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Il falsario di Recanati: l'Inno a Nettuno e le Odae adespotae di Giacomo Leopardi

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Inno a Nettuno 
Odae adespotae 
di Giacomo Leopardi

a cura di Margherita Centenari
Marsilio, 2016

€ 26,00 [cartaceo]



Stampati a Milano nel maggio del 1817 sulla rivista "Lo Spettatore Italiano, l'Inno a Nettuno e le Odae adespotae di Giacomo Leopardi attestano la conversione di interessi del giovane conte recanatese avvenuta intorno al biennio 1815-1816. Fino a quel momento, come è noto, il futuro poeta degli Idilli aveva circoscritto le sue attenzioni esclusivamente "allo studio delle lingue, e della filologia antica" (Zib., p. 1741 - 19.9.1821), esprimendo contestualmente un giudizio assai negativo sull'attività letteraria: "io disprezzava quindi la poesia" (Ib.). Nel corso di questo biennio maturano dunque le premesse che consentiranno quel passaggio decisivo nella formazione culturale leopardiana per cui, secondo una celebre e iconica immagine di De Sanctis relativa al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, la biblioteca paterna "a poco a poco gli esce tutta di sotto la penna".

A questo proposito, la ricostruzione delle vicende compositive ed editoriali dell'Inno a Nettuno e delle Odae adespotae rappresenta un tassello di indiscusso interesse all'interno degli studi leopardiani per la capacità di offrire inedite spigolature ermeneutiche tanto sulla figura del filologo e traduttore dei primi anni quanto su quella immediatamente successiva del letterato e del poeta. Almeno è questa la tesi di Margherita Centenari, giovane e promettente studiosa dell'Università di Parma, che raccoglie in questo volume edito da Marsilio i frutti della sua ricerca di dottorato sulle due opere sopracitate, in verità poco frequentate dalla vulgata critica leopardiana. Si tratta, nello specifico, di due vere e proprie 'contraffazioni d'autore' che si innestano nel contesto dell'acceso dibattito culturale sulle traduzioni e sull'eredità del mondo classico suscitato dagli interventi di Madame de Staël. L'intento del giovane recanatese, come sostiene la Centenari, è dunque duplice: se da una parte non si può negare l'ossatura e la muscolatura di divertissement - seppure di natura erudita - di queste composizioni, dall'altra appare piuttosto evidente, a posteriori, la volontà, "ben più seria, di inserire la propria voce in maniera autonoma e personale" all'interno di quel dibattito.

Quello che emerge in primo piano, dalla lettura dell'Inno e delle Odae, è l'assoluta perizia con cui l'allora diciottenne Leopardi (la stesura dei due 'falsi' risale al 1816) riesce a ordire la messinscena del presunto rinvenimento da parte di un "Ciambellano di S[ua] M[aestà] I[mperiale] R[eale] A[postolica], Cavaliere dell'Ordine Gerosolimitano", coperto grazie a una ben congegnata astuzia dall'anonimato, di un "Codice tutto lacero, di cui non rimangono che poche pagine" contenente un "Inno greco" e due intere Odi che "di buon grado io le ascriverei ad Anacreonte". All'interno di questa fictio, irrobustita da un corredo paratestuale che comprende tra l'altro l'Avvertimento al lettore e il fine apparato di note in calce, Leopardi si riserva dunque il semplice ruolo di traduttore nonché di commentatore di alcuni punti salienti del testo.

Per lo studioso odierno tutto ciò fornisce un'ulteriore conferma semantica della categoria di imitatio, che nell'accezione leopardiana differisce da quella prettamente neoclassica per il riferimento alla "naturalezza" degli exempla greco-romani. Scrive infatti l'attenta curatrice:
Come quella delle versioni, anche la lingua dell'apocrifo si proponeva di conservare l'eco della naturalezza greca, ma in esso questa risonanza non era prodotta attraverso l'adesione ad un testo reale, bensì mediante una resa italiana che, fingendosi traduzione, fosse in grado di far trasparire al di sotto della sua superficie i tratti di un'opera autenticamente antica. Il camuffamento così ottenuto sanciva un nuovo rapporto tra vertere e inventio. 
È proprio l'equilibrio tra questi due poli che presiede alla già menzionata conversione letteraria di Leopardi. Da questo punto di vista, al di là delle interessanti implicazioni inerenti al 'classicismo' del recanatese - il rapporto con il patrimonio culturale delle origini, soprattutto omerico e anacreontico; lo studio del meccanismo dell'allusione antica in riferimento alla "memoria dotta" del lettore; la constatazione di un certo "alessandrinismo" leopardiano; ecc. -, è di assoluto rilievo il tentativo della Centenari "di istituire un solido e comprovato collegamento tra falsi e Canti" a partire dal "domandarsi se la poetica dell'allusione e del calco attiva in Inno e Odae abbia concretamente inciso sulla genesi di certe immagini e situazioni proprie dei Canti, confermandosi come terreno fertile per il classicismo leopardiano, anche al di là della testimonianza relativa alla predilezione per loci rimasti cari all'autore". I risultati di questa indagine, pur prescindendo dal supporto di alcuni recenti strumenti ausiliari alla critica testuale, che in una certa misura avrebbero potuto essere utili a questo fine (uno su tutti quello delle concordanze, pubblicate negli anni novanta da Giuseppe Savoca per l'editore Olschki), sono certamente degni di trovare un valido riscontro presso l'ambito della critica leopardiana.


Pietro Russo