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Un'armata di bambini di cui gli adulti si dimenticano: l'occasione sprecata di Roberto Saviano

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La paranza dei bambini
di Roberto Saviano
Feltrinelli, 2016

pp. 352
Brossura 18,50€

Fottuto o fottitore: è in queste due categorie che si divide il mondo secondo Nicolas Fiorillo, detto o’ Maraja, protagonista (non unico) del nuovo libro di Roberto Saviano. I mini-boss de La paranza dei bambini sono i nuovi adepti della camorra 2.0 raccolti in una banda di adolescenti che si ispirano a Il camorrista di Giuseppe Tornatore, seguono i precetti de Il Principe di Machiavelli (che insegna a cumannà) e «tengono armi e palle» come i terroristi dell’ISIS con i quali condividono ambizioni e barbe lunghe. Persino i casalesi appaiono dei miserabili da rottamare in confronto al loro immaginario governato dagli X-Men, da Quentin Tarantino e Dan Bilzerian, essendo cresciuti a kebab e Call of Duty, spesso nerd incalliti con le braccia come estensione dei pc. Imitano la cresta e l’atteggiamento strafottente di Genny Savastano (in una sorta di meta-letterarietà forse eccessivamente autoreferenziale da parte di Saviano) e sognano l’ascesa criminale di Walter White - Heisenberg in Breaking Bad.

I paranzini non sono ragazzi di periferia, né figli di proletari ma di famiglie piccolo o medio borghesi che trovano nel denaro facile e nella violenza l’unica forma di affermazione possibile. Maraja, Pesce Moscio, Dentino, Lollipop, Drone costruiscono il progetto di diventare i nuovi padroni di una Napoli oramai cambiata, a tratti irriconoscibile, ma che sentono come il loro territorio di diritto su cui esercitare il potere tanto agognato, conquistando piazze di spacci, sante barbare (arsenali) fornite di prodotti di prima qualità e controllo assoluto delle estorsioni ai commercianti. Un progetto che sembra non avere alcun impedimento sul suo cammino, nonostante l’età degli esecutori e la loro inesperienza.

Per la prima volta, a dieci anni dalla pubblicazione del libro che nel 2006 gli cambiò la vita, Saviano scrive un romanzo di finzione. La forma cambia ma l’incipit è lo stesso che Francesco Rosi scelse per Le mani sulla città: “I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. Tuttavia tra Gomorra e La paranza dei bambini c’è stato, sì, il libro-inchiesta sul narcotraffico Zero zero zero, ma la vera e determinante esperienza è stata la scrittura due stagioni di Gomorra- la serie, un prodotto ben fatto e dalla caratura internazionale, esempio coerente e riuscito del nuovo filone della serialità televisiva contemporanea. La svolta vera e propria è stata la relazione con un processo di scrittura affine alla forma del romanzo molto più di quanto non lo sia stata la non-fiction con cui Saviano ha esordito. Una serie televisiva si scrive, generalmente, prevedendo quattro o cinque caratteri in primo piano, tutti psicologicamente ben studiati e interessati da importanti archi di trasformazione. Dopo l’esperienza di Gomorra - la serie, è piuttosto evidente che il modo in cui Saviano strutturi una storia si sia modificato, assicurando a La paranza dei bambini una coerenza interna molto forte su due piani. 

Sul piano della psicologia e della coralità dei personaggi principali, che al lettore sembra di conoscere da sempre, e sul piano del linguaggio, frutto di una raffinata ricerca che Saviano conduce sull’evoluzione linguistica del napoletano, imbastardito da luoghi comuni del tempo di internet e proprio per questo vittima di un’omologazione crescente. Questi nuovi aspiranti camorristi, del resto, non hanno nemmeno più bisogno di maestri o di iniziazioni, a Forcella o a Scampia o altrove. Sono sempre connessi e su YouTube trovano la risposta a ogni interrogativo, anche come si usa un ferro o un kalashnikov: «YouTube è il maestro sempre».

Una lettura entusiastica nelle prime battute, ma che si risolve in una parabola dalla precipitosa caduta nelle fasi finali. I meriti poco sopra elencati offuscano le altre caratteristiche del testo e a partire da metà del racconto non si riesce più a seguire il filo della storia, quando tra nomi di finzione si insinuano riferimenti a cosche e clan realmente esistenti ma mai citati fino a quel momento. Le azioni dei personaggi sembrano presentate come fini a se stesse e per il mero gusto di forzare la mano sul piano della violenza e della crudezza, senza un effettivo riscontro sul piano dello svolgimento. Il dramma, che apparentemente registra un picco emotivo proprio sul finale, non riesce a incidere e assume l’aspetto di un’occasione sprecata, da parte dell’autore, di compiere il passo definitivo in grado di emanciparlo dalla figura di cliché e sintesi di pregiudizi che gli viene frequentemente affibbiata, facendo capire invece che la scrittura per lui non ha solo un fine cronachistico. Fiduciosi che le nuove evoluzioni letterarie (e non, vista l’attesa per la terza stagione di Gomorra – la serie) di Saviano riserveranno piacevoli sorprese, prendiamo atto della crescite e delle modifiche di un autore sollecitato da mille stimoli comunicativi, in un mondo dai ritmi così veloci che spesso dimentica il destino e le sorti assegnati ai paranzini di quartiere.

Federica Privitera