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Scosse di terra, scosse di cuore: "Terremoto" di Chiara Barzini

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Terremoto
di Chiara Barzini
Mondadori, 2017

pp. 336 
€ 19,00 (Ebook € 9.99)

Titolo originale: Things That Happened Before The Earthquake 
Traduzione di Chiara Barzini  e Francesco Pacifico




1992. Los Angeles è travolta dagli scontri razziali, messa a ferro e fuoco dalla guerriglia urbana. A Roma, Ettore e Serena comunicano ai due figli che l’intera famiglia si trasferirà a Hollywood perché il padre, regista, possa finalmente avere successo nel mondo del cinema. Così inizia il romanzo di Chiara Barzini, che racconta con uno stile scabro, privo di fronzoli e retorica, una storia di integrazione non (subito) riuscita. Pubblicato inizialmente in America e solo successivamente tradotto in italiano, Terremoto si ispira all’esperienza vissuta dall’autrice stessa, costretta a uno sradicamento forzato – e a un forzato innesto in terra straniera – analogo a quello della sua protagonista.
Per Eugenia l’inserimento nella nuova realtà è difficile, ai limiti dell’impossibile. Lo stato di solitudine di cui si trova prigioniera è da lei affrontato con una disperata ricerca del degrado, della dispersione di sé. Il suo unico interlocutore, destinatario di confessioni sincere, è la vergine Maria, che resta però muta e lontana, sorda a ogni richiamo. È impossibile, per la ragazzina e il fratello Timoteo, vedere quello che l’amico di famiglia californiano celebra della città, invitandoli a una visione decentrata sulle cose:
“La magia di questa città” ci spiegava Max “non è nelle ville, ma nell’odore degli alberi di cedro piantati davanti. Non è nelle piscine dalle maioliche perfette, ma nel modo in cui il sole si riflette sulla loro acqua. È per questo che la gente rimane qui. […] Il luminoso invisibile.” Fissai con intenzione i tronchi degli alberi. Provavo a intravedere le piscine oltre gli steccati, sperando di cogliere quell’invisibile spirito californiano di cui parlava Max, ma non ci riuscii. La città mi appariva sempre uguale, una stupida distesa opaca. “Ricorda, Eugenia”, mi avvertì Max vedendomi strizzare gli occhi. “Se guardi troppo a lungo, scompare”.
Mentre i genitori si rivelano assolutamente inadeguati al loro ruolo, concentrati sulle proprie ambizioni e poco attenti a cosa succede intorno a loro, i figli si scontrano con le asperità della nuova vita, arrabattandosi per quanto possibile: "Cominciai ad affrontare le giornate come se fossero quei sogni in cui hai gli occhi aperti ma vedi male". L’unico modo per proteggersi dalla fatica e dal dolore dell’isolamento coatto può essere quello di immergersi ancora più a fondo in questo isolamento, farlo diventare la propria tuta protettiva: "Le regole del mio costume di gomma erano chiare. Se volevo che funzionasse, non dovevo pensare troppo. Non dovevo sentire troppo."
Il mondo della scuola è gretto e classista, replica miniaturizzata di quello che avviene fuori dalle recinzioni che circondano il cortile. Los Angeles è una città dura e incongrua: dove a Natale il caldo è torrido, dove si può morire nel parcheggio di un centro commerciale per aver detto una parola di troppo, per aver dato l'impressione sbagliata. Abbandonata a sé stessa, trascurata dai genitori immaturi ed egoriferiti, Eugenia trova conforto in persone che, come lei, sembrano riuscite solo a metà: la minuscola Fatima dalla testa deforme; Simon, il nerd con sandali e calzini; l'antisociale Henry dall'orecchio mozzo. "Anch'io mi sentivo amputata: mi mancavano degli arti qua e là, delle parti del cuore". La perdita del primo quasi-amico, Arash, è per la ragazzina un mattone nascosto all'interno del cuore, un peso che affligge anche nella lontananza, anche sull'isolotto sperduto delle Eolie dove Eugenia e il fratello vengono mandati a trascorrere l'estate con gli zii. Lo scontro con la brutalità di una terra aspra e violenta, dove a dominare sono le necessità primarie e i sentimenti primordiali, dove la modernità rappresenta una tentazione pericolosa, porta Eugenia a rileggere il senso della propria esperienza americana. Il ritorno la trova più sicura di sé, la menzogna è diventata uno stile di vita ("più fingevo più sentivo che era facile farlo davvero").

La città resta il luogo del grottesco improbabile: come quando Eugenia e Henry, a Disneyland, si trovano a fumare erba con una Cenerentola depressa e volgare, con una scarpetta di plastica a sostituire il cristallo, e vengono arrestati da un Mickey Mouse in divisa. Tuttavia delle nuove amicizie e l'accesso inaspettato a un quartiere d'élite, Topanga Canyon, luogo in cui fare esperienza del tanto decantato luminoso invisibile, rendono Los Angeles un po' più casa: 
Topanga era come una forza, un magnete che mi tirava fuori dalla mia camera da letto, dalle aule della scuola. Era una nuova versione dell'isola siciliana, un posto dove potevo entrare in contatto con qualcosa di primordiale.  Quando non ero nel canyon, pensavo al canyon, e quando ero nel canyon passavo ore a guardare i falchi volteggiare sopra le rocce, a sentire il vento forte che saliva dalle spiagge, immerse nella foschia. [...] Permettevo a quella natura selvaggia e famelica di colpirmi e incassavo i suoi colpi con gioia. Mi sentivo più forte.
In una città dominata da eccessi e squilibri, l'adolescente cerca di trovare un senso, di lacerare il bozzolo di gomma in cui si è nascosta, di ricominciare a vedere davvero. E se i sogni dei genitori sembrano più ingombranti, più importanti (e forse più fallaci) dei suoi, Eugenia lotta per trovare un proprio spazio. Il terremoto a cui fa riferimento il titolo è duplice: quello brutale che mette in ginocchio Los Angeles nel 1994, rendendola scenario post apocalittico in cui muoversi in mezzo a ceneri e rovine come fantasmi sopravvissuti, e quello emotivo che colpisce la protagonista, costretta a rivedere scelte e certezze. Solo l'attraversamento del dolore - come quello della città devastata - può portare finalmente la ragazzina a capire ciò che realmente è, ciò che realmente vuole.

Carolina Pernigo