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"Nel guscio" di Ian McEwan

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Nel guscio
di Ian McEwan
Einaudi, 2017

Traduzione di Susanna Basso

pp. 184
€ 18 (cartaceo) 
€ 9,99 (ebook)

È piuttosto semplice, in fondo: Nel guscio, l’ultimo, discusso, romanzo dello scrittore inglese Ian McEwan è la conferma che, qualche volta, bastano meno di duecento pagine per costruire una storia spiazzante, intensa, ricchissima di spunti di riflessione. O forse non è proprio così semplice.
Perché leggendo questo romanzo, fin dalle primissime pagine, è impossibile non rimanere stregati dal talento di un abile narratore: che gioca con le parole e le modella in una prosa elegante – resa magistralmente dall’accorta traduzione di Susanna Basso – , riprende topoi della tradizione letteraria e l’Amleto shakespeariano e li rielabora in qualcosa di nuovo e sorprendente.
Non un romanzo perfetto, il più rappresentativo dello stile del suo autore o quello da cui iniziare a conoscerlo se ci si avvicina per la prima volta alla narrativa di McEwan: non è privo di difetti, infatti, e costringe il lettore ad un patto di fiducia e credibilità che non è sempre facile assecondare, destabilizza e cattura costringendoci ad osservare la storia di passioni, tradimenti e vendetta dall’inedito punto di vista scelto. È, quest’ultimo, infatti, l’elemento strutturale più interessante del romanzo: un bambino non ancora nato, un feto, che è narratore, protagonista e punto di vista sulla vicenda, in quello che potremmo considerare un lungo monologo interrotto solo brevemente dai dialoghi degli altri personaggi che controllano l’azione. Un tentativo intrigante ma senza dubbio azzardato, prova che uno scrittore esperto come McEwan supera brillantemente, a cui in fondo è facile perdonare qualche lieve inciampo, perché i punti di forza di questo romanzo superano abbondantemente le sue debolezze.
Nel guscio dimostra quanto ancora sia profonda ed inesauribile l’influenza di Shakespeare, l’universalità dei temi trattati che, a distanza di quattrocento anni, ancora ispirano e danno vita a riletture più o meno aderenti all’originale. Il romanzo di McEwan è chiaramente una rivisitazione di Hamlet – a partire già dai nomi dei personaggi che riecheggiano quelli del dramma originale – , di cui riprende piuttosto fedelmente gli elementi essenziali della trama: il tradimento, l’assassinio, il desiderio di vendetta. La tragedia rivive nella Londra contemporanea, dove cupidigia e gelosie convincono Trudy, la moglie di un inerme poeta, a pianificare l’assassinio del marito con la complicità dell’amante, Claude, fratello di questi. Se nella tragedia originale il dramma si è già compiuto e il principe Hamlet è chiamato proprio dal fantasma del padre a vendicarne l’assassinio, nella rilettura di McEwan l’atto deve ancora compiersi e il figlio, quel feto non ancora venuto al mondo, è spettatore diretto suo malgrado delle macchinazioni della madre e del suo amante, incapace di impedirle e, per questo, lui stesso colpevole di complicità:
Mi reputo un innocente, ma a quanto pare sono parte di un complotto. Mia madre, che il cielo benedica il suo rumoroso cuore instancabile e pompante, sembra sia coinvolta.
Come Hamlet è protagonista assoluto dell’omonimo play e quasi sempre sulla scena – fisicamente, o nelle parole e nei pensieri degli altri personaggi – lo è, per forza di cose, anche il narratore di questa storia, che assiste impotente al complotto. Per molti critici la scelta di un punto di vista tanto inusuale è in netto contrasto con le modalità narrative tipiche della produzione letteraria di McEwan che si è sempre caratterizzata, infatti, per l’attento metodo di ricerca con cui oggettivare la rappresentazione del contesto storico sociale e i rapporti umani, reso qui impossibile dalla natura stessa del protagonista narratore. Seguendo queste considerazioni critiche, verrebbe da mettere in discussione, quindi, alcune scelte strutturali fra cui la complessità dei ragionamenti del narratore, ma anche profonde considerazioni su etica, coscienza, identità, istinto, gli stessi elementi che rendono il romanzo tanto complesso e ricco di spunti di riflessione. Tuttavia la questione smette di essere problematica nel momento in cui si accetta il controllo autoriale sulla storia e, per così dire, le licenze poetiche concesse alla narrazione, che non hanno bisogno di oggettivare a qualunque costo la creazione letteraria: facciamo uno sforzo, abbracciamo il particolare punto di vista scelto dall’autore, liberandoci da preconcetti. Dopotutto, se siamo disposti a credere senza particolari indugi al fantasma che mette in guardia Hamlet dalla corruzione e dalla violenza dilagante nel regno di Danimarca, perché non possiamo fare lo stesso di fronte alle riflessioni di un essere non ancora nato eppure in qualche modo già consapevole, di sé stesso, della dolente condizione umana? McEwan mette in scena un dramma intimo ed universale insieme, e una volta stretto il patto fra lettore ed autore è impossibile non restarne stregati, riflettere su punti in comune e differenze con il dramma shakespeariano, lasciarsi guidare tra le pieghe di una storia forte e a tratti disturbante, e i dubbi e le considerazioni che ne derivano. Non sono, infatti, solo la scelta del narratore in sé e gli aspetti ad esso correlati da un punto di vista strettamente narrativo a far discutere, ma anche il racconto vivido, crudo a tratti, di una gravidanza vissuta senza particolare coinvolgimento emotivo né timori, degli aspetti più intimi, fino alla descrizione dell’azione violenta che gli amanti si apprestano a compiere.

