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"Morire è un'arte, come ogni altra cosa": suicidio, letteratura e letterati in un celebre studio di Al Alvarez

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Il Dio selvaggio.
Suicidio e letteratura
di Al Alvarez
Revisione di traduzione di Caterina Ciccotti
Odoya, 2017

(Prima edizione originale: Weidenfeld & Nicolson, 1971
Prima edizione italiana: Rizzoli, 1975
Traduzione di Mario Manzari)

pp. 287
Euro 18,00

Sono passati quasi cinquant’anni dalla prima pubblicazione in lingua originale di The Savage God, lo studio condotto da Al Alvarez sui rapporti tra suicidio e letteratura, tradotto in italiano una prima volta nel 1975 per Rizzoli e ora dato nuovamente alle stampe da Odoya. Sono passati e, qualora ci fosse bisogno di sottolinearlo, non sono stati esenti da ulteriori morti tragiche di autori e autrici, né il suicidio in sé ha smesso di essere un argomento della bella prosa, sia narrativa che saggistica. Il suicidio “letterario”, se così si può dire, non ha conosciuto crisi, ma le ragioni per le quali uno scrittore o una scrittrice – o più semplicemente un uomo o una donna – decidano di “non essere più” non si sono fatte, a oggi, né più automatiche né più docili all’addomesticamento in predeterminate categorie. Letto a decenni di distanza, Il Dio selvaggio conferma la fuggevolezza di un fenomeno che, se certamente va messo in relazione con il contesto storico e culturale di chi decide di levarsi dal mondo, richiede più di tutto il rispetto delle specificità dei singoli individui, siano essi dei “perfetti sconosciuti” oppure artisti di successo. 

«Perché accadono simili cose? Vi è modo di spiegare un simile spreco di vite umane, dato che è quasi impossibile giustificarlo?». Al Alvarez se lo chiede al termine del lungo Prologo – “intimo” e sentito, eppure mai patetico – dedicato all’amica Sylvia Plath, narratrice e poetessa di genio che nel romanzo autobiografico The Bell Jar (La campana di vetro), e soprattutto nella lirica Lady Lazarus, aveva fatto materiale letterario del suo tentativo di suicidio prima del gesto definitivo del 1963. Continua Alvarez: «Per personalità creative come Sylvia esiste una tradizione del suicidio? Oppure vi è stata trascinata da forze quasi letterarie?». Per lo studioso, l’unico modo per non accontentarsi di spiegazioni impressionistiche può forse consistere nel tentare una ricostruzione del fenomeno che si configuri come una sorta di storia culturale del suicidio nell’Occidente. Per questo, prima di entrare in argomento – prima, cioè, di trattare specificamente il rapporto tra suicidio, letteratura e letterati – il critico dedica due lunghi capitoli a quelle che definisce le Notizie preliminari e Il mondo chiuso del suicidio: Errori, Teorie, Sentimenti: un articolato (e ambizioso) excursus storico e filosofico che ripercorre lo status di questo fenomeno nelle epoche e nelle culture, mettendo in luce come di volta in volta esso sia stato considerato l’atto più vile, più utile, più necessario, più ovvio, più desiderabile, più condannabile, più empio, più sacro. Così, quando finalmente si arriva alla disamina della relazione tra suicidio e letteratura, tutto non può che complicarsi, dal momento che le personalità autoriali non solo vivono calate nelle rispettive temperie culturali ma talora si fondono con quelle dei personaggi protagonisti delle opere: e ciò è valido per il Medioevo di Dante Alighieri come per il Rinascimento di John Donne, ha a che fare con la vera e propria “moda” suicida che seguì I dolori del giovane Werther di Goethe ma anche con le conversioni religiose di alcuni celebri romanzieri e con il nichilismo novecentesco; non fa eccezione nemmeno la sfida del movimento Dada, per il quale il suicidio stesso è da considerare un’arte.

A dispetto di quanto il titolo potrebbe suggerire, Il Dio selvaggio non è dunque una semplice e accattivante rassegna di suicidi illustri. Non c’è nulla di programmaticamente “scandalistico” in questo studio, nemmeno il sorprendente Epilogo, intitolato Abbandono, in cui Alvarez espone il proprio status di “suicida mancato”: l’argomento della morte volontaria, che si stratifica di influenze e di rimandi nel momento in cui va a riguardare personalità eccezionali quali quelle di scrittori e scrittrici, vi è sempre trattato con rispetto e cautela. Di certo si tratta di un testo impegnativo, denso, forse anche faticoso (specialmente in alcuni passaggi centrali): ma forse, dopotutto, non potrebbe essere che così, in perfetto accordo con la profondità di un fenomeno che, secondo l’autore, chiama in causa soprattutto l’uomo contemporaneo e i suoi portavoce più sensibili.

Cecilia Mariani