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#paginedigrazia: Grazia Maria Cosima Damiana, che voleva stare al mondo non solo perché "c'era posto"...

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Quasi Grazia
di Marcello Fois
Einaudi, 2016

pp. 127
13,00 euro



GRAZIA (al nulla) Fatemi andare! Lasciatemi stare, maledetti!

Febbraio 1900: Nuoro, casa Deledda. Dicembre 1926: Stoccolma, Grand Hôtel in Södra Blasieholmshamnen 8. Novembre 1935: Roma, studio medico di via Gregoriana 12. Sono queste le ambientazioni spaziotemporali attraverso le quali, nel suo Quasi Grazia, Marcello Fois sceglie di scandire sulla scena il percorso biografico e artistico dell’illustre concittadina Grazia Maria Cosima Damiana Deledda, prima e unica scrittrice italiana alla quale sia stato assegnato il Premio Nobel per la Letteratura. Atto Primo: l’abbandono della dimora paterna alla volta della Capitale insieme con lo sposo Palmiro Madesani. Atto Secondo: la vigilia della cerimonia di premiazione al cospetto dell’Accademia di Svezia. Atto Terzo: la conferma della recidiva di quel male che le sarà fatale, e che la condannerà a una morte ancora giovane.

Tre tappe cruciali, precise, eppure permeate di quella vaghezza che precede lo spiccare di un volo: appena prima del viaggio verso l’agognato Continente, appena prima della consacrazione artistica internazionale, appena prima del commiato dalla sua esistenza mortale. A fare da comprimari a Grazia ci sono il marito («la mia fortuna», come lei lo definisce più volte con dolce riconoscenza), un entusiasta giornalista scandinavo giunto apposta fin nella sua stanza d’albergo di Stoccolma per intervistarla, e un ammirato radiologo romano, a cui spetta l’infausto compito di confermarle la metastasi in corso e che non resisterà alla tentazione di chiederle un autografo con dedica su una copia di Canne al vento. Ma soprattutto c’è la Mamma di Grazia, al secolo Francesca Cambosu – presenza ora reale, ora onirica, ora fantasmatica, in ogni caso massimamente simbolica – con cui la scrittrice si confronta con immutata vis polemica a 29 come a 55 e a 64 anni. Ed ecco anche, nel Primo Atto, i due fratelli Andrea e Santus (quest’ultimo evocato fuori scena, così come il padre Giovanni Antonio), componenti maschili di una famiglia dalla virilità problematica, meno equilibrata e rassicurante di quanto sarebbe al tempo convenuto.

Come per ogni scrittura scenica, anche il sottotesto di Quasi Grazia non è meno interessante del testo vero e proprio: così, nel trascinante incalzare dialogico di questa pièce, ogni frase, ogni parola, ogni intercalare – e i sardi, e i nuoresi innanzitutto, ne riconosceranno alcuni specialmente in apertura – nasconde e rivela la complessità di mondi interiori capaci di farsi istanze simboliche senza però mai scadere nell’ovvietà dei riferimenti possibili. Per questo Grazia è al contempo, specie nella "cattività" nuorese, l'archetipo (ma non lo stereotipo) del “genio incompreso” delle belle lettere e una barbaricina ambiziosa (“barrosa”, direbbe l'autore), ma è anche, e ciò appare evidente negli anni del successo e della gloria internazionale, una donna di casa innamorata dei figli ancora piccini, per la quale l’intimità del proprio focolare è più desiderabile di qualsiasi ribalta giornalistica. E più si procede e più essa si conferma una figura in qualche modo purificata dall’arte, per nulla a proprio agio in quello che oggi si definirebbe il vanaglorioso “circo” mondano e mediatico; una donna matura, quasi dimentica di ogni antica umiliazione, al punto da non provare nessun godimento nell’incontrare e quasi non riconoscere più la bella del paese, ormai decaduta e sfatta dagli anni, che nell’adolescenza si divertiva ad avvilirla chiamandola “mostro”. Lo stesso si dica per la Mamma (senza dubbio il secondo personaggio in ordine di importanza in tutta la pièce), che per estensione rappresenta il nucleo familiare al completo, il rione nuorese di San Pietro, l’intero capoluogo barbaricino e la Sardegna tutta, ma che è anche semplice ed elementare genitrice: una madre “matrice” e nutrice a tutti gli effetti, sempre insinuante e persecutoria come un demone delle stirpe, a suo dire perfettissima ed evidentemente difettosa, capace di farsi amare – a sua volta e per inverso – come una propaggine tanto malata quanto ineliminabile; addirittura indispensabile. Una madre che, di nascosto dalla figlia in partenza, toglie alcuni libri dalla sua valigia per fare posto al costume tradizionale nuorese che Grazia non vorrebbe portare con sé, rendendosi così artefice di un scambio peculiare che al lettore e allo spettatore saprà di “investitura”.

