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"Crum": i Sommersi di Lee Maynard

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Crum
di Lee Maynard
1^  Edizione americana, 1988
Siena, Barney Edizioni, "I fuorilegge", 2014
Traduzione di Nicola Manuppelli

pp. 221   
€ 16,90







Più di ogni altro, il romanzo di formazione implica le categorie dell’eroe e dell’eroismo, e ad esso ci si accosta aspettandosi un racconto, di figure e di episodi, così inteso: una serie di eventi – ostacoli che sono opportunità – accadono ad un personaggio forte, quasi sempre il giovane, irrequieto ed elastico, simbolo, per citare Franco Moretti nel Romanzo di formazione (1986), dell’inquietudine e della mobilità della società di cui è frutto e allegoria (la società moderna che muove verso l’industria e la secolarizzazione) e còlto nel suo momento di “non appartenenza”, a metà del guado tra gioventù e maturità, tra un’età cui approdare e una che sta abbandonando. In tal senso, gli ostacoli sono eventi epifanici, rivelatorii, che scandiscono la maturazione dell’eroe, lo rendono consapevole di sé, del proprio valore, educandolo alla vita e riconsegnandolo, al termine del tragitto – e al di fuori del romanzo, dopo la fine, giacché essa coincide con l’inizio della sua vita borghese – al corpo sociale, uomo fatto e finito, responsabile, adulto, non più narrativamente fertile ma finalmente integrato.

Se dunque, psicanaliticamente, il tracciato qui descritto rappresenta un processo di espulsione e di reintegrazione che ha, tra i suoi primi esempi di lingua volgare, i romanzi cavallereschi di Chretien de Troyes del XII secolo (l’eroe, giovane e immaturo e perciò potenzialmente sovversivo, esce dal castello – espulsione dell’adolescente dal corpo sociale; affronta temperie e avversità – confronto coi propri incubi e ossessioni, educazione alla vita e maturazione; sconfigge il nemico e conquista la fanciulla – approdo alla stabilità sessuale e sentimentale; infine rientra, vincitore, al castello – reintegrazione nella società, da uomo maturato, pronto a inserirsi proficuamente nell’ingranaggio socioeconomico immutabile del borgo), va detto che questo percorso, di cui è innervata la letteratura lungo tutto il Settecento e l’Ottocento, tende, verso la fine del XIX Secolo, alla deflagrazione, per sgretolarsi definitivamente dopo gli anni Quaranta del Novecento.

Ad un momento in cui l’obbiettivo condiviso, della società e dell’eroe, era, alla fine del racconto, l’integrazione borghese, per cui le istituzioni – la famiglia, il collegio, l’esercito – erano viste e narrate come tappe essenziali da cui trarre frutto, per la maturazione, per diventare, massima ambizione, come il proprio padre, borghesi, proficui, sereni, segue una fase in cui l’obbiettivo della maturazione del giovane diventa altresì essere tutto, fuorché il proprio padre, per cui le istituzioni si fanno, nella narrativa, organi di oppressione e soffocamento – il collegio, l’esercito, la famiglia – per cui l’unica formazione  possibile è data non dall’integrazione borghese, bensì dalla rivelazione – a sé, al mondo – della propria irriducibile alterità: l’agnizione di sé come artista. 

Questo processo – dalla formazione in seno alla borghesia all’anti-formazione contro i valori borghesi – è presente in nuce all’interno dello stesso ciclo cavalleresco di Chretien (l’integrazione di Erec e del Cligés, quasi perfetta, non ha il sapore posticcio di quella di Lancelot e di Perceval, tentativo che non riesce – anzitutto, anche strutturalmente – a risolvere e quietare l’eroe e la società, destinati all’impossibilità dell’integrazione, della comprensione e accettazione l’uno del mondo e dei valori dell’altro), ed è evidente anche nella rapida implosione dei finali dei romanzi di Dickens, in cui tutto alla fine torna, ogni cosa si aggiusta, ma cui Dickens stesso, man mano che il tempo scorre e l’Ottocento prima baldanzoso poi speranzoso mostra la corda, crede sempre meno (si guardi all’insinuarsi del dubbio morale e della sfiducia nella società tra Oliver Twist, David Copperfield e il Pip di Grandi speranze, cioè tra il 1840, il 1850 e il 1860), perché tutto torna troppo, così tanto che in realtà – nella realtà – così non è, e rimane sempre uno scarto, qualcosa che stona, nell’economia della partita, un errore, una mancanza, un risarcimento, una lacuna che nessun ingranaggio narrativo può colmare – una lacuna che è segno, in assenza, della verità delle cose, della vita, della società, del giovane, della borghesia, una verità tutt’altro che meccanica come il romanzo ottocentesco avrebbe voluto che fosse, più cruda e terribile. 
Ed è evidente, questo slittamento della formazione, del romanzo del borghese – del romanzo di formazione – verso l’anti-formazione, verso il romanzo dell’artista, nei grandi ed eroici anti-eroi del Primo Novecento che tanto ancora ci affascinano, Toerless, Jakob von Gunten, Tonio Kroeger, Meaulnes, Dedalus, K. di America: qui gli eventi sono spie dell’animo inquieto, grumi solidi di paure recondite, che si fanno concreti nella misura in cui servono alla scoperta della verità, dell’impossibilità cioè di capire – di contenere – il reale, la realtà, l’infinito del sé e del mondo, con il linguaggio, la razionalità, i numeri, i concetti positivi di tempo, spazio e progresso.

