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Me before you: una storia intensa che fa discutere

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Io prima di te
di Jojo Moyes
Mondadori, prima edizione 2013

Traduzione italiana di Maria Carla Dallavalle

pp. 396
€ 13 (cartaceo)


Indipendentemente da quale punto di vista io decida di abbracciare nel recensire questo libro e il film che ne è stato tratto, temo che sia impossibile evitare le polemiche che negli ultimi mesi sono scoppiate intorno a questa storia. Come, devo avvertire il lettore, dovrò anche anticipare alcuni aspetti della trama, gli stessi che si sono rivelati più problematici nell'acceso dibattito – non più solamente critico letterario - sviluppatosi soprattutto in seguito all’ uscita del film. Fatti i dovuti avvertimenti sul rischio spoiler, è doveroso confrontarsi con le tematiche che hanno alimentato in questi mesi la polemica sulla storia ideata da Jojo Moyes, senza timori e, allo stesso tempo, cercando di non perdere di vista l’obiettivo critico centrale in tal sede. E ammettere che la lettura di questo romanzo mi ha sorpresa, per l’intensità dei temi trattati, il coraggio con cui l’autrice racconta una storia problematica, che destabilizza, solleva dubbi, spinge a riflettere, a porsi domande scomode. Non mancano, da un punto di vista strettamente letterario, ambiguità, difetti impossibili da ignorare, incertezze e scelte di comodo, ma in generale ho apprezzato il tentativo dell’autrice – in parte riuscito – di costruire una storia profonda, capace di andare oltre il romanzetto rosa dalla trama piuttosto scontata e provare a creare invece qualcosa di più forte, correndo qualche rischio.
Pubblicato in Inghilterra nel 2012, Me before you è in breve diventato un bestseller mondiale, da cui – oltre ad un sequel fortemente voluto dai lettori che personalmente invece non ho particolare interesse a leggere – quest’anno è stato tratto l'omonimo film di cui la stessa autrice ha curato la sceneggiatura, attesissimo dal pubblico e di recente uscito anche in Italia. Protagonisti due volti noti , Emilia Clarke (divenuta celebre nel ruolo della madre dei draghi Daenerys Targaryen di Game of thrones) e Sam Claflin (Hunger Games), che la regia di Thea Sharrock guida al cuore del romanzo di Moyes; una sfida notevole, quella di Clafin, sia dal punto di vista emotivo che fisico, ma degnamente superata mentre non altrettanto all'altezza appare l'interpretazione della Clark, a tratti decisamente sopra le righe (ben oltre le eccentricità del personaggio stesso) ed esasperata. Ed è, soprattutto, in seguito all’uscita del film negli Stati Uniti che, come si diceva, il dibattito intorno a questa storia si è fatto acceso, alimentando una polemica non ancora esauritasi sul tema della disabilità, dell’eutanasia e del dolore.

La vita di Will Traynor, carismatico, vitale, affascinante trentenne con una lanciatissima carriera nella City, ha infatti improvvisamente un devastante mutamento di rotta quando, in seguito ad un incidente, l’uomo subisce un trauma irreversibile che lo costringe su una sedia a rotelle, paralizzato dal collo in giù e con mobilità estremamente limitata di braccia e mani.
L’ultima cosa che vede è un guanto di pelle, un viso sotto un casco, il suo stesso choc riflesso negli occhi di un uomo. Un’esplosione, e tutto si frantuma in una miriade di frammenti. E poi il nulla. 

Ciò che era, ciò che sognava ed amava, ora non significa più nulla di fronte alla tetraplegia e l’abisso in cui è precipitato: un’esistenza stravolta, fatta di dolore continuo, medici e un corpo sempre più debilitato, sporadici contatti con il mondo fuori dalla dependance di famiglia adattata alla sua nuova condizione; due anni dopo l’incidente, non sembra restare più nulla dell’uomo che era, distrutto nel fisico quanto nell’anima: 

Notai che sembrava determinato a non somigliare neanche lontanamente all’uomo che era stato: si era lasciato crescere i capelli castano chiaro in un cespuglio informe, e una barbetta ispida gli si insinuava sulla mascella. I suoi occhi grigi portavano i segni dello sfinimento o di un costante malessere (Nathan diceva che raramente non aveva disturbi). Avevano l’aria vuota di chi era sempre un po’ distaccato dal mondo che lo circondava. A volte mi chiedevo se fosse un meccanismo di difesa, se per lui l’unico modo di affrontare la vita fosse fingere che tutto questo stesse capitando a qualcun altro. 

