maria Laura Vanorio siamo entrati in contatto, in modo del tutto fortuito, molti anni fa, con Lucette Finas, un’autrice straordinaria, purtroppo non ancora molto nota in Italia, per poi scoprire che Mariolina Bertini si era in diverse occasioni occupata della sua opera (sia narrativa che saggistica). Tra i suoi studi più belli, Le toucher du rayon. Proust, Vautrin et Antinoüs (Nizet, 1995), un lavoro che si articola essenzialmente intorno a due fuochi: l’atto di lettura come “stimolo” alla creazione e i “preziosi” debiti di Proust nei confronti di Balzac. Nel 2007, per l’editore fiorentino Le Cariti, è uscita un’edizione italiana di questo studio, a cura mia e di M.L. Vanorio, con una preziosa introduzione di M. Bertini (Sulle montagne russe della lettura), e si può dire che da allora non ho più smesso di occuparmi di Proust… e di tradurre (non solo saggistica).

Cosa pensate del genere del racconto?
ES: Come scrittore, il racconto lo frequento poco. Forse la mia macchina narrativa è animata da un diesel, più che da un motore a benzina: ha bisogno di tempo e di spazio per dare il meglio di sé. Gli unici racconti brevi che ho scritto in età adulta sono in realtà dei giochi: in uno tutte le parole incominciano per S, negli altri due, se una parola incomincia per A, quella successiva può incominciare solo per B o per Z. Per il resto, mi considero poco portato per la short story. Di conseguenza, avendo sempre ammirato enormemente tutti gli scrittori che sanno scrivere quello che non sono capace di scrivere io (ad esempio: spy stories!), nutro una vera idolatria per i grandi scrittori di racconti come Maupassant, Čechov, Julien Green o Alice Munro. Meno convincenti mi sembrano gli autori di racconti gialli. Penso che i gialli vadano a gasolio come me.
GGG: Ho sempre amato le forme brevi e i grandi maestri della difficile “arte del racconto”; per non far torto a nessuno, mi limiterò a citare una “triade” di imprescindibili (per me, inutile dirlo): Maupassant, Lovecraft, Daphne Du Maurier… Abbastanza recente è stata, per me, la scoperta delle short stories di Julien Green, avvenuta (provvidenzialmente, è il caso di dire…) grazie a Filippo Tuena, che ha suggerito all’editore Nutrimenti una nuova traduzione di Passeggero sulla terra e di altri racconti, coinvolgendo me, Francesca Scala e Ezio Sinigaglia. Conoscevo e apprezzavo già il Green romanziere, ma il Green autore di racconti, specie quelli brevissimi e folgoranti di Vertigine, è stata una vera rivelazione. Da quando insegno, poi, la forma-racconto mi è particolarmente congeniale, perché mi permette di ottenere in tempi brevi certi effetti emotivi legati alla lettura ad alta voce. Per me è assolutamente impagabile riuscire a tenere col fiato sospeso una classe di dodici-tredicenni grazie a una raccolta del “meglio” di Poe o Lovecraft o Shirley Jackson, oppure riuscire a farli ridere di gusto sfruttando testi oggi considerati forse un po’ fuori moda, come Stampe dell’Ottocento di Palazzeschi o certi racconti umoristici e paradossali di Campanile. Ma, a dire il vero, la “misura” che prediligo è quella del racconto lungo (i miei preferiti sono Un cœur simple di Flaubert e The Turn of the Screw di James).



Intervista a cura di Lorena Bruno