Tuttavia, sebbene la deflagrazione del romanzo di formazione – la tensione al suo contrario – si abbia con il Primo Novecento, in accordo con la morte della borghesia, spirito che lentamente si sgretola, e che sgretolandosi trascina con sé i suoi frutti, il romanzo borghese, il primato politico, culturale, umano d’Europa e dell’Occidente, in questi romanzi resiste, fino ancora al giro di boa del 1950, il concetto dell’eroe e dell’eroismo: sebbene lacerati, inquieti, artisti e mai più o sempre meno borghesi, in romanzi come Il giovane Holden, La veglia all’alba, La statua di sale e In gioventù il piacere ancora si dà vita a una vicenda che, sovvertita o sovversiva il più possibile, è comunque incardinata intorno ad un’idea di eroe e di eroismo. Orvil, Richard, Holden sono eroi, nel loro antieroismo, come sono eroici – epifanici, utili allo svolgersi, al procedere della formazione, di qualunque segno essa sia – gli eventi che essi raccontano o affrontano. Insomma, ancora nel 1950, così come ancora oggi negli epigoni contemporanei, il romanzo di formazione era ed è ancorato, più di tutti gli altri esempi di romanzo possibili, ai concetti di eroe e di eroismo.

La domanda quindi, è questa: è possibile una formazione senza eroe? E’ possibile una formazione in cui nonostante nessun evento sia altro che se stesso, sia cioè privo di carica epifanica, in cui malgrado nessun episodio rechi in sé i crismi dell’Evento, della Breccia, alla fine della narrazione si possa dire di aver assistito al dipanarsi di una formazione, di una educazione alla vita? E’ cioè possibile un romanzo di formazione che non abbia né eroe, né eventi eroici, e che perciò sia concepito quasi deliberatamente e completamente in negativo, in cui cioè la formazione sia data da nient’altro che la lenta continuità di cui si compone la vita di chiunque, con le sue mediocrità, le sue paure, i suoi giochi, tutti mescolati nel continuum potenzialmente infinito ed inutile che compone il presente di tutti? E’ possibile, infine, una formazione in cui l’unica agnizione sia la consapevolezza della fuga come unica soluzione praticabile, per non morire nel grigio delle vite che ci hanno accompagnato fino a questa consapevolezza – e per poterle, quindi, assumendole su di sé, riscattarle? Crum, il primo romanzo di Lee Maynard (1936), cerca di rispondere a queste domande, e di dare una risposta positiva.

La storia editoriale del romanzo è oramai leggendaria: pubblicato nel 1988, oggi parte di una trilogia che comprende i non ancora tradotti Screaming with the Cannibals (2003) e The Scummers (2012), il libro suscitò reazioni violente tanto tra i concittadini dello scrittore (al punto che oggi, pare, sia lui che la sua opera siano stati banditi dalla città), quanto nel panorama letterario americano – più precisamente, quello puritano e conservatore della Deep America – tanto da essere vietato in alcune librerie e università, diventando così un libro di culto per le ultime generazioni di lettori e narratori. In Italia lo ha portato Nicola Manuppelli, traduttore del testo e responsabile della collana “I fuorilegge” della Barney Edizioni, neonata costola senese dell’editore Barbera. La collana, oltre a Robert Ward e Lee Maynard, ospiterà autori quali Owen King, Max Crawford, Jane Urquhart, Chuck Kinder, espressioni di una narrativa terrea più che nera, amara e viscerale quanto può esserlo l’America del grande e profondo centro, gigantesca periferia, libertaria ed esistenziale, tra i due estremi ricchi e raffinati dell’East e della West Coast, New York e San Francisco.

