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António Lobo Antunes, "Le navi"

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Le navi (As naus, 1988)
di António Lobo Antunes
Einaudi, 1997
pp. 191
Traduzione dal portoghese di Vittoria Martinetto




Non ero mai incappata, tuttavia, in uomini tanto amareggiati come in quel periodo in cui i transatlantici tornavano nel regno carichi di gente disillusa e rabbiosa che aveva, come bagaglio, un fagotto sotto il braccio e un'acidità incurabile alla bocca dello stomaco, umiliati dai loro stessi schiavi e dalla prepotenza piumata degli antropofagi. I coloni che non riuscivano a partire per il Brasile o per la Francia assomigliavano ad angeli che avessero perso la nozione del volo e trascinassero suole terrestri nei quartieri più tristi della città, fatti di salite che non portavano da nessuna parte, di piazze barocche e di scalette disorientate, dove persino i balconi degli edifici, con i loro vasi rossi e la biancheria appesa al filo, avevano un'aria di sordida periferia.

Un ritorno a casa mesto e umiliante, il frangersi di secolari orizzonti di gloria, la presa di coscienza dell'inconsistenza del mito. È tutto questo, e altro ancora, Le navi di António Lobo Antunes, uno dei più grandi scrittori portoghesi contemporanei - ma forse di sempre - e un testimone diretto della disastrosa guerra coloniale in Angola e Mozambico e dell'odissea del rientro successivo all'affrancamento di quei Paesi in seguito alla Rivoluzione dei Garofani del 25 aprile 1974.

Rientrano gli eroi di sempre, Camões, Diogo Cão, Pedro Álvares Cabral, sconfitti, ridotti in stracci e disconosciuti da quel Paese predestinato, condannato alla gloria ma sempre e solo dall'altra parte del mondo. Si scorge, fugacemente, lo stesso Dom Sebastião, diretto con passo inesorabile verso il black hole di Alcácer Quibir.
Non c'è accoglienza trionfale per chi torna a casa, non c'è neanche più una casa ma solo sistemazioni di fortuna negli ospizi dei poveri e nelle bettole.
Lobo Antunes affronta il tema del rientro con la sua prosa densa e visionaria, con la sua narrazione intermittente fatta di cambi repentini fra prima e terza persona, attraverso la quale presente e passato, vita e ricordi si fondono in un insieme di emozioni e di tragedie, di rancori e di rimpianti, di saudade e di disperazione per le aspettative messianiche sebastianiste tradite e finite nel nulla.
C'è infatti, nelle Navi, tutta la storia del Portogallo, una sorta di cerchio che si chiude con il ritorno affranto e desolato di quelle caravelle che erano partite nel Cinquecento e attraverso le quali il mito dell'iperidentità aveva preso forma sino a divenire, come spiega Lourenço [1], l'essenza stessa dell'essere portoghesi.

Come già il precedente In culo al mondo, anche Le navi si rivela un testo tutt'altro che facile, volutamente poco scorrevole, paludoso e angosciante, eppure una delle pagine più importanti, una testimonianza lucida e partecipata sulla situazione del Portogallo nell'immediato post-Salazarismo.

Stefano Crivelli

[1] Eduardo Lourenço, Il labirinto della saudade. Portogallo come destino, Diabasis 2006