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"L'Ipotesi di Riemann" di Iacopo Riani

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L’Ipotesi di Riemann, Il quaderno perduto
di Iacopo Riani,
Tre le Righe Libri, 2014

pp. 146.


Riemann si dedicava a quel vecchio problema lasciato incompiuto anni addietro: la distribuzione dei numeri primi. Aveva individuato una nuova strategia di approccio ed era convinto che questa fosse finalmente la strada giusta per arrivare ad una dimostrazione completa della sua intuizione.  Fogli su cui appuntava i calcoli e i risultati raggiunti erano sempre gli stessi, pagine di un quaderno, dalla copertina nera che teneva in bella vista sulla scrivania, e che s portava dietro in ogni suo spostamento, ormai da più di cinque anni. [1]

La ricerca di un prezioso quaderno di appunti, appartenuto al celebre matematico tedesco Georg Friedrich Bernhard Riemann, è il fulcro su cui ruota l’intera vicenda qui raccontata.
Attraverso una forma di narrazione diaristica parallela, vengono ripercorse alcune tappe della vita privata e professionale di due uomini i cui destini, seppur lontani cronologicamente, si intrecciano in modo similmente legato al ritrovamento del famoso taccuino di appunti: Matteo Tedeschi laureando in Storia, è un giovane pisano di famiglia benestante, che decide di lavorare ad una tesi su Bernhard Riemann, inconsapevole delle difficoltà di approccio a tematiche su cui i documenti in possesso nelle biblioteche italiane sono molto scarse. Pochi risultano essere infatti i riferimenti alla biografia di Riemann e alla bibliografia disponibile.


 Il matematico era nato a Breselenz nel 1826 e aveva trascorso un periodo di studi tra Hannover, Lünenburg e l’Università di Gottinga. Matteo era venuto a conoscenza di un breve soggiorno pisano di Riemann avvenuto tra il 1863 e ’65.

L’incontro casuale con Klara, una lontana parente di Riemann, appassionata di letteratura e autori del Novecento, cambierà notevolmente le prospettive riguardo l’itinerario di ricerca storica intrapresa dal giovane.
«Qual è questo argomento impossibile?» chiese la ragazza. «È la storia di un matematico tedesco, che ha passato un paio d’anni della sua vita qui a Pisa. Ma non riesco a trovare nulla su di lui, al di fuori della sua produzione scientifica». Klara spalancò gli occhi e lo guardò stupita. «Non sarà mica Bernhard Riemann?» « Sì è proprio lui. Ma tu come fai a conoscerlo?» La risata con cui lei accolse questa domanda lasciò Matteo sconcertato. Klara non smetteva di ridere, finchè ripresasi, esclamò: «Era un mio parente!»[2]
La lettura parallela dei due diari mette a confronto due personalità distinte che trascorrono periodi della loro vita in luoghi connotati da atmosfere suggestive e diacronicamente lontane nel tempo e nello spazio; in un parallelismo atemporale tra l’ambientazione ottocentesca tedesca e la contemporanea freschezza giovanile dell’ambiente accademico e culturale pisano del nuovo millennio, si stagliano due scenografie di vita: le vie, le case, i boulevard della capitale francese dove soggiorna per un breve periodo Riemann, a “contatto” con le architetture, la biblioteca accademica e i celebri monumenti di Pisa, parti integranti nella vita del giovane studente italiano.
Il soggiorno francese durò meno del previsto. […] Uno degli ultimi giorni prima di partire riuscì finalmente a godersi un po’ le bellezze della Villa Lumière. In quegli anni Parigi era un cantiere permanente, sotto la supervisione del barone Georges Eugène Haussmann, il quale, seguendo i voleri di Napoleone III, stava ridisegnando la città e costruendo gli assi viari che la attraversavano nelle diverse direzioni, tra cui il boulevard de Sébastopol e il boulevard Saint-Michel. Abituato alle strette vie di Gottinga, Riemann fu colpito dalla grandiosità dei viali parigini, sui quali si affacciavano imponenti palazzi in uno stile tanto diverso da quello austero della sua città.[3]
Alle cinque in punto Matteo, tirato a lucido, era ai piedi della scalinata in piazza dei Cavalieri, accanto all’ingresso della biblioteca della Normale. Non c’era molta gente per strada, qualche turista infreddolito e alcuni giovani che stazionavano davanti al Collegio Puteano sul lato ovest della piazza. Pochi passanti si affrettavano a superare quello spazio aperto infilandosi in via Ulisse Dini, verso Borgo Stretto, o in direzione di via dei Mille. Il sole, già basso sull’orizzonte, illuminava la facciata del Palazzo della Carovana, sede della scuola Normale. Matteo passava  lì davanti quasi tutti i giorni, ma non si era ma soffermato ad ammirare la bellezza di quell’edifcio.[4]
La ricerca del prezioso quaderno induce i due giovani fidanzati a diversi spostamenti. L’indagine sembra giungere ad una svolta, quando Matteo viene a conoscenza dell’acquisto, da parte di un collezionista italiano che avrebbe portato il taccuino di appunti a Verbania sul Lago Maggiore. L’informazione porta i due giovani a verificare l’autenticità andando direttamente sul luogo.
Il tragitto da Parigi a Torino, meno di un’ora e mezza, trascorse senza intoppi. […] «Ti rendi conto – disse – a un certo punto Matteo – che stiamo andando alla ricerca di un quaderno del tuo antenato, senza nemmeno sapere che cosa contiene? È da pazzi».[5]
L’iniziale distanza tra le due situazioni presentate, nel prosieguo del racconto sembra assottigliarsi a mano mano che emergono particolari che portano alla decifrazione e alla sottile interpretazione dei dettagli che costituiscono il puzzle della risoluzione del problema matematico lasciato incompiuto da Riemann; la perspicacia unita all’intuito del giovane Matteo divengono operazioni concrete che portano alla riduzione della distanza che separa il pensiero del laureando a confronto con il grande matematico tedesco:
Si mise al lavoro, tracciando sul quaderno le espressioni che sino a quel momento aveva soltanto pensato, e riscontrò che ogni tassello si collocava perfettamente al proprio posto. In poco più di un’ora di lavoro la dimostrazione era completata. Ora poteva affermare con certezza che la distribuzione dei numeri primi nell’insieme degli interi seguiva una logica e non era affatto casuale.[6]
Il bel racconto diaristico, nella parte finale, abbandona le coordinate geografiche e storiche identificative della vita privata e professionale di Bernhard e di Matteo Tedeschi per focalizzarsi maggiormente sul  mistero della risoluzione dell’enigma matematico. Un libro curioso, che unisce sapientemente storia e attualità, universi accademici distanti, ma accomunati dalla stessa vitalità espressa dagli studenti e dalla classe docente; una narrazione scorrevole che permette anche di entrare nelle fibre dei difficoltosi labirinti delle scienze matematiche.


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[1] I. RIANI, L’Ipotesi di Riemann, Il quaderno perduto, Tre le Righe Libri, 2014, pp. 91.
[2] Ivi, p. 35.
[3] Ivi, pp. 28-29.
[4] Ivi, 33.
[5] Ivi, p. 97.
[6] Ivi, p. 94.