Crum, che è un romanzo di formazione, non ha davvero niente del romanzo di formazione. Non ha il titolo, che è quello di una cittadina povera e disastrata, una croce di case al confine tra West Virginia e Kentucky, oggi di centottanta abitanti, sdraiata sul fiume Tug, divisa tra agricoltura di sussistenza e miniere di carbone; non ha l’eroe, il cui nome, Jesse Stone, non compare più di tre volte lungo tutto il libro, e che non è niente di più o di meno di coloro che gli girano intorno, amici, nemici, adulti, animali; non ha l’eroismo, ché tutta la vicenda è una successione monotona e grigia di stagioni e ragazzate, di violenza quotidiana e di quotidiane meschinità; non ha, infine, o almeno non c’è, apparentemente, alcuna agnizione, nessuna acquisizione finale: l’eroe, che non c’è, alla fine del romanzo delibera semplicemente la sua fuga, e questa è l’unica concessione, l’unico momento di accordo tra questo romanzo e gli esempi citati in precedenza. Alla fine del romanzo, Jesse Stone riesce finalmente a liberarsi di Crum, dei suoi abitanti e se ne va, sapendo che solo così sfuggirà al destino di niente – al nessun destino – che spetta a chi rimane. 
Qui è il primo paradosso del romanzo di Maynard: esso finisce quando inizia il romanzo di formazione. I romanzi di formazione esordiscono spesso da una fuga consumata, e descrivono ciò che accade dopo, dalla fuga in poi, il percorso picaresco, adolescenziale, anche tragico, di scoperta di sé e del mondo. Crum finisce quando inizia la formazione – il viaggio, la fuga – quando cioè il suo protagonista sceglie di essere eroe, quando smette di essere come tutti e decide di diventare qualcosa di diverso – di migliore. Perciò, in questo romanzo, traboccante di riferimenti ad una dorsale della letteratura americana coriacea e carsica, Twain, e Anderson anzitutto, si dà una vicenda di formazione dentro una forma non propria alla formazione e con connotati tutt’altro che eroici. 
Se la maturazione dell’eroe è connessa alla scelta del destino – alla decisione dell’eroe di imprimere egli una svolta alla sua storia, trasformando il fato, di cui si è vittime, in destino di cui si è artefici, e quindi muovendo da una condizione di impotenza sul mondo ad una di possibilità, di potenzialità di definire il mondo – in Crum la storia della maturazione è storia delle condizioni che portano alla scelta della maturazione, prima della maturazione. Il narratore non ci racconta l’eroe, ci racconta come nasce un eroe. Ma non potendo esistere eroismo, a Crum, nella provincia americana degli anni Cinquanta e Sessanta, il protagonista, anche quando sceglierà di essere eroe, scegliendo la fuga, sceglierà in realtà soltanto di essere qualcosa, qualsiasi cosa invece di niente, di essere qualsiasi cosa non sia ciò che gli è vissuto fino ad allora intorno, ciò che, immutabile da sempre e per sempre, ha visto nella sua infanzia, nella sua città. Quando sceglierà di essere eroe, Jesse Stone sceglierà semplicemente di essere un salvato.

La forma del romanzo ricorda le storie della provincia americana, l’infinita campagna dei racconti di Sherwood Anderson (Winesburg, Ohio, 1919), la frontiera violenta e derelitta di alcuni romanzi di Steinbeck (Al Dio sconosciuto, 1933, Pian della Tortilla, 1935, Uomini e topi, 1937), l’atmosfera di abbandono e ottundimento del sud dell’Urlo e il furore (1929): esso è suddiviso in cinque parti, una per ogni stagione dell’anno – due per l’Estate – ed è il clima, ciclico, immobile, immutabile, ingrato nel suo caldo estivo asfittico e mortifero, crudele nell’inverno duro e triste, una presenza che scandisce gli inesorabili giorni di questa cittadina, dei suoi abitanti. Tra di essi, orfano di genitori, Jesse Stone, protagonista e voce narrante, che con Mule, Nip, Elly, Ethan, Rubin, Ott, Cyrus e Benny passa le giornate facendo nulla o poco più. 
Si affacciano alla storia, in rapide descrizioni, ritratti in episodi che sembrano sempre secondari, come è secondario tutto in quell’ambiente, in quella città, lo stesso protagonista, si affacciano alla storia, dicevo, lungo la storia, questi compagni di noia, e i loro passatempi: Benny, che vive con le mani nei calzoni, e i suoi atti di compiaciuta ostentazione del sesso, tra masturbazioni continue e tentativi di condividerle con le ragazze; il cane di Ralph, ucciso finalmente, dopo una vita passata ad angariare i ragazzi al fiume; la notte di Halloween, in cui ogni ordine si sovverte, tutto si fa possibile e i ragazzi tentano la battaglia col parroco; la latrina che esplode e la punizione che Jesse rischia di scontare, davanti a un gruppo di adulti malintenzionati, per una colpa che non ha; e poi il furto della carne, da mangiare, di nascosto, fino a scoppiarne; la ricerca continua e disperata di soldi, per comprare da mangiare, per comprare del sesso, per comprarsi una fuga da Crum; e alcune figure timide e quasi pure, e perciò inadatte alla città e da essa condannate: la signora Thatcher, scandalizzata maestra di scuola, Yvonne, amata (?) e ferita da Jesse dopo averne frainteso i gesti. La vita si trascina tra la scuola malvolentieri frequentata, durante l’anno, e estati infinite, silenzi infiniti e poche parole, rapporti sporadici, il sesso come diversivo, essenzialmente abbandonati tutti a loro stessi, i ragazzi più di tutti.

