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CriticaLibera: Si fa presto a dire inglesi

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Mi sono trovato di recente in una discussione amichevole nella quale venivano chieste le nostre preferenze in ambito di letteratura inglese. Venivano fuori i nomi di Shakespeare e qui… ma anche di Joyce. Voglio dire che in certi casi sarà bene essere formali e più realisti del re. E parlando d’Inghilterra il re, o la regina, sono imprescindibili.
Infatti, qualcuno si è inalberato come un pennone in una nave di pirati, altri protagonisti della storia di quell’isola, e io con loro. Ecco il mio pensiero: credo sia opportuno limitarsi ai sudditi di sua maestà e considerare Joyce estraneo alla compagnia. Lui e tutto il resto di quei bombaroli repubblicani irlandesi. Ai quali va peraltro una certa simpatia.
Il distinguo geografico, che consente peraltro di stringere il campo in fatto di citazioni, dunque è utile per non scervellarsi troppo, credo sia l’approccio adeguato anche perché le sensibilità politiche e nazionali nelle isole britanniche son roba delicata. Gli irlandesi, ma fra un po’ pure gli scozzesi, se si sentono dare dell’inglese, anche se riferito a una professione così nobile come lo scrittore, non so come reagiscono. Poi c’è l’aspetto di quel cavolo d’impero che gli inglesi hanno tenuto. Gli scrittori che nascevano nell’Ottocento, che so in India, magari a causa del mestiere dei genitori, ma che erano inglesi per motivi ereditari, culturali o antropologici, dovono essere trattati come tali. Kipling dunque è inglesissimo. Non è che abbia lasciato cose memorabili, comunque. Ora che l’impero non c’è più, una neozelandese o un canadese sono scrittori inglesi? Ritengo di no, anche se usano la lingua inglese e possono assumere connotati stilistici propri di una scrittura e di tematiche derivanti dal passato di colonia.

Guarda caso, per me, i due più grandi scrittori inglesi sono William Somerset Maugham e Joseph Conrad, entrambi nati fuori dal Regno Unito. Ma hanno cominciato la loro attività letteraria dopo essersi trasferiti in Inghilterra ed erano inglesi nel midollo da generazioni o lo sono diventati perché naturalizzati. Delle opere di Maugham scelgo “La luna e sei soldi”. Ci sono tanti mari del sud, non si staglierà però il profilo di Sandokan bensì quello di Gauguin. Per Joseph Conrad posso solo aggiungere che il mondo si divide fra chi ha letto e chi no “Cuore di tenebra”. Se avete visto “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola siete sulla buona strada.

Ora, la letteratura inglese ha tre caratteristiche interessanti: ci sono stati quei romanzi d’appendice nei tabloid dell’epoca per i quali esplose la stella di Dickens, ha avuto donne eccezionali e si scrivono gialli come se piovesse ai tropici. Una per una vi do un consiglio: se volete un Dickens più grande 100 volte non potete non leggere “La donna in bianco” di Wilkie Collins. Un feuilleton strepitoso. Sui gialli, ragazzi, starò sul classico ma i capi Armani si fan sempre apprezzare: “La maschera di Dimitrios” di Eric Clifford Ambler è una spy story micidiale. Poi pronti per la bestemmia: sulle donne per me non c’è paragone fra una Jane Austen e una Virginia Woolf, preferisco la pulizia della trama della prima a tutte le rifrangenze della seconda. È un po’ come avere da scegliere tra le Stanze Vaticane di Raffaello e Andrè Breton. Mai rinuncerò alle prime.

Venendo ai tempi nostri, “Espiazione” di Ian McEwan è imperdibile. È a livello non dico di un Philip Roth ma di un Franzen di sicuro. “Aspettando l’alba” di William Boyd non deluderà nessuno, ne ho scritto su Critica Letteraria.

E se non siete d’accordo su nulla, prometto che un giorno parleremo anche di colonie, di Canada, ma non del capolavoro di Richard Ford ma del Canada, perché fra Patrick deWitt, Michael Ondaatje, seppur nato a Ceylon, e sua maestà maestro jedi inavvicinabile guai a chi me lo tocca Mordecai Richler (“La versione di Barney” ovvero il libro dei libri che mi copre a metà il volto in ogni mio profilo, da twitter a facebook) potremmo pure divertirci.