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New York Stories: i mille volti della città

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New York Stories
a cura di Paolo Cognetti
Einaudi, 2015

pp. 400
euro 21.00


La New York in cui vivi tu non è la mia, come potrebbe esserlo? Ti distrai un attimo e questo posto si moltiplica [Colson Whitehead, Limiti cittadini]
Foto di Debora Lambruschini
New York e la short story
: due simboli americani che America non sono, non del tutto perlomeno. La città cosmopolita e mutevole, crocevia di persone e desideri, e la forma letteraria che più efficacemente di altre racconta il frammento, il particolare, il momento. Entrambe mutevoli, sfuggenti, simbolo delle mille voci d’America. La città che non smette di ispirare e farsi protagonista di romanzi e racconti, che in qualche modo tutti abbiamo imparato a riconoscere, e la forma breve, le voci di quegli scrittori che da una costa all’altra degli Stati Uniti hanno scelto come mezzo ideale per raccontare l’istante. Laddove il romanzo mira all’universale, la short story si concentra sul particolare, il momento, la frammentarietà dell’esistenza; svincolata dalle regole formali e dalle convenzioni del romanzo, la forma breve, da sempre caratterizzata per un maggior grado di sperimentazione, linguistica e tematica, è capace di sorprendere e destabilizzare il lettore con l’immediatezza del suo racconto.
E il connubio con New York, ambientazione o protagonista di moltissime storie, ha regalato pagine estremamente interessanti, come evidente anche in questa bella raccolta curata da Paolo Cognetti, uscita per Einaudi pochi mesi fa. Cognetti, autore a sua volta di ottimi racconti, sceglie con cura i ventidue testi per un'antologia in cui il filo conduttore sono i mille volti della città rappresentati da altrettante voci differenti. Costruire un'antologia, soprattutto quando composta da opere di autori diversi di fronte ad un punto di osservazione di ampio respiro come quello adottato, non è facile, eppure in qualche modo il lavoro di Cognetti riesce a catturare l'interesse del lettore mediante scelte non scontate. La pluralità di voci, toni e stili molteplici che scorrono un racconto dopo l'altro, l'immagine stessa della città che ogni autore ci restituisce, creano un insieme eterogeneo ma non per questo disarmonico, con New York unico filo conduttore. E proprio questa eterogeneità, dopotutto, è capace di mettere in risalto il pluralismo della città, le sensazioni ogni volta differenti che scatena in coloro che la osservano, che ne mettono in luce anche gli aspetti meno edificanti, restituendo al lettore l'immagine di una città complessa, contraddittoria, spesso brutale, di solitudini e sogni infranti, ma capace anche di bellezza, speranza e desiderio. Una città mutevole, di persone in transito provenienti da altri luoghi - l'Italia, il Sud America, l'Ovest - a cui forse fare ritorno, un giorno: perché New York è dei giovani, dei ribelli, degli affamati di vita e successo, e quando l'infatuazione è passata è il momento di trovare un altro posto. Ci sono racconti carichi di amarezza e solitudini in cui traspare l'immagine di una città sofferente e difficile, altri in cui la bellezza struggente delle strade e delle persone toglie il respiro, e storia dopo storia è il volto sempre nuovo e differente di una città che si rivela, da osservare in controluce cercando di coglierne almeno i contorni.  
Cinque sezioni, quindi, introdotte da brevi osservazioni, in cui i racconti selezionati restituiscono l’immagine di una città, di un secolo – il Novecento – contraddittori, mutevoli, frammentari. Perché New York è il Novecento, è il sogno che si confronta con la realtà, è gioventù e desiderio, è splendore e decadenza. È il presente, un volto nuovo ogni giorno.