Alla fine, Jesse si decide ad andare, con pochi dollari in tasca (“Avevo esattamente tredici dollari e trentasette centesimi. Con quei soldi potevo andare da qualunque parte”), rifiutando un lavoro in miniera, offertogli dagli zii Mattie e Oscar. Andare via, scappare, senza voler dire addio a niente e nessuno, senza rimpiangere niente e con la certezza di non appartenere a Crum, non più di quanto non si appartenga al mondo intero. Solo alla fine, con Nip, in una scena di grande commozione – come commovente è la lotta tra lui e Ott, prima dell’addio – Jesse sente che avrebbe potuto, se non restare, partire con l’amico, che in fondo era l’unico amico che aveva. Ma è questione di un attimo: non ne vale la pena, perché chi rimane, sono i sommersi, e Jesse ha scelto di salvarsi, quindi sale sulla macchina e se ne parte, verso la sua formazione, incontro alla sua Bildung, di cui noi conosciamo solo il terribile e disastrato antefatto, con i suoi personaggi inutili e secondari, i suoi episodi superflui e mai breccia di niente, il suo svolgimento monotono e ottuso. 

Il romanzo finisce quindi quando dovrebbe iniziare. Raccontando l’assenza di epopea di un’adolescenza tipica della provincia americana, scegliendo di narrare ciò che di solito una narrazione tende a scartare – ciò che è usuale, inutile, solito, secondario e banale, ciò che è tipico – Lee Maynard contribuisce a far evolvere la struttura, l’idea del romanzo di formazione, di formazione in sé. Non più eroi, e nemmeno antieroi. 
Scegliendo di raccontare la vita dell’unico salvato, Maynard intona uno struggente epicedio per tutti i sommersi – coloro che non hanno scelto di togliersi dal magma del tempo sempre uguale a se stesso, che tutti condanna al nulla dei giorni identici e delle storie uguali, coloro che sono restati a Crum, che non hanno fratturato il tempo, scegliendo la Bildung e smarcandosi dal mondo nel quale sono nati, Nip in testa – i sommersi di Crum e di tutta l’America profonda, dimessa e quotidiana, scenografia e atmosfera a tutt’oggi assi portanti nella narrativa di alcuni tra i più apprezzati scrittori statunitensi, da Richard Ford (Rock Spring, 1987) a John Irving (In una sola persona, 2012), da Dennis Cooper (Idoli, 1997), a Sam Shepard (Attraverso il paradiso, 1997) fino a Jeffrey Eugenides (Le vergini suicide, 1993).


Dovessi cercargli dei simili, li troverei nelle immagini di Gummo, il capolavoro indipendente di Korine del 1997, o nella violenza esacerbata di Un gelido inverno, il film di Debra Granik del 2010, e non scomoderei, come la bandella del libro riporta, la figura di Holden. Holden appartiene alla schiera degli antieroi della Bildung canonica, ultimo rappresentante di una gioventù colta e tormentata, ma anche viziata e disperatamente tesa all’autocompiacimento – e di conseguenza all’autodistruzione. Jesse non sa niente, dell’arte, della letteratura, e la sua storia comincia nell’unico modo in cui può nascere una formazione in paesi come Crum: con l’atto tenace di fuga, che è un atto struggente di rifiuto e di salvazione, di sé e del mondo di cui egli si farà portatore, unico salvato di un paese di sommersi. 
Se un romanzo di formazione è ancora possibile, Maynard ce ne offre un tentativo, autentico, solitario e, per noi, irriproducibile, perché inscindibile dalla sua americanità, dai suoi connotati americani, di una terra che può ancora raccontare storie, che ha ancora queste storie da raccontare.