L’unica, vera, perplessità che rimane è alla base del dramma stesso: perché spingersi fino ad uccidere l’ignaro poeta? È una malvagità che, come sottolinea anche John Boyne sulle pagine di The Irish Times, non si spiega con il desiderio di rivalsa, l’antagonismo tra fratelli, nemmeno con la brama di denaro, ma come lettori dobbiamo accettarla ai fini del dramma. Un’azione violenta di cui, a differenza della tragedia shakespeariana, assistiamo, come si è detto, alla sua preparazione, al complotto, fino alla realizzazione e le dirette conseguenze e, come il narratore, partecipiamo in un crescendo di tensione e drammaticità.
Non è, in fondo – non del tutto, almeno – , l’atto stesso, l’assassinio, l’elemento più interessante della vicenda, come non lo era nel play originale, quanto tutto ciò che vi ruota intorno. Come Shakespeare, McEwan racconta, infatti, il dramma dell’uomo moderno, teso fra azione e dubbio, che riflette sulla fragilità umana, sugli affanni dell’esistenza, tra anelito alla vita e desiderio di morte. «Amleto è l’eroe della coscienza» come efficacemente sintetizzato dal professor Bertinetti, in questo risiede la forza del dramma che trascende il tempo e lo spazio e sa farsi ancora straordinariamente attuale, permettendo un’altra rivisitazione, un’altra chiave di lettura, come quella scelta da McEwan, per esempio. E il dubbio, la tensione fra il pensiero e l’azione, tra l’essere e il non essere, che caratterizzavano l’eroe shakespeariano, rivivono nel protagonista di questo romanzo, che tutto osserva e in qualche modo comprende, ma dalle possibilità di azione limitate, per natura o per istinto.
La riflessione su morte e vita si accende, quindi, di rinnovate sfumature, spingendo a considerazioni intorno ad etica, suicidio, coscienza, identità, istinto, che riprendono e caricano di nuovi significati le domande intrinseche nella tragedia shakespeariana. Allontanandosi dal centro del dramma, la preparazione dell’assassinio e il desiderio di vendicare la morte del padre, il romanzo si apre, inoltre, ad altre interessanti riflessioni: tra le pagine emerge, infatti, il rappresentazione di un’umanità dolente, corrotta da cupidigia e gelosia, di quotidiane meschinità, matrimoni fallimentari ed incomprensioni, la miseria umana che contrasta con la bellezza della poesia, dell’amore, della parola.

Un racconto per contrasti dove, ancora, alla morte corrisponde la vita, all’orrore la bellezza, in un gioco di specchi e di coppie di personaggi opposti. I cattivi sono cattivi fino in fondo, non ci sono ambiguità o giustificazioni, e anche per questo l’assassinio risulta tanto più crudele perché, in fondo, immotivato. Dopo tanto programmare, ecco l’azione che si compie quasi per caso, con avventatezza e per ragioni diverse da quelle che si era in un primo momento immaginato. Non resta più spazio, ormai, per il dubbio, il pentimento, l’assoluzione:

Il delitto, prima una sequenza di mosse da studiare e realizzare, ora, nel ricordo, ha la consistenza di un oggetto immobile, accusatorio, una fredda statua di pietra nella radura di un bosco. Mezzanotte di freddo pungente in pieno inverno, luna calante, e Trudy che fugge correndo su un terreno ghiacciato in mezzo al bosco. Si volta a guardare la figura in lontananza, parzialmente nascosta da rami spogli e matasse di nebbia, e si accorge che il delitto, l’oggetto dei suoi pensieri, non è affatto un delitto. Bensì un errore. Lo è sempre stato. Ne aveva avuto il sospetto. E più se ne allontana, più le è chiaro.
Un errore, forse, ma ormai è troppo tardi. Trudy è, dopo il feto voce narrante, il personaggio più complesso ed intrigante della vicenda: non Claude, che a differenza dell’originale shakespeariano manca di reale spessore umano, quasi un fantoccio sullo sfondo, preoccupante ritratto di uomini privi di valori e interessi, di sconcertante pigrizia mentale; è Trudy, la Lady McBeth – a voler scomodare un’altra tragedia shakespeariana – di questo dramma, a spingere il lettore verso nuovi interrogativi, dalle ragioni stesse dell’atto violento, fino al complicato rapporto tra questa madre e il figlio non ancora nato. Se in Hamlet la critica novecentesca ha usato il complesso di Edipo per spiegare la bruciante sete di vendetta del protagonista, il desiderio di rivalsa nei confronti dell’usurpatore del trono, e il disgusto provato per quella relazione tra la madre e lo zio che il protagonista giudica quasi “incestuosa”, anche nel romanzo di McEwan il rapporto madre-figlio è piuttosto complesso e reso ancor più problematico dalla condizione di pre nascita. Voler bene, come sembra suggerire l’istinto, oppure no a quella madre assassina? Una madre che non solo lo priva volontariamente del proprio padre biologico, ma che appare insensibile ad ogni affettuosità ed istinto materno, indifferente a premure ed attenzioni per la salute del nascituro così come del suo futuro stesso. Eppure, nonostante tutto, il legame tra i due è già strettissimo, istintivo, seppur non privo di dubbi ed incertezze. Il racconto di una maternità indifferente si fa a tratti disturbante, spezza uno dei tabù più difficili da accettare, il rapporto madre-figlio, destabilizzando e spingendo ancora una volta il lettore a confrontarsi con le proprie certezze.

Ne emerge, inoltre, il ritratto di un mondo che sembra dominato dal caos, un’umanità meschina ed egoista, insignificante e priva di valori, in cui non sono soltanto i rapporti personali a passare sotto la lente dello scrittore ma anche la società tutta, con il suo carico di ipocrisia e giochi di potere: 

L’Europa, a suo giudizio in piena crisi esistenziale, debole e litigiosa, cova nazionalismi compiaciuti che sorseggiano la stessa buona birra. Confusione di valori, il bacillo dell’antisemitismo in eterna incubazione, le moltitudini dei migranti esauste, inferocite, stanche. Altrove, in ogni dove, inedite ineguaglianze economiche, con i super ricchi assurti a razza dominante a parte. L’ingegno impiegato dagli stati per escogitare nuove geniali armi distruttive, dalle corporazioni internazionali per eludere il sistema fiscale, da virtuosi istituti di credito per ammassare milioni come fosse sempre Natale.
È l’ideale risposta di McEwan a chi lo accusa di essersi allontanato, con questo romanzo, dalla caratteristica attenzione per il contesto storico sociale della produzione letteraria precedente, riuscendo invece ad inserire, nel dramma privato di una famiglia in pezzi, la lucida riflessione di più ampio respiro, richiamando fantasmi di antiche paure, acuite dal clima difficile di questi ultimi anni:

La vecchia Europa si gioca a testa o croce i propri sogni, incerta fra paura e compassione, fra accoglienza e rifiuto. Commossa e generosa questa settimana, ruvida e pragmatica la prossima, vorrebbe essere d’aiuto ma detesta condividere o rinunciare a ciò che ha.
Infarcito di inaspettato umorismo nero, Nel guscio rappresenta, quindi, un esperimento piuttosto azzardato, forse non del tutto riuscito o la prova più brillante del premiato scrittore inglese, ma senza dubbio uno sforzo notevole – come notevole è, vale la pena sottolinearlo ancora, l’attento lavoro di traduzione della Basso – da un punto di vista tematico quanto strutturale, che fa della rilettura del dramma shakespeariano il pretesto per dare voce, ancora una volta, al dubbio di Amleto di fronte alla fragilità umana.
È la vita, è la morte, sono le passioni: è l’uomo moderno creato da Shakespeare, e mai superato.



di Debora Lambruschini