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Cuore di cane

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Il mio cane del Klondike
di Romana Petri

Neri Pozza (I narratori delle tavole), 2017


205 pp.

16 €
9,99 € e-book



L'ultimo romanzo di Romana Petri suscita emozioni contrapposte. Certo, non lascia indifferenti. Lo si legge tutto d'un fiato, senza fermarsi un momento. O, al contrario, ci si può arenare, di fronte a pagine che possono sembrare, a volte, eccessivamente «prosaiche», per così dire (non tutti apprezzeranno descrizioni così dettagliate delle problematiche gastrointestinali del cagnone Osac...). Ma anche queste pagine hanno un senso, una propria finalità, come avrò modo di spiegare. Sicuramente è un libro che agli amanti degli animali, dei cani in modo particolare, sa parlare con il cuore. O, meglio ancora, con quel linguaggio che accomuna i proprietari degli amici a quattro zampe. Che si allarga anche a chi ha scelto di avere accanto a sé un gatto, un canarino, un criceto, insomma un compagno non umano.
Partiamo dall'inizio: l'io narrante donna, (senza nome, come rigorosamente tutti i personaggi del libro, perché questa è soltanto la storia di Osac, del cagnone nero), un giorno, all'uscita dalla scuola dove insegna, trova riverso su un marciapiede un enorme cane, mezzo morto di stenti e di fatiche, assaltato dalle zecche. Chiaramente abbandonato. Lasciarlo così non può, non ha cuore, lei che adora i cani. Se lo carica quindi in macchina, con qualche difficoltà, vista la taglia, lo porta dal veterinario e gli restituisce nuova vita. Una casa, tanto amore e un nuovo essere umano in cui credere. Per dimenticare il dolore dell'abbandono.
Ma Osac non è un cane normale, è un cane enorme, ingombrante, selvatico, ringhioso, poco incline alla disciplina. Quasi incompatibile con una vita in società. Nonostante tutto (e non è poco...), il  legame che si viene a creare tra i due è forte e unico. Vivono in simbiosi, vanno in vacanza insieme, lei dirada la sua vita sociale per lui (non del tutto, come scopriremo poi). Ma poi nella vita della donna accade qualcosa, un qualcosa che il cane (e forse nemmeno lei stessa) aveva preventivato: un nuovo arrivo, un piccolo essere umano, il figlio della protagonista. E, per Osac, inizia un'altra vita: con la maternità diventa chiaro che la convivenza, in un piccolo appartamento di città, tra cagnone e bambino è impossibile, per la gelosia che Osac prova nei confronti del nuovo venuto, che (e lui lo sente) ha preso il primo posto nel cuore di lei. Inconciliabile con la nuova forma di vita, il cagnone viene mandato in campagna, dove vivono la madre e il fratello della donna, che lo amano, lo nutrono, lo accudiscono, lo coccolano. Giardino, collina, aria aperta. Osac ha tutto... Tutto, ma non lei, lei che era diventata la sua nuova ragione di vita, lei che gli aveva fatto dimenticare com'è brutto quando si viene abbandonati, lei che letteralmente lo aveva strappato alla morte. La ragione umana trova mille giustificazioni per questo secondo «abbandono», l'istinto canino no, nemmeno una. Il nodo centrale del romanzo sta tutto qua: ragione vs. istinto, amore umano vs. amore canino. E se l'amore che un umano prova nei confronti di un animale può subire cambiamenti, a seconda di necessità, problemi o nuovi eventi (quantomeno più che l'amore, possono cambiare le dinamiche del rapporto), l'amore di un animale, che è amore preso nella sua essenza, l'amore puro, non muta, tale rimane per tutta la vita. Aldilà dei cambiamenti, che il cervello del cane non percepisce come tali. Tutto per lui è istinto.

Ma il mutamento che avviene nella vita della donna, con l'istinto ha tantissimo a che vedere: lei diventa mamma e, come ammetterà alla fine, tutto il resto del mondo diventa "piscio di gallina". Davanti a un figlio, istinto materno primordiale, naturale, primo, profondo e ingovernabile, tutto passa in secondo piano. Ed è una forza contro la quale non si può fare nulla. Lei non può più darsi totalmente a Osac perché è il figlio che prende tutto. E Osac non è cane da accontentarsi di una parte. La scelta diventa perciò molto sofferta, ma necessaria, inevitabile. Una scelta che, però, diventa un cruccio dentro di lei, un senso di colpa che rimane sempre in fondo al cuore. Intensificato dal fatto che poi cane e bambino diventano amici, quasi come se il cane volesse dire: «Hai visto che non volevo fare del male al tuo piccolo?». Certo, di tutto questo la parte amara spetta a Osac. Il quale reagirà da par suo, da vero cane del Klondike. Ma di come finisce questa storia non anticipo nulla.

Vorrei invece tornare un momento alla scrittura, e a quelle famose descrizioni un po' «calcate» (tra cui annovero anche la discesa nelle profondità dell'intimo al momento del parto): pur non ritenendole strettamente necessarie, e trovandole anzi un po' pesanti, si intuisce come l'autrice, tramite questi momenti descrittivi, voglia mettere in luce da una parte l'amore per Osac, prima (di diventare mamma), che le faceva sopportare anche lati molto sgradevoli di una convivenza complicata; dall'altro, la natura, il dolore anche fisico, l'istinto del diventare genitore. Che diventa il nodo centrale della vita, un avvenimento che divide tutto in «prima» e «dopo». E che non finisce mai, perché, come afferma spesso la protagonista, «io continuo a divenire madre». Il che non toglie che la scelta forzata abbia lavorato dentro di lei come un rovello, e lo si comprende ancor più sapendo che questa è una storia vera. Romana Petri non lo dice nel romanzo, ma Osac era proprio il suo cane. E, alla fine, lei ha inteso rendergli omaggio, quasi risarcirlo di tanto dolore, dedicandogli un romanzo. Che può diventare il più prezioso regalo di Natale a chi ha accanto a sé un compagno a quattro zampe.


Sabrina Miglio 

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