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Un western da Oregon city a Sacramento

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Arrivano i Sister
(The Sisters Brothers)
di Patrick DeWitt
Neri Pozza, 2012 (2011)

pp. 301


Se fate bene attenzione al titolo originale e al titolo in traduzione italiana del romanzo, siamo dinanzi a uno di quei casi in cui purtroppo si rinuncia a un gioco carino di parole: il libro, se fossimo rimasti fedeli all’inglese, sarebbe apparso negli scaffali come “I fratelli Sorelle”. Invece si è dato questo tocco bounty killer o da settimo cavalleggeri, tipo: arrivano i nostri. E in effetti con un western abbiamo a che fare.
A questo punto alcune premesse sono d’obbligo: intanto l’anno e il genere. Nel 2011, uno scrittore ricorre al western. La scelta parrebbe azzardata. Ma poi un western che è perfino racconto picaresco e se il percorso dei protagonisti, i fratelli Sister, si snoda tra Oregon City e Sacramento in California, non è che da un punto di vista antropologico e ambientale, a eccezione degli indiani, ci si distanzi troppo da un simile peregrinare tra la Mancia e l’Andalusia del Sei-Settecento.
Il western nella letteratura statunitense porta a un precedente: la trilogia della frontiera di Cormac McCarthy. Ma con DeWitt siamo su un altro sentiero: il western in McCarthy è un susseguirsi di barriere, di notturni, di sedimentazioni faticosissime che però non trovano l’appoggio definitivo, è la potenza della natura unica a non subire l’inevitabile intermittenza delle cose umane. A chi ha letto “Cavalli selvaggi” può ritornare alla mente quel passo di una potenza assoluta: «In lontananza fra i nuvoloni neri balenavano lampi silenziosi che sembravano saldature incandescenti tra fumi di metallo fuso. Pareva che riparassero un guasto nell’oscurità metallica del mondo». In questa oscurità si nascondono ferocia e tradizione, amore e violenza contaminante. Non bastano i sogni innocenti di John Grady, che sono un bagaglio così puro, senza corazza, dunque debole, destinato a decadere. Il West, come metafora della vita, va affrontato, non è uno scherzo. E questo duello McCarthy te lo fa pesare.
Anche nei fratelli Sister, il West va preso con le molle ma l’urgenza della sconfitta non è serrata. Con i Sister si parte sorridendo. Ed ecco allora che questo genere calza a pennello per uno scrittore che vuole innanzitutto divertirsi, perché bravissimo a impostare dialoghi su ritmi incalzanti. Non è che tutto il romanzo sia un botta e risposta, ma ce ne sono di adatti a un vero saloon dove ci si sbronza di brandy. Anche quando non c’è dialogo fra protagonisti, vuol dire che c’è dialogo con se stessi. Non meno bello.
Secondo aspetto, cinematografico, e non poteva non entrarci un accenno simile visto che alla sola parola western si spalanca un immaginario collettivo di celluloide. Guardiamo un po’ la sceneggiatura: Eli e Charlie Sister sono due sicari professionisti alle dipendenze del Commodore, un uomo prepotente e violento che spadroneggia in tutto il West. Eli, voce narrante, fa il killer perché non ha fatto niente di diverso, trascinato dal fratello maggiore di cui è succube. Charlie è magro, cinico e senza scrupoli. Ammazza anche per motivi futili. Eli, grasso, sensibile e meditativo, mette mano alla pistola se è costretto. La nuova missione dei fratelli consiste nel rintracciare un cercatore d’oro che ha in concessione una miniera vicino a Sacramento, rubargli la formula che ha inventato per scovare il metallo senza spezzarsi la schiena e ammazzarlo. Comincia così per i Sister un lungo viaggio che è una disordinata odissea che mette a dura prova i cinici principi di Charlie e la sensibilità di Eli. Sulla strada i due fratelli incontrano un uomo che piange senza sosta, una ragazzina intenta ad avvelenare un cane, un gruppo di prostitute truccate e vestite di pizzi, una strega, un orso, un indiano morto, una banda di cacciatori di pellicce, un dentista che offre una strana e sconosciuta pasta da mettere sui denti per pulirli, una tisica tenutaria d’albergo di cui Eli s’innamora. Quando troveranno la designata vittima, Herman Warm, una serie di redenzioni sono in agguato. Ma qui mi fermo.
Ora, capite che una trama del genere non poteva essere appannaggio di un John Ford o di un Howard Hawks. Qui c’era l’epica. Neanche di un Sergio Leone. Una fila di personaggi così squinternati possono metterli in fila i fratelli Coen e, perché no, Quentin Tarantino. Se misceliamo questi registi, troviamo DeWitt: violenza, invenzione, malinconia, humour. Dove le impennate comiche servono proprio per raccontare, se il western è violenza, di una violenza diversa, sgraziata, patetica, da prendere in giro perché non ha nulla di virtuoso.
E arriviamo alla generatrice di questa violenza: almeno in quegli anni, meta Ottocento, un esercito di persone, spesso con vestiti laceri, sognava di tornarsene a casa dalla California con pepite grandi come pagnotte. Siamo all’epoca della corsa all’oro, in cui il motto era mors tua vita mea, uomini che si aggrappavano a un sogno con un setaccio e un paio di stivali, uomini profondamente soli, spesso per scelta, che impazzivano di solitudine, con la morte ad assediarli: un serpente, una pistola dietro un cespuglio, gli indiani, gli sceriffi, i banditi, un puma, un grizzly. Eppure non retrocedevano dall’intento pur di scoprire un torrente dove luccicasse qualcosa. Era l’unico modo per restare aggrappati alla vita. DeWitt ce lo dice, la corsa all’oro, passata alla storia anche come “febbre” fu un vero e proprio morbo, un contagio capace di abbrutire chiunque. Oppure di fare reagire uno su un milione: come capita a Eli Sister che da sicario infelice a cavallo elabora uno zoppicante ma nobile proposito, ovvero intraprendere la corsa all’oro più autentico, quello che ciascuno conserva dentro. Ecco perché è l’io narrante. Ecco perché gli vorrete un sacco di bene.