E deciso a mettere fine ad una vita che non può sopportare: una lesione permanente senza speranza di miglioramento, la sofferenza fisica con cui costantemente è costretto a confrontarsi e l’impossibilità di accettare questa condizione, lo avevano infatti spinto a tentare il suicidio fino alla decisione di rivolgersi ad una clinica in Svizzera dove è praticata l’eutanasia. Sei mesi, il tempo chiesto dai genitori – nella speranza che qualcosa, qualsiasi cosa, possa persuaderlo – prima di accompagnarlo in quell’ultimo viaggio. Un dolore fortissimo per la famiglia Traynor, divisa tra chi, nonostante l’enormità della sofferenza, accetta la decisione di Will e chi non può sopportare di perdere per sempre quel figlio amatissimo: 

Fu soltanto quando riportammo a casa Will, una volta ristrutturata la dependance, che riuscii a trovare un motivo per renderlo di nuovo bello [il giardino]. Dovevo dare a mio figlio qualcosa da guardare. Sentivo il bisogno di dirgli, silenziosamente, che le cose potevano cambiare, crescere o appassire, ma che la vita andava avanti. Che noi tutti facevamo parte di un grande ciclo, di un disegno che solo Dio poteva capire. Non potevo farlo a voce naturalmente – io e Will non siamo mai stati capaci di comunicare molto – , ma volevo dimostrarglielo. In un certo senso la mia era una promessa silenziosa che esisteva un progetto più ampio, un futuro più luminoso. 

La rabbia di fronte alla crudeltà della natura, del mondo, che ancora nonostante tutto va avanti mentre quella bellezza un tempo tanto amata sembra ora un’oscenità di fronte alla prova crudele cui il destino li ha messi di fronte due anni prima, e la sofferenza, ora, per una scelta che sembra impossibile da accettare.
È nella speranza di riaccendere nel figlio il desiderio di vivere, nonostante tutto, che Camilla Traynor assume la ventiseienne Louisa Clarke, chiacchierona, impacciata e stravagante, come assistente domiciliare. Senza rivelarle il delicato compito che è in realtà chiamata a svolgere, ma spingendola a vedersi come l’ennesimo tentativo di tirare Will su di morale, una compagnia che possa in qualche modo alleggerire il peso della sua attuale condizione. E se la sconvolgente verità su quanto ci si aspetta da lei sarà presto chiarita a Lou, il rapporto tra lei e Will sarà – ça va sans dire – complicato e problematico, dal punto di vista fisico ed emotivo. Che cambia, in maniera del tutto inaspettata e totale, la stessa Lou: Will, sarcastico, dall’intelligenza vivace, brillante, la spinge suo malgrado a prendere in mano la propria vita, a trovare dentro di sé il coraggio per non accontentarsi, superare antichi traumi e scegliere la vita che vuole, davvero. 

Non riesco proprio a capire come tu possa accontentarti di vivere una vita così scialba. Una vita che si svolgerà quasi interamente nel raggio di dieci chilometri e non includerà nessuno che saprà mai sorprenderti, né stimolarti, né mostrarti cose che ti faranno girare la testa e non ti lasceranno dormire la notte. 

Un rapporto che, è facilmente intuibile, si evolverà dopo l’iniziale diffidenza in qualcosa di profondo, un sentimento inatteso e totale che sorprende entrambi, una storia d’amore decisamente poco convenzionale ma ugualmente intensa e che, al di là della prevedibilità, getta anche una luce nuova sulla vicenda e suscita inevitabili domande nel lettore: l’intimità che si crea tra Will e Clark, un corpo da due anni abituato ad essere toccato solo da medici o personale sanitario esperto e che ora con i gesti semplici della ragazza – la delicatezza con cui lo solleva per sistemare i cuscini, il momento della rasatura, la dolcezza con cui lo aiuta a mangiare – sembra prendere nuova vita, in quella premura e vicinanza di chi comprende senza bisogno di parole i bisogni dell’altro, fingendo per un attimo brevissimo di essere semplicemente un uomo e una donna, innamorati

«Non voglio ancora rientrare. […] Semplicemente desidero essere un uomo che è stato ad un concerto con una ragazza con un abito rosso. Solo per qualche istante ancora.» 

Un sentimento che mette entrambi alla prova, fa vacillare certezze e progetti, mentre giorno dopo giorno Lou si impegna per far tornare il sorriso all’uomo che ama sperando possa alla fine di quei sei mesi di tempo cambiare idea e scegliere di vivere una vita non perfetta, ma ancora piacevole. Amato, profondamente amato, da chi non si arrende, da chi non è pronto a lasciarlo andare. 

Certi giorni pensavo che Will fosse più felice – usciva con me senza fare storie, mi prendeva in giro, mi stimolava mentalmente, sembrava un po’ più coinvolto dal mondo esterno – , ma cosa sapevo davvero? In Will avvertivo l’esistenza di un vasto territorio interiore, un luogo di cui non mi avrebbe mai mostrato nemmeno uno spiraglio. Nelle ultime due settimane avevo avuto la sgradevole sensazione che quel territorio si stesse allargando. 

Come ho detto in apertura, analizzare questa storia e le polemiche che ha scatenato implica necessariamente rivelare molti nodi cruciali della trama, tra cui la conclusione stessa: un finale straziante, discusso, dal fortissimo impatto emotivo, ma necessario, quantomeno da un punto di vista letterario, scevro dalle implicazioni etiche che la storia tutta porta con sé. 

