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«Caro Giacomo, ti scrivo...»: L'epistolario fortemente autobiografico di D'Avenia

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L'arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita
di Alessandro D'Avenia
Mondadori, 2016

pp. 216
€ 19 (cartaceo)



«Riuscireste voi a trasformare in canto il dolore della vita, i vostri fallimenti, la vostra inadeguatezza? A nutrirvi del vostro destino, più o meno fortunato che sia, per farne un capolavoro immortale? […] Abbassano le difese, ché questo è il compito della letteratura: rendere l’uomo più vero e autentico, spogliandolo delle menzogne che lo allontanano da sé, dalla vita, dagli altri. Così si risveglia la passione assopita, la propria originalità, e si confina la paura di non essere “abbastanza”». (pp. 39-40)
Gli interrogativi e l'esperienza sono alla base di questo nuovo libro di Alessandro D'Avenia, L'arte di essere fragili, dedicato a una lezione leopardiana che non resta chiusa tra i quattro muri di una classe, ma parla di vita, di insegnamento, di adolescenza e di riscatto. Di quella fragilità atavica che non dobbiamo respingere, ma accogliere e apprezzare a fondo, per poi dirottarla verso le nostre vocazioni. 
Partendo dal presupposto che «solo chi vive il suo rapimento genera rapimenti e provoca destini», D'Avenia tiene un singolare epistolario d'eccezione con Giacomo Leopardi, all'insegna dell'attenzione ai sensi e alle emozioni: ritmate in sezioni che prendono il loro titolo dalle diverse fasi della vita - di Leopardi come di ognuno di noi -, D'Avenia domanda e si confronta con il poeta recanatese, che risponde attraverso i suoi testi poetici celebri, passi dallo Zibaldone e dalle lettere. Perché in fondo i classici non smettono mai di intrattenere con i lettori un dialogo aperto, che in ogni epoca suscita domande e meraviglia. E l'uomo moderno ha ancor più bisogno di lasciarsi andare allo stupore, partendo dal presupposto che «la poesia intercetta per prima ciò che l’uomo rischia di perdere, perché ne sente per prima la nostalgia» (p. 59).

