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Baluginare di comete. Sogno e realtà nell'esordio narrativo di Goffredo Parise

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Il ragazzo morto e le comete
di Goffredo Parise
Neri Pozza, 2016

pp. 201 
€ 14,50

Illustrazione di copertina di Giulio Paolini
Introduzione di Ermanno Paccagnini


Il ragazzo di quindici anni è morto in circostanze misteriose. Ma in un mondo come quello del secondo dopoguerra, in cui i confini tra vita e morte sono labili e continuamente rimessi in discussione, questa può non essere la fine della storia, bensì il suo inizio. Con Il ragazzo morto e le comete (1951), esordio narrativo intenso e folgorante, Goffredo Parise tradisce ogni attesa, viola ogni convenzione, forza dall'interno i confini di qualsiasi genere. Il passato e il presente, l’esistenza e il trapasso, la soggettività e l’oggettività perdono ogni definizione e vengono rimescolati senza alcuna ritrosia: è l’irruenza giovanile di Parise riversata sulla pagina, la sua urgenza di dire, il suo lasciarsi suggestionare dalla realtà e dal sogno. Nel ragazzo di quindici anni, coi suoi “occhi neri, lunghi e pieni di antichità”, nella sua storia familiare tormentata, nella madre preoccupata, nel patrigno serio e affezionato, nel suo bagaglio di tormenti e possibilità, c’è l’autore stesso, ma c’è anche tanto altro.
Ci sono le comete, figure colorate e chagalliane, straordinariamente connotate, che lo circondano baluginanti per poi sprofondare nell’oblio insieme ai suoi ricordi. Prima di sparire, di lasciarsi andare al riposo, lui le rievoca tutte: c’è Edera, il primo amore (“chi la conosce la crede soltanto una qualsiasi ragazza bionda dagli occhi azzurri; ma in lei c’è molto di più e che non si può dire perché è mistero”); ci sono Abramo e suo padre Squerloz, costruttore di barche, che vive in uno scantinato con un topo bianco e un barbagianni; ci sono Leopolda e Massimino, i morti ancora al mondo, grotteschi e rattoppati, egoisticamente riluttanti a dare asilo al giovane fuggitivo; c’è Harry Goetzl, sopravvissuto all’olocausto e alla consapevolezza dell’avvenuta morte di Dio, divenuto sasso inerte nella tragedia della Storia (“Compresi che Dio era una cometa apparsa nel cielo, bellissima e misteriosa, la più bella di tutte le comete; ma come tutte anch’essa aveva compiuto il suo giro, ci aveva illusi e si era spenta come una pietra, nel buio”). Di costoro ci parla il ragazzo, raccontando di sé in terza persona, nel primo, nel terzo e nel quinto capitolo. Si tratta di un racconto postumo che pure pare presente, che rimescola le carte del tempo e sembra conferire un’illusione di vita a chi ormai l’ha definitivamente perduta: il narratore si osserva dall’esterno, vuole conferire ai fatti una pretesa oggettività, non riesce a non riversarvi dentro tutta la propria nostalgia per ciò che non è più. I capitoli secondo e quarto sono narrati in prima persona da due amici del ragazzo: il dolce, malinconico Fiore, che non sa rassegnarsi alla solitudine e non smette di cercare il suo compagno d’avventure pur avendo assistito alla sua sepoltura, e Antoine Zeno, omosessuale triste e commovente, che sorvola i tetti della città devastata con una mongolfiera artigianale, suona il clavicembalo e invita a ricercare la speranza nell’anticonformismo e nella follia:
"Dio è morto da un mucchio di anni e non ci ha lasciato in eredità che minacce e terrori. Le case sono andate in polvere, la gente è saltata in aria, lo hai visto anche tu, è stata una grande paura; ma a me non importa niente. Io vado in pallone, per conto mio so come salvarmi. Lascia andare, Fiore, la realtà è quella che è, fatta di tante cose! Non vale la pena di pensarci. Pensa piuttosto a te stesso, a farti bello e a non guardare più nessuno. Ormai soltanto l’assurdo è la speranza, l’estrema salvezza."
Il sesto e ultimo capitolo racconta della discesa agli inferi che Antoine e Fiore intraprendono, inseguendo il ragazzo di quindici anni nei luoghi da lui più amati, per incontrarlo un’ultima volta. E quando l’incontro avverrà, non sarà all’insegna del ricongiungimento gioioso e atteso, ma del dolore che prelude al distacco definitivo. Il ragazzo morto, fino alla fine senza un nome, rilegge gli eventi nell’ottica dell’ineluttabilità e risponde senza compassione al pianto, silenzioso e straziante, del suo amico. Il libro parrebbe dunque chiudersi con un quadro di desolante amarezza, se non fosse che proprio nel pianto di Fiore si nasconde la possibilità di una lettura diversa: Fiore è colui che riesce a mantenere sul mondo uno sguardo pulito, innocente; è colui che non accetta la disfatta, che non rinuncia alla propria devozione, colui che crede nel valore dell’amicizia e nei secondi appuntamenti. Fiore è colui che sbatte la faccia contro il muro dell’indifferenza e del cambiamento altrui senza retrocedere, che riconosce senza paura la propria debolezza e ne fa una forza. Fiore è l’emblema di tutte le altre comete, luminose e colorate apparizioni che sembrano incarnazioni di una sconfitta esistenziale, ma si riscattano grazie ad una insopprimibile dignità. 
Per festeggiare il suo settantesimo compleanno, la casa editrice Neri Pozza, presso cui Il ragazzo morto e le comete era uscito per la prima volta (quando Goffredo Parise si era presentato di persona a casa dell’editore per leggergli ad alta voce il proprio manoscritto), sceglie di ristamparlo in una nuova, meravigliosa versione limitata. Non è una lettura facile quella a cui costringe il romanzo, eppure la soddisfazione è tanta, tanta la commozione quando si arriva in fondo. Io, che ho amato disperatamente questo libro sul finire della mia adolescenza, lo riscopro oggi in una prospettiva più matura. Ma, come allora, ne riemergo più forte, più illuminata, più ricca.  

Carolina Pernigo