Ad aprire la raccolta, gli anni ruggenti: l’età del jazz, l’alcool e le feste, la gioventù che si muove frenetica in città, luogo che tuttavia non si potrà mai conoscere davvero fino in fondo, troppo vasta, sfuggente. È la New York raccontata da F. S. Fitzgerald:
Di quel periodo ricordo un giro in taxi un pomeriggio, fra edifici molto alti, sotto un cielo color malva e rosa; scoppiai in lacrime perché avevo tutto ciò che volevo e sapevo che non sarei mai più stato così felice. [F. S. Fitzgerald, La mia città perduta]
Ma è anche la solitudine narrata da Dorothy Parker, l’amarezza di fronte a relazioni fallimentari, la dipendenza dall’alcol, la depressione, la tentazione di abbandonarsi all’oblio, eppure, nonostante l’infelicità, la consapevolezza di non poter vivere in nessun altro luogo:
Per Hazel c’era sempre qualcosa di immensamente comico nell’idea di vivere in un posto che non fosse New York. Non poteva prendere sul serio niente che implicasse uno spostamento a ovest. [D. Parker, La bella bionda]
L’America, e New York più di ogni altra città, simbolo di riscatto, della possibilità di trasformare in realtà ciò che si riesce a sognare, la grande ondata migratoria del primo Novecento. Storie di emigrati e comunità chiuse, mentalità e abitudini cristallizzate, di promesse spesso infrante, di ragazzi cresciuti in strada, slang, espedienti per sopravvivere.
Nascere in strada significa vagare per tutta la vita, essere libero. Significa accidente e incidente, dramma, movimento. Soprattutto, significa sogno. [Henry Miller, Il 14̊ distretto]
Una città che non fa sconti, bellissima e crudele, simbolo della «morte del sogno» per quei tanti arrivati fino a qui alla ricerca della felicità, del successo, del proprio posto nel mondo, che si scontrano invece nonostante l’euforia degli anni Sessanta, con una realtà spesso deludente, in racconti quasi mai a lieto fine.
Si è solo in cerca di una città, di un luogo dove nascondersi, dove perdersi o ritrovarsi, dove fare un sogno in cui si abbia la prova che forse, dopo tutto, non si è un brutto anatroccolo, ma si è meravigliosi, degni di amore, come si pensava seduti sugli scalini d’ingresso, mentre passavano le Ford, come si pensava progettando la ricerca di una città. [Truman Capote, New York (1946)]
Capote, interprete ideale del sogno che si infrange, insieme ad altre voci chiamato a comporne il puzzle. Ma è anche l’età ribelle degli hippy, della musica folk, di una gioventù che scopre di essere al centro del mondo in quella città dai mille volti. E che si innamora, perdutamente, di New York:
Ero innamorata di New York. E non è un modo di dire, ero davvero innamorata della città, la amavo come si ama la prima persona che ti tocca e come non amerai più nessun altro [Joan Didion, Bei tempi addio]
È una lettera d’amore alla città della gioventù, che affascina e spaventa e dalla quale, alla fine, qualche volta ci si allontana. Perché per alcuni è davvero la città dei vent'anni e una volta adulti l’incanto si spezza, si cercano altri luoghi in cui essere felici. La scoperta, improvvisa, che «non tutte le promesse sarebbero state mantenute» e che i «Bei tempi» appartengono al passato. E come la prima persona che ci ha fatto battere il cuore, la città vive nel ricordo, un primo amore impossibile da replicare, che sono soprattutto le pagine di Joan Didion a restituire in tutta la sua struggente bellezza, mentre la malinconia per la città conosciuta a vent'anni si fonde alla nostalgia per quell'età perduta.
Se la falsa spensieratezza degli anni Venti e le parole di Fitzgerald aprivano la raccolta, il sipario si chiude sul ritratto di una New York decadente, dei suoi quartieri difficili e violenti, la scoperta dell’Aids e la fine di un’altra simile, effimera, avventata spensieratezza.

Una città dalle tante anime, come gli sguardi e i desideri di quelli che nel tempo l’hanno raccontata e vissuta, in un’antologia che ne raccoglie alcuni interessanti esempi, ma da cui ogni lettore può partire per comporre la propria storia di New York.