Ma non si creda che L'arte di essere fragili sia un vademecum per vivere meglio e trovare la felicità, come erroneamente si potrebbe dedurre dalla quarta di copertina e dallo strillo. È molto di più: è un ibrido tra autobiografia ed epistolario, occasione per parlare di letteratura e di insegnamento senza erigersi a magister sommo, ma partendo dall'esperienza. Nelle lettere di D'Avenia si infilano allora le parole di suoi studenti e lettori, che hanno superato o ancora stanno affrontando situazioni complesse e hanno trovato confronto, conforto e rispecchiamenti nella letteratura. E si badi, non si tratta neanche dell'ennesimo incitamento a un consumo bulimico e quantitativamente esteso di prodotti culturali; tutt'altro:
«Ci si illude che consumando più libri, più musica, più quadri si acquisirà più cultura. Conosco persone che consumano tantissimi oggetti culturali, però questo non le rende più umane, anzi spesso finiscono con il sentirsi superiori agli altri. Cultura vuol dire stare nel campo, farlo fiorire, a costo di sudore».
«Questa generazione di adolescenti è più rapida delle precedenti, entra in contatto con molto più mondo in meno tempo, conosce più cose della mia, ma ha anche un punto debole: ha meno criteri di decodifica dei messaggi, non sa da dove si prenda il mondo, indossa la realtà spesso al contrario, come una maglietta in cui non si distingue il davanti dal dietro, l’esterno dall’interno. Trova la soluzione a furia di provare e riprovare, se non si scoraggia prima. Abbiamo dato loro tutto per godere la vita, ma non abbiamo dato loro una ragione per viverla. Abbiamo scambiato la felicità con il benessere, i sogni con i consumi». (pp. 34-35)
L'invito è quello di mettersi in ascolto, godendosi le parole della letteratura, andando a fondo e confrontando la propria esperienza con quella narrata o poetata, perché «la nostra bulimia di informazione ne ha diminuito la sapienza, cioè la capacità di andare in profondità, di cui la connessione continua è un seducente surrogato che ci costringe in un eterno presente» (pp. 62-63). Fuggire dalla trappola del perenne hic et nunc è possibile, come dall'ansiogena ricerca di perfezione che impone la nostra società contemporanea: è la letteratura a insegnarci che essere fragili è un valore, non una debolezza deteriore. Ed ecco che Leopardi, con le sue poesie e le sue precocissime riflessioni filosofiche nello Zibaldone ha aiutato il D'Avenia-adolescente:
«Il consiglio che mi hai dato quando avevo diciassette anni era proprio di abitare la terra dei forse, tra ali e forza di gravità» (p. 92)
Allo stesso modo, il compito che si prefigge D'Avenia-insegnante oggi è proprio questo:
Una studentessa mi chiese per cosa spendo la mia vita. Io le risposi porgendole un fiore di campo, una margherita piccolissima: “Per difendere la bellezza delle cose fragili”. (p. 147),
ovvero far comprendere a ogni studente che «essere fragile non è una colpa, ma un viaggio in compagnia di tutti gli altri, anche me» (pp. 147-148), aiutandolo a trovare un posto nel mondo. Non quello che vuole la scuola o a cui aspirano i genitori, ma la propria vocazione autentica. Ed ecco che emergono spaccati di vita quotidiana a scuola, tra aspirazioni altissime e riscontri da parte dei ragazzi. Allora le lettere si intridono di vita vera e D'Avenia non teme di mettere a nudo anche le sue fragilità, che fanno da controcanto ai desideri di trasformare la scuola in una struttura più libera, meno asservita ai programmi, più tesa all'ascolto, dove la fatica non è bandita, ma finalizzata a realizzare la vocazione di ogni ragazzo. 
Lasciamo che siano stralci da L'arte di essere fragili a parlare, tra metafore e similitudini: 
«Non credo che a scuola l’alternativa sia tra dubbi e certezze, ma tra libertà e schiavitù» (p. 35)
«Questa è la poesia del mio mestiere: immaginare il loro compimento, sapendo che solo alla fine scoprirò cos’era ciò che avevo intuito in quei capolavori di carne e spirito. Loro sono la mia biblioteca di inediti» (p. 53).
«Sogno una scuola di rapimenti, una scuola come bottega di vocazioni da coltivare, mettere alla prova e riparare. Una scuola in cui l’insegnante sia il postino che porta le lettere di altri all’indirizzo di ogni studente. La scuola che ciascuno di noi ricorda in quel professore speciale, che ci ha guardato come qualcuno e non come qualcosa, cominciando così a farci fiorire» (p. 187)
«Sogno una scuola in cui la letteratura valga più della storia della letteratura, leggere più del dover leggere, la parola più del programma» (p. 188)
«Spaccare il guscio e lasciare che ogni fiore sia, è il compito di ogni maestro. Se fare l’insegnante è ascoltare le persone, scrivere per me è ascoltare personaggi. In entrambi i casi cose fragili, che chiedono di avere un destino, di esistere un po’ di più, di non cadere nel nulla dell’indifferenza» (p. 206).
Tra obiettivi e possibilità di realizzazione, c'è tutto quel complicatissimo gioco di equilibri che ogni professore deve realizzare, quando si trova a tu per tu con la classe. Ma certamente leggere L'arte di essere fragili per un insegnante è rinvigorente: niente di nuovo sotto il profilo dei testi interpretati (d'altra parte, l'opera non vuole essere letta come un volume di critica), ma tanta passione nel raccontare e nel calarsi nel messaggio autoriale. I classici tornano a vivere, viene da pensare, e subito si vuole tornare in classe e portare un po' di questo entusiasmo. L'unica perplessità (sarà poi legittima?) riguarda il lettore ideale di D'Avenia, che stavolta sembra non concretarsi più nel gruppo di adolescenti dei suoi romanzi. Grande curiosità, dunque, su come quest'opera composita e certamente viva sarà recepita dai lettori reali. Se l'epistolario sarà un escamotage per riportarci a leggere Leopardi, al di fuori dei programmi scolastici, attendiamo la prossima. E nel frattempo riapriamo le opere di Leopardi.

GMGhioni



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