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Eccomi: il romanzo-mondo di Foer

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Eccomi
di Jonathan Safran Foer
Guanda, 2016

Traduzione di Irene Abigail Piccinini
Titolo originale: Here I am

pp. 667
€ 22 (cartaceo)



Non esiste una sola storia con un cellulare che finisca bene.

E questa non può fare eccezione. Undici anni dopo il suo ultimo romanzo – durante i quali l’autore si è dedicato ad altri progetti, letterari e non – il ritorno in libreria di J.S. Foer è stato uno dei più attesi della stagione autunnale, similarmente a quanto avvenuto pochi mesi fa per l’uscita di Purity di Franzen. Un romanzo-mondo, lungo, complesso, denso di temi e spunti di riflessione a partire dal cuore della storia: la fine di un matrimonio. Perché forse è proprio qui che la narrativa americana contemporanea da il meglio di sé, nell’analisi – spesso spietata – del crollo del mito borghese e del suo principale simbolo, il matrimonio, di cui rivela tutte le imperfezioni, le infelicità dietro l’apparenza di perbenismo, manie e nevrosi, spingendosi sempre oltre per insinuare dubbi e destabilizzare il lettore.
La riflessione intorno al fallimento di un matrimonio è, appunto, centrale in quest’ultimo lavoro di Foer, che si allontana da tutto quello che l’autore ha scritto fino a questo momento aprendosi, forse, ad una nuova fase della sua carriera letteraria. Talento precoce, tra le voci più interessanti della sua generazione, lo scrittore newyorkese aveva conquistato il favore di pubblico e critica grazie ad uno stile fresco ed originale, l’ironia pungente, il desiderio di superare convenzioni e mode, per costruire storie capaci ogni volta di sorprendere, in forma differente. Se dei tre romanzi pubblicati, Molto forte incredibilmente vicino resta per me la sua opera più intensa, struggente ed originale, Eccomi rappresenta – come si diceva – una nuova fase della carriera letteraria – e personale – dell’autore, un romanzo senza dubbio profondo e complesso, ma anche imperfetto.
Al centro della storia una spaccatura, il crollo di un’apparentemente perfetta felicità coniugale e la riflessione sulla possibile fine del matrimonio. Una coppia come tante, Jacob e Julia Bloch: una bella casa, la stabilità economica, tre figli maschi – Sam, Max e Benjy – , un cane, la quotidianità, le riunioni di famiglia. La middle class, di cui Foer mette brillantemente in scena nevrosi, paure e contraddizioni che si rivelano, sempre più evidenti, dopo la scoperta di un presunto tradimento e il caos che ne deriva. Ma non sono soltanto i messaggi erotici che Julia scopre sul telefono del marito a rivelare le crepe di un matrimonio e una famiglia solo in apparenza perfetti: una coppia che dopo tanti anni ha perso la capacità di comunicare e il desiderio di comprendersi davvero, un uomo e una donna che non sanno come ritrovare sé stessi, tra frustrazioni e desideri repressi; un rapporto genitori-figli non sempre facile, errori che destabilizzano, incomprensioni e ruoli da interpretare, il difficile confronto con il modello paterno. È, quindi, riflessione su un matrimonio e una famiglia che va alla deriva e si interroga su come affrontare la delusione e la sofferenza, tra il ricordo della vita che era prima e quello che è rimasto, colpe e mancanze dell’uno o dell’altro.
Ed è anche molto, moltissimo altro, per quello che è stato appunto definito un romanzo-mondo dove Foer intreccia storia privata a politica, religione, critica sociale, dove nulla viene risparmiato. Ma è proprio questo, a mio avviso, il limite maggiore del romanzo (e forse di una certa parte della narrativa contemporanea): la sovrabbondanza. Eccomi è un’opera estremamente ambiziosa, intrisa di innumerevoli spunti e temi, che necessitano una lettura attenta e misurata per rendere giustizia al complesso mondo creato dall’autore; lettura, quindi, su più livelli, scoprendo al di là della trama immediata, contenuti più o meno evidenti, spesso problematici, che inevitabilmente spingono il lettore ad interrogarsi su sentimenti, relazioni, famiglia ed eredità storica, in un mondo che si fa sempre più complesso. Una sovrabbondanza che l’autore cerca di dominare, riuscendo in questo dove altri, meno esperti, avrebbero sicuramente fallito: abile narratore, Foer elabora una storia complessa, ricchissima, che a tratti stordisce e fa perdere di vista l’essenziale, il punto centrale su cui focalizzare l’attenzione, ma che allo stesso tempo si rivela come opera-mondo capace di sfidare il lettore e spingerlo ad una lettura più attenta, profonda, che possa stimolare la riflessione e il dibattito. Pur prediligendo narrazioni più essenziali, scarne, destabilizzanti, è innegabile come il romanzo di Foer riesca nonostante limiti e difetti a spingerci proprio in quella direzione.