Partiamo proprio da qui, dall'aspetto più strettamente letterario: come dicevo, in parte mi ha sorpreso per la complessità dei temi trattati e una scrittura – resa adeguatamente nella traduzione italiana di M.C. Dallavalle – precisa, che non indugia più di tanto nel pathos e nel sentimentalismo cui una storia del genere facilmente poteva scivolare, riducendosi all’ennesimo romanzetto rosa sulla scia di Nicholas Spark – che non me ne vogliano, lui o i lettori – o simili. No, non è neanche lontanamente un romanzo perfetto e sono troppi i difetti per essere ignorati, ma la lettura ha rivelato anche inaspettati pregi che si vanno ad aggiungere all’intensità del tema trattato.
La scelta stessa dell’autrice e ciò che ha suscitato la maggior parte delle critiche, il punto di vista con cui è trattato il tema della disabilità e naturalmente l’eutanasia, sono però estremamente interessanti a mio parere in quanto sintomo ancora una volta di un fare letteratura spingendosi oltre il politically correct, destabilizzando il lettore, forzandolo a porsi domande anche – e soprattutto – scomode, mettendo in dubbio certezze e valori che credevamo assoluti. E lo fa per mezzo di una storia che vuole essere semplicemente una faccia soltanto di un tema estremamente complesso. La rappresentazione della disabilità non sempre viene trattata con la dovuta sensibilità, ma è anche vero che forse dare voce ai pensieri – meschini, certo – di alcuni personaggi che si confrontano con il tema, dimostra anche un certo grado di onestà che era necessario; come se oggi avessimo ancora paura di far parlare un personaggio in termini di razzismo, omofobia, sessismo o qualsiasi altra cosa giustamente ci faccia indignare.

No, non è piacevole ascoltare certe considerazioni che, ammettiamolo, umiliano la vita già di per sé estremamente difficile delle persone disabili: la costante necessità di qualcuno per assolvere a gesti quotidiani, intimi, l’imbarazzo, la pietà mista a curiosità che molte persone provano di fronte alla condizione, le domande e le curiosità cui non si da voce. E, più di ogni altra cosa, ciò che ha fatto indignare le associazioni americane di gruppi quali per esempio “Not Dead Yet” è, naturalmente, il tema dell’eutanasia: che in questo caso sembra far discutere non – soltanto – come scelta etica, che necessariamente si scontra con principi religiosi, ma con il messaggio che a loro dire traspare da questa storia, ossia l’immagine di esistenze che non meritano di essere vissute, perché private di tutto ciò che per i non disabili è essenziale per una felicità piena, per una vita degna di continuare. Proteste alla prima del film, polemiche, dibattiti in rete, hanno di volta in volta messo in luce cliché, pregiudizi contro cui i disabili devono costantemente fare i conti nella realtà e che qui sembrano trovare una triste conferma, stereotipi e meschinità spesso non espresse ad alta voce e che ora, sulla pagina e lo schermo, feriscono profondamente.

Tuttavia, per quel che mi riguarda, al di là delle polemiche e delle implicazioni etico religiose, Me before you è una storia che mi ha colpita per intensità e coraggio: coraggio di scegliere una posizione scomoda e non farsi scoraggiare dalle critiche, seguire leggi di mercato – vedi happy ending – o politicamente corretto, ma che spinge invece a metterci in discussione, come tutte le buone storie dovrebbero sempre fare, nel bene o nel male.
Si, ci sono personaggi odiosi per la loro ignoranza e incapacità di vedere un uomo, un essere umano, oltre la disabilità; si, sono principalmente i non disabili a discutere di tutto quello che implica tale condizione, soffermandosi quasi morbosamente sugli aspetti negativi, intimi ed umilianti della situazione; e si, dal punto di vista letterario, la trama appare abbastanza scontata, l’approfondimento psicologico dei personaggi quasi nullo – salvo alcune eccezioni – la narrazione poteva osare di più, presentando per esempio l’intera storia dal punto di vista di Will anziché affidarla quasi totalmente a Lou, così come alcuni episodi ed epifanie sono forzate quando non addirittura fastidiose. Perché, lo ripeto, questo non è un romanzo perfetto, non si avvicina nemmeno all’idea che personalmente ho di perfezione, eppure mi ha lasciato dentro molte domande, pochissime risposte e, in generale, un certo modo di guardare il mondo e la vita che resta a mio avviso il messaggio più bello di questa storia. è proprio questo, infatti, ciò che voglio credere il significato profondo di Me before you: non racconto di una vita spezzata, di un amore impossibile e di una scelta estrema, bensì celebrazione della vita. Di quanto sia fragile, preziosa, e per questo da godere fino in fondo, con coraggio e un pizzico di incoscienza. Si, forse questa banale consapevolezza durerà per un breve attimo prima di tornare distratti allo scorrere lento della quotidianità mentre per altri è un modo di vedere le cose innato, già radicato dentro molto prima della scoperta di questa storia. Per tutti, senza dubbio un monito da ricordare. 

Vivi con coraggio. Sfida te stessa. Non accontentarti.
[…] Il tuo viso quando sei tornata dall’immersione mi ha detto tutto: c’è fame in te, Clark. C’è audacia. L’hai soltanto sepolta, come fa gran parte della gente. […] Non pensare a me troppo spesso. Non voglio pensarti in un mare di lacrime. Vivi bene. Semplicemente, vivi.





Di Debora Lambruschini