Quasi Grazia non mostra l’artista nel suo farsi e nemmeno concede nulla al mero racconto cronologico e didattico: se nel Primo Atto, tutto domestico,  la tensione dialogica è dominata dalla frustrazione di una giovane donna che rivendica il suo diritto ad avere «i grilli per la testa» e dedicarsi a una professione nobile quale quella della scrittura, nel Secondo Atto il processo vero e proprio (la cosiddetta “carriera”) è già avvenuto, tutti i più grandi romanzi sono stati scritti, e si è in attesa che la massima onorificenza venga assegnata all’autrice; infine, nel Terzo Atto - il più "letterario" - è come se il fuoco sacro dell’arte avesse bruciato e igienizzato ogni passione, e non resta che accettare con serenità l’annuncio di un commiato dal mondo più prossimo del previsto. Eppure, pur tralasciando ogni notazione didascalica – nessun quadro del tipo “Deledda al tavolino con penna e calamaio”, per intenderci – Fois riesce comunque a portarci, a scena aperta, dietro le quinte di un ménage deleddiano in cui l’ossessione per la lettura e la scrittura precedono e condizionano ogni cosa: dal rapporto di amore e odio con le proprie origini alla routine coniugale, mostrata sotto le insegne della condivisione e della complicità con un compagno che aveva a sua volta compreso come a fare di Grazia una scrittrice autentica fosse il suo guardarsi leggere, il suo guardarsi scrivere. Nessuna celebrazione gratuita, dunque, e nessuna agiografia, bensì l’immaginazione verosimile di ciò che questa autrice destinata a divenire un classico abbia potuto rifiutare, rivendicare, rinfacciare, maledire e benedire in tre episodi cruciali della propria esistenza.

C’è poi un ultimo dato che non può essere escluso dal commento, non fosse altro che non di un’indiscrezione si tratta bensì di una certezza esplicitata in anteprima direttamente sul retro di copertina del libro: la pièce Quasi Grazia verrà difatti messa in scena con la regia di Veronica Cruciani e la produzione di Sardegna Teatro con Michela Murgia nel ruolo di Grazia Deledda, e il debutto al Teatro Eliseo di Nuoro è previsto per la prossima stagione di prosa (2017-2018). La scelta di affidare il ruolo del Premio Nobel barbaricino alla scrittrice (non attrice) di Cabras sarà stata certamente effettuata mettendo in conto ogni possibile tipologia di reazione, commento e analisi (dal sospetto di autoreferenzialità da parte della “conventicola dei sardi” al plauso per il coraggioso omaggio, tanto diretto quanto simbolico). Tuttavia, prima di giudicarla una decisione vincente o fallimentare, comoda o rischiosa, furba o provocatoria, azzardata o ridondante, non resta che aspettare lo spettacolo dal vivo. C’è da augurarsi, in ogni caso, che nella prospettiva di un avvicinamento alla scrittrice da parte di un pubblico sempre maggiore e sempre più giovane, proprio la forma teatro, per le sue stesse e intrinseche caratteristiche (ovvero: non si dà teatro senza pubblico), riesca laddove le strategie più tradizionali ancora non riescono a incidere con efficacia. L’auspicio, dunque, è che i botteghini possano vendere biglietti a quante più persone possibile, e che queste non aspettino l’apertura del sipario esclusivamente per saggiare le doti istrioniche dell’autrice di Accabadora. Per questo spettacolo c’è insomma da sperare una sorte ben diversa rispetto al sostanziale vuoto di uditorio che ancora accompagna i convegni e i dibattiti accademici, che pur aprendo gratuitamente le porte ai non soli addetti ai lavori continuano ancora – purtroppo, ma con tutta evidenza – a peccare di (compiaciuta?) intransitività. E a questa sfida sembra invitare lo stesso ritratto della scrittrice scelto per la copertina, che dal suo sembiante ancora giovane, con i capelli corvini e lo sguardo fisso, fiero e diffidente sotto l’ombra del cappellino alla moda, ancora ci interroga sui nostri drammi, irrisolti perché eterni. In questo libro c’è il suo, quasi paradigmatico di un voler stare al mondo rivoluzionario, e non solo perché – sattianamente – “c’era posto”.

Cecilia Mariani