Un’architettura elaborata che si affida, di contro, ad una narrazione semplice, non completamente lineare ma senza dubbio più tradizionale rispetto, per esempio, a quanto creato in Molto forte incredibilmente vicino: in quest’ultimo romanzo, al contrario, la narrazione è stilisticamente meno sperimentale, affidata a dialoghi e riflessioni dell’uno o dell’altro personaggio cui si inseriscono, nella seconda sezione del romanzo, stralci di interviste e cronache ad enfatizzare l’attenzione sul tema politico divenuto da quel momento dominante. È senza dubbio il romanzo più realistico di Foer eppure, allo stesso tempo, i dialoghi sono talvolta troppo artificiosi, letterari, difficili da immaginare nella realtà. Ma che, probabilmente, servono a sottolineare la distanza, l’incapacità di comunicare e comprendersi: di dire «eccomi», come Abramo alla chiamata di Dio, deciso a sacrificare il proprio figlio, di dire sono qui, pronto ad ascoltare davvero e parlare onestamente. Una distanza impossibile da superare, tra Jacob e Julia, un tempo amanti legati da sentimento e desiderio:
In passato il contatto fisico li aveva salvati. Per quanto intensa fosse la rabbia o per quanto si sentissero feriti, per quanto fosse profondo l’abisso della solitudine, un contatto, anche un contatto fugace, bastava a restituire la storia del loro legame. Una mano sul collo: riemergeva tutto. Una testa appoggiata alla spalla: la chimica montava, la memoria dell’amore. Certe volte era quasi impossibile superare la distanza dei corpi, cercare il contatto. Certe volte era impossibile.
Ora incapaci di avvicinarsi, parlare davvero, urlare, se necessario. La spaccatura tra loro è troppo profonda, il tradimento solo un pretesto per mettere in discussione un matrimonio in crisi già da tempo ma di cui nessuno dei due sembra capace di assumersi la responsabilità di trovare una soluzione, capire quale sia la strada giusta da prendere, preferendo procedere così, in punta di piedi, attenti a non ferire i figli coinvolgendoli nella loro sofferenza, nelle discussioni bisbigliate che solo qualche volta sfociano in liti aperte:
Né Jacob né Julia capirono esattamente che cosa stava succedendo in quelle due prime settimane dopo che Julia ebbe scoperto il cellulare: che cosa era stato concordato, implicato, affrontato in via ipotetica, chiesto. Nessuno dei due capiva che cos’era reale. Era come muoversi tra tante mine emotive; procedevano da un’ora all’altra e da una stanza all’altra con i cuori in punta di piedi, con grosse cuffie collegate a sensibilissimi metal detector capaci di scovare tracce di sentimenti sepolti, anche a costo di tagliare fuori il resto della vita.
È rappresentazione di adulti imperfetti, quarantenni tra crisi e nevrosi che cercano disperatamente di trovare sé stessi dopo che tutto si è disfatto per sempre e di venire a patti con una vita al di sotto delle proprie aspettative, dove è impossibile ammettere di essere infelici ma che finisce col scivolare via, mettendo sempre più distanza fra « dove sei e quello che ti eri sempre immaginata », tra i sogni e l’incoscienza della gioventù e la frustrazione dell’età adulta. Immaturi, forse, frustrati, senza dubbio. E insopportabili, a tratti. Incapaci, mediocri, infelici, pieni di difetti e contraddizioni, irritanti qualche volta. Umani.
Ma non sei neanche capace di ammettere che ti serve di più, che vuoi di più. E non solo non lo ammetti con gli altri, non sei capace di ammettere la tua infelicità neanche con te stesso.
I figli, che osservano cercando di comprendere, a loro volta incastrati nei propri problemi, nelle difficoltà di diventare grandi fra paure, dubbi esistenziali e scelte che sembrano impossibili da capire, errori, sensi di colpa.

Solitudini quotidiane, incapacità di comunicare, frustrazione, distanza. Ancora, il confronto con la figura paterna, la vecchiaia, la perdita. E, fondamentale, con l’essere ebreo, tra i temi centrali nella produzione letteraria di Foer che torna anche in questo romanzo, prepotentemente.
Un tema esplorato nelle sue tante sfumature, inevitabilmente intrecciato alla riflessione politica e al peso dell’eredità storica, senso di colpa, tradizione, coerenza. La politica, soprattutto, forte della convinzione che «niente è non politico», specie se sei ebreo. In questo intrecciarsi tra storia privata e non, Foer da il meglio di sé, fondendo realtà e finzione e cercando di restituire sulla pagina la complessità di un tema delicato, di tremenda attualità, con cui ci chiama a fare i conti. Un coro polifonico affidato ai personaggi che, ognuno a proprio modo, si fa portavoce di un personale punto di vista su religione e politica allo scopo di stimolare la riflessione e il dibattito, mettendone in luce contraddizioni, complessità, nodi problematici, senza temere di suscitare polemiche.
Il mondo odia gli ebrei. Lo so che secondo te la grande presenza degli ebrei nel mondo culturale dimostrerebbe il contrario, ma è come dire che il mondo ama i panda perché la gente si precipita a frotte a vederli negli zoo. Il mondo odia i panda. Li vuole morti. Compresi i cuccioli. E il mondo odia gli ebrei. Da sempre. E sempre li odierà. Si, si possono usare parole più pacate e inquadrare il tutto nel contesto politico, ma l’odio è sempre odio ed è sempre perché siamo ebrei.
È Irving Bloch, il padre di Jacob, blogger ed intellettuale, il personaggio più diretto e polemico, che non teme di esprimere le proprie opinioni: su cosa significa essere ebrei nel mondo contemporaneo, su religione e politica, perfino sulle scelte di vita del figlio. Ma sarà proprio Jacob, alla fine, a confrontarsi direttamente con quel mondo che sembra implodere, chiedendosi che cosa implichi, davvero, essere ebrei americani ed esserlo in Israele in un momento estremamente critico come quello immaginato dall'autore in questa storia, cercare di venire a patti con il passato, la negazione della fede, il senso di colpa, il desiderio di dare il proprio contributo:

La reazione degli ebrei americani all’Olocausto era: «Non dimenticare mai», perché c’era una possibilità di dimenticare. In Israele, facevano suonare per due minuti la sirena antiaerea perché altrimenti non avrebbe mai smesso di suonare.

Storia intima e universale insieme, Eccomi è un romanzo complesso, imperfetto, maturo, capace di suscitare sentimenti contrastanti, destabilizzare e spingerci a riflettere: un’opera-mondo, appunto, a cui concedere un adeguato tempo di lettura. Per comprenderla fino in fondo, assimilarla e, alla fine, giudicare con il dovuto distacco.



Qui la recensione di Gloria Ghioni